Favole (La Fontaine)/Libro nono/I - Il Depositario infedele

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Libro nono

I - Il Depositario infedele

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro nono

I - Il Depositario infedele
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Vostra mercè, della Memoria o figlie,
delle bestie cantai l’umili imprese,
né potean procurarmi una più grande
fortuna di più grandi eroi le gesta.
Colle stesse parole onde gli dèi
parlan nel ciel, il Lupo entro il mio libro
sermoneggia col Can che gli risponde.
Nascon diversi eroi. L’uno è solenne
e l’altro è pazzo: ma tra saggi e pazzi
è Follia che trionfa. Ancor io metto
sulla scena e ne traggo un denso coro,
fior di bricconi, ingannatori astuti
e prepotenti e ingrati bighelloni,
sciocchi e striscioni e, se volessi, a mille
i bugiardi di cui trabocca il mondo.

- Ogni uom puzza d’ipocrita! - Un sapiente
l’ha detto. - E ver? - S’egli parlar intese
della feccia del popolo, potrei
crederlo un poco e allor saria minore
e sopportabil danno; ma che tutti
grandi e piccini sian bugiardi, a stento
l’inghiotto. O forse è un bugiardone Esopo,
è Omero un bugiardon? Nel dolce inganno
de’ sogni loro non risponde il bello
stile dell’arte onde s’infiora il vero?
E l’uno e l’altro su tal libro il falso
non hanno scritto, che dovrebbe eterno
durare e ancor di più, se non assurdo
è il dirlo? A tutti non è dato il dono
di sì belle bugie, ma posson tutti
frodar coll’arte di quel tal... Sapete
la bella istoria? - Orben, statemi attenti:

Pria di partir pe’ suoi lunghi viaggi,
un Mercante di Persia a un suo vicino
un cento confidò libbre di ferro.
Partì, tornò, poi del suo ferro chiese
al compare.
- Che ferro? - egli rispose.
- Ahimè! fratello, per un forellino
del granaio (e ne ho fatta aspra rampogna
a’ miei servi) sen venne un picciol topo,
che rosicchiò tutto il tuo ferro... tutto -.

A questo gran miracolo il Mercante
resta di sasso, tuttavia procura
di credere e sen va. Tre giorni dopo
ei fa rapire al suo vicino il figlio.
Lo nasconde ed il padre a un gran banchetto
invita; ma costui piange e lo prega
di piangere con lui, dicendo: - Amico,
d’un caro figlio iva superbo e tutto
il mio cor era in lui; mi fu rapito,
più non è gioia sul mio tetto, oh piangi,
piangi, fratel, l’orribile sciagura! -.

Disse il Mercante: - Sul tramonto io vidi
ieri un orrido gufo, che ghermito
il figlio tuo, traendolo pel cielo,
d’un castellaccio fra le vecchie mura
se lo portò.
- Possibile? - interruppe
il mesto padre. - E come può d’un gufo
l’artiglio sollevar d’un corpo umano
il grave pondo? in questo caso il bimbo
strappato all’uccellaccio avria le penne.

- Come avvenga non so: ma questo io dico
che l’ho veduto e con quest’occhi miei.
Mi meraviglio che tu possa in dubbio
metter le mie parole. E chi ti prova
che non possa rapir l’ugna del gufo
d’un fanciulletto il tenerello corpo
in un paese dove un topolino
mangia da solo (e non ne crepa) un cento
pesi di ferro? -
Allor comprese il padre
la velata morale e al mercatante
rese il ferro ed al sen strinse il fanciullo.

Non altrimenti il lungo alterco avvenne
fra due viaggiatori.

Un di costoro,
fabbricator d’iperboli, ogni cosa
vedea per microscopio, il qual giganti
fa comparir la pulce e il moscerino.
A sentirlo, l’Europa era percorsa
da centomila spaventosi mostri,
come vanno di Libia e Senegallo
per i deserti.

- Udite, - un dì narrava, -
ho fin veduto ne’ viaggi miei,
un cavolo maggior di questa casa.
- Ed io, - soggiunse l’altro, - una caldaia
più grande anche del duomo.
- Ih, fanfaluche!
- Fabbricata l’avean, - l’altro conchiuse, -
per far bollire i cavoli famosi
di cui tu parli, amico -.

Entrambi furono
spiritosi costor, l’uno col gufo
e l’altro colla pentola. Se gonfio
è l’assurdo, è stoltezza opporre a sciocche
ciarle sodi argomenti. Invece ingrossa,
gonfia anche tu la vuota ampolla, e ridi.