Favole (La Fontaine)/Libro nono/XVI - Il Tesoro e i due Uomini

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Libro nono

XVI - Il Tesoro e i due Uomini

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Jean de La Fontaine - Favole (1669)
Traduzione dal francese di Emilio De Marchi (XIX secolo)
Libro nono

XVI - Il Tesoro e i due Uomini
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Un povero diavolo,
che credito e speranza non avea,
e che a voltarlo come Sant’Andrea
non gli traevi dalle tasche un pavolo,
fu preso dall’idea
d’impiccarsi e finir la vita infame.
Se non era la corda, era la fame,
e questa è una tal morte poco acconcia
a chi non è ghiottone
d’inghiottire la morte ad oncia ad oncia.

Pel suo bisogno rispondeva a modo
il muro d’un cadente ballatoio,
dove porta la corda e con un chiodo
cerca attaccarla e farne uno scorsoio.
Ma al primo colpo dato all’apparecchio
si ruppe il muro vecchio
e scaturì dal foro
un bel tesoro.

Lascia la corda il nostro pover’uomo,
piglia il denaro e se lo porta via,
senza guardar se fa la somma tonda,
o se al bisogno suo giusta risponda.
Appena il galantuomo
sen fu partito, sul luogo venìa
il padrone, che invece del tesoro
non vi trovò che il foro.

- Oh il mio denar, come potrò senz’esso
vivere io mai? che attendo?
perché, perché qui tosto non mi appendo?
Se avessi solo un braccio
di corda, io ben vorrei farmene un laccio -.

Era pronta la corda a cui non manca
che l’uomo, e il nostro avar senza processo
vi si appiccò contento in conclusione
che della corda già nel muro appesa
non tocchi a lui la spesa.
Corda e tesor trovarono un padrone.

Avar non vive mai
senza corrucci e guai,
la terra, i ladri godon la fortuna,
e gli eredi, di ciò ch’egli raduna.

Che poi direm della fortuna strana
che gioca e si diverte
a far certe scoperte
e più gode se più si mostra vana?

Questa volubil dea
ebbe una pazza idea
di vedere qualcun in quel momento
pender da un chiodo, e fu colui che meno
avea ragioni di dar calci al vento.