Fede e bellezza/Libro terzo

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Libro terzo

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Neri il vestito, il cappello, lo scialle; neri i lunghi capelli, e gli occhi intenti e modesti; pallido e mesto il viso, bianca la fronte verginalmente serena; la statura alta, le forme snelle, ma non senza rilievo; languida la mossa del capo sovente dimesso, l’andare agile ma composto, gli atti in sé raccolti e severi; esile la voce dedotta dal petto profondo; raro e visibile appena il sorriso; frequente ma mansueto il cipiglio. Varia d’umore, e nei giorni neri tremenda; ombrosa, delicata fino all’orgoglio; non sensuale, ma sensibile, men delle fibre che della fantasia: impaziente de’ tedii, paziente de’ dolori; ignara del mentire sia con parole sia col silenzio; dell’ammirare lieta, bramosa e timida dell’amare.

Giovanni la vide in prima, che saliva sola nell’ore più sole il passeggio di Quimper che chiamano la montagna. Era di marzo. Il sole mattutino imbiancava o squarciava la nebbia, sì che le cime circostanti parevano tagliate e rifatte in forme nuove; e struggendo della neve ammontata, mostrava la nera terra e i massi biancheggianti, e qualche fil di verdura. Giovanni seduto a mezzo il poggio su un sedile di pietra, sentiva il canto degli uccelli che invocavano e presentivano l’ombre su per gli alberi ignudi; sentiva ascendere confuso il rumore della soggiacente città: guardava or al fiume mormorante, or al mare lontano, or agli archi arditi del tempio che, con la nave di mezzo inchinata a diritta, figura il capo di Gesù in agonia. E lo spettacolo di fuori, e i sentir suoi dentro, e le memorie proprie e dell’arte mescendo insieme, si perdeva in error di pensieri tra mesti e lieti, da cui (secondo l’ultimo che prevale) l’anima sorge o rifatta o più fiaccata che mai. Riandava in mente un canto di Dante, e giunto là dove dice: "innanellata pria || Disposando m’avea con la sua gemma"; sentì bisogno di sentire i vivi suoni delle dolci parole, e le gridò ad alta voce; al solito suo cupa sì che parevano parole d’ira. Ma e’ non aveva finito, che al sentir gente, si volse: e perché quivi la via svolta a un tratto e fa biscanto, si vide vicino il pallor di Maria. Il pallore, e il lungo suo sguardo; perch’ella all’intendere i suoni della sua dolce lingua, e versi a lei non ignoti, si sentì percossa di gioia simile a stupore e lo guardava fiso salendo a passo lento. Egli che col volto pareva talvolta dire il contrario del suo sentire, la guatò accipigliato: onde Maria abbassò gli occhi, tingendo di rossor languido il pallore suo bruno, e affrettò il passo ansando. Che italiana fosse, non sognav’egli; e avendo in Quimper veduti pallori di donne belli e sereni, e severi come d’imagini, credeva lei del paese: se non che nella modestia gli pareva intravedere non so che più sentito, e più sobbollente.

Giovanni, trovatosi in Francia per certi suoi casi, o piuttosto pensieri, stufo della mota di Parigi, e sentendo lodare la gente e il suolo della Bretagna, e che il vitto men caro (perché Giovanni era povero); deliberò d’andarvi a stare per un anno, tanto da cogliere qualche nuova ricordanza d’affetto, di dolore, e di poesia; ché a lui le tre cose eran uno.

Fu raccomandato a una signora parigina che peccava alquanto di lettere; già di là de’ quaranta, in quel dubbio autunno della vita, che non sai se aprir le finestre al sole o chiuderle al vento. La si confessava attempata, affinché la smentissero; esser vecchia con grazia, cioè con virtù, non sapeva. Il viso ammencito imbacuccava ne’ riccioli: il livido delle gote tingeva: rigoglioso il corpo, la testa passata. La bocca pari, e chiusa (segno d’anima fredda), non aveva sorriso ma sogghigno o cachinno. Quanti potessero della presenza loro solleticare la sua vanità, circuiva con sollecitudine urgente, lieta del farli parere più sensitivi, e più fortunati ch’e’ non volessero: e a questo fine sapeva (dotta di certi effetti d’amore) commettere certe imprudenze pensate, certe avvedute semplicità, e lasciarsi andare a certi calori a freddo, da dare appicco a certe calunnie più ambite da essa che verisimili. Si sbracciava per ottenere un cenno di riconoscenza pia: e di quel cenno trionfava nella vista altrui, come d’inizio di molte recondite cose. Buona, e culta della mente; ma la vanità la vacuava dentro, e i più veri sentimenti falsava. La vanità sola poteva in lei vincere l’avarizia: la vanità la rendeva sprezzante de’ grandi a sé inutili, agli utili china. Lodava i pregi altrui affinché della lode cadesse una stilla sui propri: alle occorrenze piangeva.

Fece a Giovanni sul primo accoglienza fredda: saputolo letterato, si buttava via. Egli credendo questi artifizi bontà non profonda ma schietta, e fastidiosa di natura sua, non corrispondeva, ma non rigettava; né carezze né pugni: messo al muro, faceva le viste di non intendere. Ben vedev’egli i giudizi ch’altri pensava e mormorava di lui: ma, non curante (con sua colpa e danno) de’ rumori del mondo, lasciava correre.

Un giorno a pranzo da lei, due settimane dopo il primo incontro, e’ ritrova Maria; che veniva a lavorare in casa: e ve la trattavano con rispetto, sì perché così vogliono un poco i tempi, sì perché Maria era tal donna da ornare una tavola e un discorso qualsiasi. Quando la signora li disse l’uno all’altro italiani, a lei di gioia fiorì sul viso il rossore, egli rasserenò la fronte accigliata dall’uggia della straniera compagnia; ma lieto non parve. Ignote gli erano e temute le noie improvvise.

C’era, venuto di Parigi, un letterato di provincia, il quale ai parigini difetti toglieva quell’agilità che li invola a ogni momento allo sguardo, e li fa quasi cangi: già stato de’ sansimonisti; formulatore (come in Francia dicono) per la vita. Parlava sempre; tante cose belle aveva da porgere: e la signora era beata del pur sentire un uomo tanto innanzi nelle vie del secolo. Cadde il discorso del cristianesimo: l’uomo, com’è da credere, disse il cristianesimo cosa ita. Maria domandò: Perché? Il Francese con un sorriso: oh signora, voi lo sapete meglio di me. A ciascuna religione il suo tempo: la cristiana fu buona nel suo: adesso altri bisogni...

Maria: che bisogni?

"Dio buono! Il mondo esterno, la materia, la metà della vita... tutto codesto Gesù non lo vide, e non solamente non vide, ma insegnò avere in odio".

"Domando scusa: i’ ho letto il vangelo; e inteso che Gesù Cristo insegnasse far del bene anco materialmente agli uomini, e ne facesse. Ma i beni materiali volev’egli che l’uomo cercasse per altrui, non per sé: che non mi pare sproposito."

Giovanni che parlava stentato il francese (lingua da lui stimata pe’ suoi vecchi prosatori, compianta per lo strazio che ne fanno oggidì deputati, poeti, e bottegai), resse Maria: la qual rispondeva interrogando: e questo impicciava forte il Francese. Da quel punto si piacquero.

Giovanni a cui la sicurezza dell’essere ascoltato con affetto concitava la parola restìa, prese a dire: "sul termine del secolo andato, uomini ardenti gridarono, la vittoria de’ pregiudizi certa, e quella ch’eglin chiamavano filosofia, trionfare. E avevan armi e patiboli e leggi e stampe e coraggio; ed eran prodighi dell’altrui sangue, del sangue proprio. Ma i pregiudizi decapitati si rizzarono e camminarono. Alta cosa l’entusiasmo; ma se crudele e funesto a se stesso, è, se non misfatto, follia".

Il Francese annaspicava: e non più di tolleranza e di repubblica e d’umanità, ma parlava di gloria. Giovanni, lontano da ogni politico eccesso, poteva queste cose dire senza taccia d’ipocrisia venale né di servile paura.

Da quel giorno accettò più sovente i desinari della signora dotta, sebbene ci patisse, e vedesse come costei si credeva di fargli regalo grande: li accettò quando sperava trovarvi Maria. Profferse timidamente d’accompagnarla a casa, ed ella dubitando acconsentì. Osò pregarla di lavorare per lui; e a tal fine, si restringeva nelle altre spese pur per avere come vederla; ella sospettava di questo; ma lo credeva men povero, e poi non avrebbe saputo negare a sé l’occasione di parlargli: e tirava in lungo il lavoro acciò che queste congiunture durassero senza grave danno di lui. Egli le parlava di sé: poco poteva rilevare della presente di lei povertà, de’ suoi anni passati. Ben seppe dal primo dì che maritata non era: il resto imaginava, come si suole, parte meno, parte più bello del vero. L’amore s’illude non solo in bene (sentenza vecchia) ma in male. Dove le illusioni in bene svaniscono, l’amore intiepida; dove l’altre, s’infiamma.

A Giovanni l’entrata prima nelle vie dell’amore, quasi sempre ebbe non so che come d’infausto. Egli, con le comparazioni sue strane, l’assomigliava al tragitto che mette a Venezia per la muta laguna; che, nel radere, lungo i pali schierati, quelle sterili isole e meste, tu non imagini lì vicino tanta pompa di colori, di suoni, d’agi, di rimembranze. — Ma il presente amore era a lui più de’ soliti sereno e queto; come sole che dopo molt’ore torbide e dubbie, rallegra di dolce saluto l’aria tranquillata, e le terribili acque composte, e le forti piante che non muovono fronda.

Passeggiavano di tanto in tanto, in compagnia sempre d’una pigionale di Maria, più giovane di lei, ma che pareva più esperta delle cose del cuore. Era una sera di maggio. Da levante leggiere nubi rossigne cingevano l’orizzonte quasi di fascia delicata; e sopra il rosso, un colore tra il candido e il celeste, con nubi qua e là biancicanti. Da occidente un candor vivo e diffuso con rossor poco: la luna novella: il resto dell’orizzonte lucido e quietissimo di pace allegra. E ragionavano delle cose ad entrambi note e dilette: e in parlar d’altro, mostravano meglio il cuore proprio, che a parlare di sé.

Ragionavano dell’Italia: di te, dolce Siena: erravano col pensiero nel duomo fitto d’immortali memorie, s’inginocchiavano con l’anima al crocifisso di Montaperti; e sotto la piena de’ secoli passati gemeva dolcemente oppresso il pensiero. Maria amava Siena come madre lontana, e caduta di stato, e bella e giovane tuttavia, e ignorata dal mondo. Giovanni l’amava come casta e candida amica, come un gioiello dell’arte, come un fiore più bello tra bellissimi, come il nido di dolci suoni, di forme care, come un’ideale bellezza. E raffrontava quella città toscana non grande a non grande di Lombardia, Siena e Crema. E Crema diceva più ricca, e bella anch’essa del celeste sereno, né povera di forme leggiadre né d’animi schietti; e a lui cara per un amico che quivi gli aveva collocato Iddio: ma né il Serio né l’Oglio valevano a lui Fontebranda; e le quaranta carrozze dei signori cremaschi avrebbe date per una assicina di bara antica dipinta da mano senese.

Aveva egli chiesto di vedere dalle finestre di Maria la processione del Corpus Domini, smessa in Francia da più anni, or ripresa. Il cielo, di tetro, s’era d’un subito fatto lieto; la gente empieva le vie. Le vie ornate di tabernacoli con istatue, con vasi d’argento prestati alla breve pompa; le mura d’arazzi, le finestre di tappeti, la terra di fiori. I ricchi a’ terrazzini; i poveri giù, lieti quasi di gioia domestica, di gioia novella: que’ di campagna più composti insieme e più contenti. Sola qualche fronte tra tante accigliata. I colori varii de’ cappelli e del vestire distinguon la calca, tacita sì che lo scalpiccio de’ piedi è il rumore più alto. Le trombe e i canti annunziano la processione che viene: bambini e bambine vestite di bianco portano l’imagine della Vergine; soldati assiepano di moschetti il sacramento; e sui preti parati e sul baldacchino un nembo di fiori. Le madri mostrano a’ bambini Gesù; altre fanno mostra di sé: qualche sapiente vorrebbe scherzare; ma di queste nuov’onte fatte alla filosofia si sente sdegnoso; e appena ridestano l’antico suo ghigno i turiboli librati in alto da’ chierici con difficile maestria. Questo spettacolo commosse Giovanni. E’ diceva: ha fiori ancora la terra da spargere sul capo immortale del povero crocifisso. Questo nome da venti secoli calunniato e deriso, c’è chi l’adora". Maria nel vedere una donna incinta allato ad un vecchio disse: "chi sa che tra poco a codesto uomo questo crocifisso non venga confortator della morte? Chi sa che a noi? Chi sa se quella madre preghi a Dio pe’ destini del frutto ch’ell’ha nel seno? Noi non preghiamo ciechi per l’avvenire, ma per il presente; e non nelle gioie. Pietoso dono il dolore!"

Sfollata la gente, erano ancora a una finestra loro due; Matilde all’altra, la pigionale e custode di Maria; stufa di que’ lunghi discorsi in lingua a lei barbara; sì che in suo cuore mandava di là da Roma gl’Italiani e l’Italia. Gli era sull’imbrunire, quando una pioggerella fine incominciando faceva correre le donnuccole ridendo tementi per l’unico cappellino. Ecco veggon passare la donna dotta: che, aocchiatili, con la scusa d’aspettare che spiova, degnò salire nelle stanzuccie della cucitora di bianco. A certe scappate di popolarità, quando le quadrassero alle sue mire, la ci si lasciava ire a sommo studio; perché le negligenze stesse di lei, donna erudita, erano pesate e gravi. Consumata in esperienze d’amore, la s’accorse in breve del senso che Giovanni destava in Maria, e Maria in lui. Sul primo, superba d’avere lavorante tale per casa, ne parlava con lodi lunghe; poi intiepidì. Se non che di tanto in tanto domandava con voce bassa e quasi svogliata, ma con occhi tesi come uncini, a Giovanni, quant’era ch’e’ non avesse veduta Maria. Egli che mai non le aveva voluto concedere neppure il pretesto di certe pretese, o rispondeva secco o s’allargava apposta in lodar la Senese. L’altra taceva o prendeva un aspetto di mortificazione virginea. Giovanni faceva le viste di non intendere niente affatto: e’ pareva in amore un coso tra il collegiale, l’arcade e l’ostrogoto.

Dell’animo di lei s’addiede Maria: ché tra donne si frugano con un’occhiata: né più ci rimaneva a desinare i dì che andava a giornata. Quando Giovanni se ne fu accorto, anch’egli diradò. Senza Maria s’annoiava. Gli erano già note le conversazioni parigine, che, sfiorita che sia la novità, come s’entra un po’ sotto a quell’orpello di faceziuole spicciole e di graziosità prestabilite, non ci si trova base né d’idee né d’affetto. Pensa, in provincia. Ma e’ non si potette tenere un giorno dal domandare a Maria perché avesse smesso. Ella che questo aspettava come cenno d’affetto, si turbò dalla gioia; e del turbamento fu più confusa che mai. Rassicurata rispose (e questo era vero) d’essersi accorta come a quella signora paresse un gran che il trattenerla a pranzo; e come, forse non volendo, la gliene aveva fatto capire. Da quel giorno non si sedette più alla sua tavola. Poi balbettando, mostrava d’aver qualcos’altro sul cuore: e dopo qualche esitazione, fattosi promettere prudenza; disse: "Io credo l’animo di questa donna non tanto sincero quant’ella vanta. Gli è una piccola cosa; e se l’avesse fatta a me, non ci baderei; ma... Un giorno si discorreva di religione: voi professavate le vostre credenze, sul serio come solete e come si deve: ella guardò a suo marito (del quale a momenti l’incredulità le fa schifo: e lo dice): e ammiccò sogghignando con un’aria che mi fece male".

Maria in così dire arrossì: Giovanni commosso: "lo so: me ne sono avveduto: ma a queste cose, sapete, io non bado. Vi ringrazio però dell’avermelo detto, Maria".

Quel nome pronunziato là in fine, la consolò.

"Fra Italiani mi parve dovere avvertirsene. Non ne sarete, io spero, offeso né contro di lei né contro di me."

"Contro di voi?" esclamò Giovanni; e non osando prenderle la mano, le stese la sua. Ella mostrò di non se ne avvedere, e lo guardò tra affettuosa e accorata.

Non la potendo vedere in casa terza, e’ cercava le occasioni d’andar da lei; ma si peritava, sì per un po’ d’orgogliuzzo e sì per riguardo. Ella più lo desiderava e più mostravasi riservata, memore del passato, e tenuta a dovere dall’occhio della Matilde, la sua pigionale; ch’era, tra il pazzerellone e l’astóre, una buona ragazza: nata a Valenciennes, ma, da piccola, stata sempre a Quimper con sua madre che quivi morì.

Se roba v’era da riportare a Giovanni, v’andava Matilde. Un giorno, egli che già s’era accorto delle strettezze di Maria, volle entrarle di questo. Ma trovare il verso da presentare la cosa per benino a quel capettaccio della Matilde, qui stava il punto: e Giovanni ne’ discorsi punto punto difficili, annaspava a maraviglia. Ma fattosi cuore incominciò:

"Matilde, posso io dirvi una cosa?"

Ella che, alto alto, capiva già: "due, tre delle cose".

"Ma voi m’avete a dire la verità."

"Naturale."

"Da poco in qua mi pare che non abbiate troppo lavoro, voi altre."

"Si campa."

"Si campa: ma come?"

"Si campa: e tanto serve."

"Mi pare di non v’aver detto cosa da offendere: scusate."

"Anzi grazie: scusi lei."

Giovanni al sentirsi così tagliare le gambe, non osava riattaccare il discorso: ma vedendola ripigliar la paniera, con ansietà mal repressa: Sentite, Matilde, soggiunse: voi m’avete a promettere che in qualunque siasi bisogno di Maria e vostro...

"E mio?"

"Vostro e di lei, certamente."

"Ma per chi la mi piglia? Conosco: sa ella?"

"Conoscete ch’i’ ho della stima per una persona."

"Oh così: per una. Ma che c’entro io?"

E’ voleva rispondere; ma Matilde guardatolo fiso, continuava:

"E poi, la stima! Si sa quel che vuol dire la stima degli uomini per le donne."

"Che cosa?"

"Sul primo voglia, e da ultima noia."

"Oh cara Matilde..."

"Cara Matilde, cara Matilde! Le so io, queste cose. Non le ho provate, ma tanto..."

"Se le aveste provate voi, allora potreste discorrerne."

"E se le avessi provate io, per modo d’esempio?"

In così dire Matilde tirava un par d’occhi spiritati e si faceva rossa.

"A quel che pare, vo’ avete un tristo concetto degli uomini: non credete che ce ne possa essere degli onesti?"

"Onesti a barche. Gli uomini quando non rubano, e che non fanno la spia, sono onesti. Ma canzonare una povera donna, scherzar coll’onor suo, rubarle la pace forse di tutta la vita, oh codesto, come bere un bicchier d’acqua."

"Scherzar coll’onore! Matilde, voi non direste così se sapeste quello ch’io provo."

"Quel che provate voi? poverino! lo so a mente io. Un gran dolore, qui, dalla parte manca: non è egli vero? Un gran vuoto. Oh tutti hanno il vuoto. Qualche romanzuccio, e’ si legge anche noi, sa ella?, nelle ore perse."

"In somma, Matilde, non mi fate disperare."

"A risico!"

"Io non dico che negli anni più spensierati, non abbia anch’io..."

"Corsa la cavallina? In nome di Dio, eccone uno che dice un minuzzolino di verità."

"Ma se voi mi leggeste nel cuore, v’ispirerei un po’ di pietà."

"Può essere: non ci ha nessunissima difficoltà."

"Matilde, da banda le celie. Io vorrei persuadere Maria..."

"Gliene dica."

"Non credeste ch’io voglia... Troppo vi stimo. Ma mi pareva che, come ad amica sua di cuore, io potessi aprirmi a voi. Se v’avessi offeso, scusate, ripeto."

A queste parole Matilde abbonì: e pur volendo far la sdegnosa, borbottò, m’a stento: "allora siamo d’accordo." E usciva. Giovanni la ritenne per un braccio, e guardandola fiso: voi non siete corrucciata meco, Matilde? Ella lo mirò con cipiglio di sospetto e con occhio commosso; e scrollando il capo: ah son pure birboni gli uomini!

Non era in Giovanni né vana curiosità, né pretesto a ficcarsi, il desiderio di sapere le angustie di Maria; voleva sovvenirla, e poteva: non per sé, ma un amico gliene avrebbe fornito il modo, pronto a prestargli quanto danaro e’ volesse, e impronto ad offrirgliene quant’altri a chiedere: un Italiano dalla sventura sbalzato in Bretagna, che per aver con che provvedere a’ suoi studi e a’ bisogni altrui, si cibava, de’ mesi con de’ mesi, di pane e latte: e una libbra di carne la faceva fare ribollita, riscalducciata, rifatta cogli erbucci, cinque dì della settimana: uomo d’antica semplicità che solo bastava a lavare negli occhi dello straniero l’Italia delle macchie d’altri suoi figli, se lo straniero sapesse essere pietoso e giusto alla sventura. L’amicizia di tali uomini consolava d’ogni suo tedio Giovanni: il quale soleva paragonarla al prospetto di ridente pianura che appaia improvvisa dopo il salire di lunga via disastrosa.

Matilde nel ritornare si sentiva turbata in modo uggioso: troppo le pareva d’aver detto; e pensando le proprie parole, e le parole e gli atti dell’Italiano, scopriva a un tratto in lui certa sincerità tra timida e altera, che la faceva quasi pentire della sua diffidenza. Le donne, di sincerità se n’intendono quando vogliono; e poi, dal diffidare al fidarsi passano qualche volta con facilità grande. Sin dal primo Giovanni gli aveva più fatto paura che dispiaciutole: non lo capiva. La natura italiana è a’ Francesi come un libro latino: quand’anche lo intendano (che non è sempre), lo sciupano pronunziando. Ma le donne, men vane e di più cuore che gli uomini, ci azzeccano meglio.

Matilde aveva nelle sue maniere pazzesche non so che di piacente, che bisognava darle retta: snelle le forme, armoniosa la voce, lesta la parola, leggiero il rossor delle guance: negli atti e vivacità e quiete molta; tanto nella rapidità eran leggiadri. Ma da quella pace balzavano più vividi gl’impeti dello sdegno: e la fronte, serena più che di donna francese (le più non han fronte), si rabbruscava con minaccia sinistra, poi subito si componeva alla pace di prima.

Ella veniva pensando al sentimento nuovo dell’animo suo, e quasi spaventata diceva: "sta, vedi, che questo Italiano è venuto per rompermi le tasche davvero. Eh, ma or ora la finisc’io". Così entrava inquieta: e Maria sen’accorse; che non diffidava punto di Matilde; ma le disgrazie le avevano insegnato a temer di se stessa.

L’altra non voleva né attizzar l’amore de’ due, né metter male: e il nuovo senso provato or ora, le era nuovo scrupolo che la impicciava. Maria cominciò:

"Tu ha’ le lune. Se’ stata da lui? T’ha detto qualcosa?"

"Nulla."

"Me lo dici d’un modo..."

"Al modo che so."

"Ma non si potrebbe sapere il discorso che t’ha fatto imbronciare così?"

"Discorsi degli uomini! Dargli retta."

"Gli è dunqu’entrato nel patetico teco?"

"Meco? Fammi il piacere, smettiamo."

Maria, tra l’affetto e il sospetto, voleva pur raccapezzare qualcosa, e temeva d’offenderla; e la guardava fisso: l’altra indispettita, canterellava in francese. Questo, a Maria, pareva una canzonatura; e:

"Stamane tu mi fai de’ misteri."

"E tu mi fai de’ miracoli."

"Insomma nelle cose io ci vo’ veder fino in fondo."

"Se la ci vuol veder fino in fondo, oh la ci vada."

"Sicuro che ci anderò."

A Matilde venne sulla bocca una risposta crudele, quando s’accorse che la cominciava a perder la bussola, e che il torto era suo. Però ravveduta, ma non abbonita:

"Insomma tu vuo’ sapere il discorso suo, non è vero? Domandava se tu eri più tribolata di lui, domandava. Ora tu l’ha’ saputa."

"E perché domandava codesto?"

"Il perché? Non lo conosci il perché degli uomini tu?"

"E nel parlarti, come ti parv’egli?"

"Faceva il viso patetico, va. Ma poi chi lo ’ntende? Vo’ altri Italiani siete una razzaccia cupa."

"Come sarebbe a dire?"

Matilde s’avvide di nuovo che usciva della carreggiata: e delicata com’era, volle finirla di questo negozio con altri e con sé: onde seduta di faccia a Maria, e cangiando tono, le disse: "senti Maria: non accade andar per le lunghe. Quell’uomo ti vuol bene, e tu gliene vuoi. In que’ suoi fari ci leggo poco: ma galantuomo mi pare. Questo te lo dico una volta per sempre; e me ne lavo le mani. Cogli innamorati gli è un brutto impicciarsi: meglio non ci mettere né sal né olio. Credigli, non gli credere: fa quel che Dio t’ispira: io non vo’ rimorsi né rimbrotti; e non intendo né anco portare il candelliere. Se la mia compagnia guasta, dimmelo, sorella mia, e io..." Qui la buona fanciulla si sentì commossa e tremare la voce. Maria, l’abbracciò con tanta pietà con quanto non aveva abbracciato altri che suo cugino al mondo. Tacquero un poco; poi parlarono di tutt’altro con voce sommessa, guardandosi come persone che si riveggano dopo lunga assenza e lungo patire.

Da quel giorno Matilde cansava con cura quasi trepida ogni occasion di dissapore; e se parola gli veniva detta non torta ma men ch’ilare e mite, la riparava con quante amorevolezze cordiali potesse mai. Temeva la povera fanciulla di romperla con Maria, e doversen’ire. Quand’entrava Giovanni, ella di lì a poco con una scusa se n’andava nella stanza sua; e lì, parlassero piano o tacessero, rimaneva sospesa come a chi manca il fiato. Bisognava ripregarla venisse; e Maria, sì per amore di lei, sì per riguardo di sé, la forzava a venire con loro le poche volte ch’uscivano.

Una sera se n’andavano a passo lento in silenzio: la luna, ora leggermente velata, or tuffata nelle nuvole spesse, nuotava in esse; e pur nel vincerle, torbido aveva l’aspetto, e segnava ombre incerte, e tremolava quasi svogliata sull’acque: correndo per poco in un tratto di ciel puro, imbelliva, poi, rintorbidata, si perdeva nel fosco. "Così la mia vita" disse Giovanni. Maria soggiunse: "e la mia." Matilde tacque; e quelle parole, senza ben sapere il perché, le facevano male.

Cadde il discorso sulla signora Teodolinda, la letterata suddetta. Matilde, pur per dire qualcosa e per mostrarsi di buon umore, si mise a scherzarci con quelle parole delicatamente crudeli che le donne sanno. Giovanni a cui qualche volta gustava lo scherzo, anche amaro, troppo più che ad uomo malinconico e affettuoso non si convenisse, ci aveva genio: ma Maria non amava sentir mentovare codesta donna né in bene né in male. Que’ due, ubriacati nella celia, vennero a questa di fare un paragone tra la signora Teodolinda e la cuoca sua, donna sui venticinque, dal viso tanto ingenuo e amorevole quanto l’altra impiastricciato e di finta; la voce agile ma lungamente vibrante, lunghi gli sguardi, candida la carnagione come di persona allevata negli agi, con certi rossori improvvisi che le donne agiate poco conoscono; patita come suole ragazza nubile oltre al desiderio suo; arguta nella bontà. Giovanni affermava che, tra una letterata e una cuoca, e’ piglierebbe sempre la cuoca.

Il celiare ostinato, e il parlar d’altre donne, e l’andar tanto d’accordo Matilde e Giovanni, afflissero Maria e l’irritarono: onde, rimaste sole, gliene fece capire con parole durette. Si bisticciarono. La mattina dopo, Matilde, che aveva già da una famiglia di suoi parenti ricevuto invito d’andare a Pontcroix, disse che la ci andava, non sapere per quanto. Maria rimase umiliata, senza parola. L’orgoglio ripugnava a pregare: ma la coscienza e l’affetto vinsero. Chiese scusa; pregò non la lasciasse sola, confessò la propria debolezza, il pericolo. L’altra, combattuta da affetti diversi, e gentili tutti, non sapea che si fare: ma sentì quella vita esserle omai insopportabile: e, promesso di ritornare fra breve, e fingendo allegria chiassona; e sorridendo col cuore straziato, e, abbracciando strettamente la misera amica sua (che l’accompagnò fino alla piazza dov’era la vettura, e entrò seco a pregare in una chiesetta gotica lì vicino, e la riabbracciò molte volte piangendo) partì.

Maria divenne tanto più riservata quanto più libera, e quanto più lieta in core dell’essere sola. Ma questa gioia dissimulava a se stessa; e pensando a Matilde, n’aveva come rimordimento. L’amore intanto, il quale nell’anime distratte da altro affetto o dolore, s’insinua meglio, lavorava. Allora si condussero a raccontarsi la propria vita, e fecero la scampagnata che ho detto. Conosciutisi meglio, amarono l’uno nell’altro, e compiansero, i propri difetti. Perché l’amore che risulta da un difetto confuso ad un pregio, è più tenace in noi miseri.

Giovanni stava a dozzina da una buona donna di Normandia, che gli voleva bene; leggiera a vederla più che invero non fosse. Quella voce che pareva, strillante e senza accento, sdrucciolare inavvertita fuori dell’anima, di tanto in tanto sonava o soavemente sommessa, o lenta e come impressa de’ moti d’entro: quegli occhi che vagavano qua e là impazienti; ad ora ad ora si raccoglievano in un lungo sguardo, possente di languore intenso. Piccoletta e grassoccia, e più bella che avvenente, aveva in sé tanto da sperare un affetto, non tanto da eccitarlo profondo. Il marito, perso in viaggi continui, la lasciava da banda come arnese casalingo, inutile ad uomo pellegrino. La s’era abbattuta a uno di que’ Polacchi che imbevuti delle empietà francesi del secolo passato e delle cupidità del presente, s’ingegnavano di ridurre in danaro contante e in piaceri senz’amore, la gloria, i dolori ed il sangue de’ loro pii ed animosi compatrioti. Da costui fu rubata, insudiciata, tormentata: ora da più d’un anno viveva in quella pace morta che vien dietro a guerreggiar faticoso, quando le memorie tengono luogo di desiderii.

Ma Giovanni con la sua negletta e cordiale semplicità le accostava. Il quale ne l’era grato, ma non la voleva ingannare: se non che quel sorriso mesto di lui, che diceva: noi non ci possiamo amare, o sfortunata, ella traeva appunto a senso d’amore. Oh se noi conoscessimo gl’inganni tutti che ordisce a noi il desiderio nostro, che umiliazioni affannose!

Fece un giorno Maria con esso un’altra giterella in barchetto sul far della sera. Vennero a discorrere del bretone Abelardo: Maria diceva di lui che non sentì mai l’amore, perch’amore è umiltà; Giovanni teneva il contrario, e a torto: e quel giorno le contraddiceva malgrado suo quasi; e pur voleva finire la disputa, e non sapeva spiccicarsene. Ma alla fine tagliò corto, e venne di lancio a quel che più gli premeva. Accennò della sua padrona di casa, esagerò un poco il pericolo, per pregare Maria lo salvasse prendendolo a dozzina lei: ma il discorso mal preparato non attaccava; e Maria voleva pur ricusando manifestare l’animo suo. L’altro non ne dava il destro alla sua modestia: ed ella più era desiderosa, e più s’irritava. Le venne detto alla fine: troppo ho sofferto in vita mia. Egli, con quella semplicità tra d’affetto e d’orgoglio, che fa dire tante parole frantese, e che impiccia le faccende, soggiunse: credete voi, Maria, ch’io possa farvi soffrire? Ella lo guardò con cert’occhi che gli davano del buon uomo molto evidentemente; e senza rispondergli, al navicellaio accennò di dar volta. E tornarono senza fare parola.

Ma egli volle riaversi; e con quella franchezza alla quale la donna o ubbidisce o si ribella per sempre: "Ma no" disse a un tratto; "io non sono contento di voi. La proposta mia meritava un rifiuto più schietto. Non mi rispondete ora: ci vedremo domani." Maria sorrise; lieta, come le donne sogliono, dell’essere comandata; e promise di dire. E si lasciarono contentati.

Il giorno dopo uscirono insieme: salirono per un sentieretto a cui fanno spalliera or i massi, or le siepi, ora gli alberi. Le pietre, mosse da’ loro passi, rotolavano saltellando alla valle: sopra e sotto s’udivano voci bretoni senza vedere di chi. Giovanni soffermatosi:

"Dalle vette" disse "la natura si domina, non s’ammira: s’ammira dal basso in alto: si gode pienamente da’ luoghi acclivi, quando lo spettacolo è sopra il capo e sotto a’ piedi. Dalle alture supreme l’ondeggiar de’ terreni sparisce; e le selve paiono quasi macchie: da mezza l’erta si vede più al vero; e le altezze circostanti, umiliando, v’esaltano. Vedete i monti salire arditi, e respirare nel puro del cielo; e le cime rincorrersi, e riposarsi, e rincorrersi nuovamente".

Tacquero. Non voleva Giovanni rammentarle la promessa d’ieri, per quel suo antico vezzo in amore, di lasciar molto fare in sul primo alla donna; ch’era non tutto timidità, ma voglia di sperimentare, ed orgoglio. Maria, quasi scossa da altro pensiero, e prendend’animo da quel silenzio a entrare come disperatamente in materia:

"Veniamo a noi. Ma promettete di non m’interrompere".

Promesso ch’egli ebbe, la cominciò: "Giovanni, io vi stimo; e perdere la stima vostra mi sarebbe dolor grande: e non più saper nuove di voi mi pare che difficilmente comporterei. L’affezione mia, mi prepara ella nuovo dolore o pericolo? Non lo so. M’amate voi?... Non rispondete di grazia: che neppur voi lo sapete. Solo due prove certe ha l’amore: la noia e la sconoscenza. Se a queste resiste, dice davvero; se no, gli è affezione, solletico, patimento; amore non è. Ma se voi veniste a volermi del bene, e s’io a voi, bisogna pensare alla fine. Una sola io ne voglio: e questa impossibile. Io sono povera..."

"Ed io?"

"Io sono stata colpevole..."

"Ed io?"

"Lasciatemi dire" (ma Maria che senz’esse avrebbe seguitato titubando, di quelle interruzioni fu lieta). "Il passato m’è scuola: e questo temer di me stessa, m’è pegno che saprei vincere. Ma bisogna badare anco al mondo: e già, credete voi che il nostro essere insieme sì spesso non dia che dire? Gli è tempo di risolversi, ora che si può a sangue freddo: se amate la mia pace, Giovanni, non direte di no. Seguitare a vederci sarebbe o colpa o tormento, e materia inutile di calunnie. O non m’amate, e smettiamo; o vi pare che un giorno potrete volermi un po’ di bene; e dividiamoci; lasciamo Quimper l’un de’ due. Se siam destinati, io a confortare la vita mia della vostra, voi a sostenere il peso della misera mia; Iddio, Giovanni, ci saprà ricongiungere, Iddio."

Tacque: né seguitare avrebbe potuto senza commoversi più che la non volesse. Egli all’inaspettata proposta, sul primo rimase, poi vide d’aver fatto più strada di quel che sperava: onde rispose:

"Se così vogliono la pace vostra, e le speranze del mio amore, del mio amore, Maria" (e le prese la mano, ed ella la ritrasse, chiedendo dell’atto quasi scusa con gli occhi); "obbedirò, ma ad un patto: che ci scriviamo sovente".

"Quanto la mia povertà mel’ concede: perch’io non permetto che affranchiate. Siamo (e m’è gioia il pensarlo) poveri tutti e due. L’amore del resto si prova con altro che con lo spendere. Ci scriveremo ogni quindici giorni."

"Come volete. Ma poss’io chiedervi, Maria, una promessa? Se un’occasione vi si presentasse..."

"Lo saprete, prometto; e Maria, questa sfortunata che voi vedete, non ha mai promesso invano. Io da voi promesse non chieggo."

"Oh l’avete non chiesta, o Maria."

"No, no, siate lento al promettere. Chi prevede il domani? Altri già mi promise. Io sono avvezza a..." (qui, per non piangere, tacque).

"Io non dirò che m’offendete: ma voi mi trafiggete, Maria. Se mi vedeste nel cuore..."

"Credo al cuor vostro: ma non ispero."

"Desiderate voi almeno? Ditemi, desiderate?"

"E se ve lo dicessi, sarei io più amata o più sicura di voi?"

"Oh Maria, oh simile a me negli errori e ne’ dolori; oh serbatami da Dio, dal buono Iddio; o moglie mia!"

Fermarono che fra tre giorni e’ partirebbe per Parigi: e partì. Si dissero addio senza lagrime, con quella gioia sommessa e soavemente agitata che nasce da una lontana, e né sicura né troppo incerta speranza.

Matilde scriveva a Maria, consigliandola con ischiettezza d’amica e come di spassionata, a credere alla bontà di Giovanni e diffidar della propria. Lui partito, Matilde tornò. Ma qual fu lo stupore di Maria, al sentirle dire di secco in secco:

"Mi marito, sai? Ho trovato un uomo... un impiegato: tarpàno, figliuola! ma buono".

"Lo canzoni già, pover’uomo! Si comincia bene."

"Non lo canzono io. Meglio vedere i difetti, prima che poi. Mariti dotti, mariti vispi, non ne voglio io. Questo almeno so che sarà sempre il medesimo sino in fondo. Lo conosco da bimba."

"Sì, ma se gli ha essere un gianfrullone proprio."

"Chi gli dice gianfrullo? Gli è un po’ duro: ma ragiona bene quando ci si mette: meglio di me."

"Ti piace?"

"Non mi dispiace. Lo vedrai quando vieni alle nozze."

"Ma dunque gli è bell’e conchiuso. Me ne parli in un modo... Matilde, ci hai tu ben pensato?"

E Matilde, mutando voce e colore: sì, che ci ho pensato: bisogna finirla.

Maria, come sbigottita di pietà: ma tu hai cosa in cuore che non mi vuoi dire.

"Nulla: e per essere più sicura di non ci avere ma’ nulla, piglio marito."

"Ma s’egli dovesse fare la tua infelicità?"

"Eh via! Chi non vuol essere infelice, non è. Per non essere infelice, io ci ho un rimedio bellissimo, e te lo dico subito: basta non voler esser felice. Allora si campa, si tira innanzi per infino a quel giorno che, allegra o trista, la scena finisce. Sorella mia, chi gli ha meglio, gli ha peggio. Del tuo non parlo: non lo conosco. Onesto mi pare; e piacente è, appunto perché non si studia di piacere: e so che t’ama. Infelice non sarai, spero. Io pregherò per voi due."

Poi mutava discorso; e parlava del suo damo, or affettando dispregio or tenerezza chiacchierina e chiassona più dell’usato.

Giovanni da Parigi scrisse lettera poco tenera al vedere; e che per questa più piacque a Maria; con molte audacie liriche ch’erano il suo naturale linguaggio; e ella omai c’era avvezza. Tra l’altre cose diceva:

"Rintoppai nella vettura una giovanetta zoppa, già conosciuta a Parigi, il cui pallore giallastro rischiaratosi con gli anni, permette esser piacente a quelle forme non ben digrossate. E rammentando la famigliarità timida e confidente del suo sguardo d’un tempo, e raccapezzando i discorsi d’allora e d’adesso, deduco, se non è vanità (e chi mi dice non sia?), che la mi volesse del bene. Ma né prima intesi, né ora volevo intendere; e pur m’era dolce discorrere seco. E nel lasciarla mi costò non le chiedere dove stesse a Parigi. Pure m’astenni. Ecco confessati e il fallo e il merito. Sarete voi del par sincera, o Maria?

"Mi conforta qui la compagnia d’un amico vero, e come fratello; quieto uomo, ma caldo di fuoco nascosto, e però sicuro: affettuoso, con viscere d’uomo insieme e di madre..."

Maria rispose senza gelosie, senza malinconie, e col linguaggio d’antica amica. Andò poi nel settembre alle nozze di Matilde a Pontcroix.

Le occupavano gli occhi e l’anima il variare de’ larghi prospetti a ciascuna delle frequenti salite; e la terra, pura e liberal madre di fiori e d’ombre; e gli stagni in cui tremolava la nube nera soggiacente al puro sereno; e le severe donne bretoni posate sotto gli alberi antichi, o appiè delle croci ne’ trebbi campestri; e la pace de’ cieli consonante alla pace delle pie coscienze.

Vide Maria lo sposo; e gli piacque la semplicità di lui, non inelegante appunto perché non voleva apparire vezzosa: tardo il movere degli occhi, il vestire dimesso: presunzione nessuna; pietà fervente, e delle opinioni contrarie pazientissima, ma non degli scherni. Matilde il dì delle nozze era lieta; quasi fuor di sé: il suo marito la riguardava con affetto intenso e riverentemente severo.

Il giorno dopo stavano le due donne ragionando di tutt’altro: quando Maria alzando gli occhi vide le lacrime che le gocciolavano tacite fino alla pezzuola che mal nascondeva il sobbalzare del seno. Maria la baciò senza dire parola: ché sentiva in quel punto l’interrogazione irriverente, e il conforto importuno. Matilde, grata del silenzio, prese la pezzuola bianca di lei, e s’asciugò con quella le lacrime. Poi riscossa, come chi getta dal capo un velo pesante, esclamò: passerà. E si ricomponeva i lunghi capelli, che turbati dall’amplesso, ondeggiavano sul seren della fronte.

Di lì a due giorni Maria, con quel pudore timido che gli esperti del dolore picchiano alle porte del cuore altrui, le domandò del suo stato, come sorella interroga fratello malato, e teme dolorosa risposta. E Matilde: "Sto meglio. Ho un’imagine qui; che non la vo’ svellere perché pura, e perché spero mi preserverà da cadute vili. Verrà tempo che potrò confessarti ogni cosa".

Maria intravedeva il vero: ma temerità le pareva il crederlo, e tormento inutile ormai. Misera vita umana! Non l’odio solamente con l’odio, ma amore pugna con amore: e l’alito dell’uomo nuoce ai più cari suoi; né si può gioire un minuto senza ch’altri per ore pianga del gioir nostro; né fare un passo senz’urtare in creatura che risponda gemendo.

Sui primi d’ottobre ebbe Maria di Parigi un’altra lettera che diceva:

"Venite: i’ ho bisogno di voi. Sono di fronte a un pericolo facile a vincere: ma nei più facili sovente è più insidia. Cercavo di dozzina, perché la vita della trattoria mi ammala, quando m’abbatto a sapere che un Italiano caduto in miseria chiedeva a chi dare a dozzina per vivere. Gli ha moglie, e giovane: e non so se la gelosia possa in lui più della miseria e degli esempi parigini. Perché qui non donano (come talune in Italia), ma trafficano, come le schiave al Brasile; e per questo si credono più oneste. Con me c’è pochi pasti da fare: ma per il momento ogni cosa serve. La donna non ha né civetteria né passioni, ma né anco pudore; si lascierebb’ire a lasciarsi amare, non m’amarebbe: la quale rilassatezza ha i suoi pericoli anch’essa. Ora ve la dipingo: gli occhi vivaci; i capelli neri gentilmente spartiti sopra la fronte non pura ma schietta; non regolari le fattezze, le guance poco rilevate nell’alto, fossette al mento; voce non soave ma ingenua: non alta la persona, bellezza non soda. Ha un vestitino trito color di rosa, e rose al cappello, che fanno grazioso il pallore. La mestizia di lei mi solleticherebbe forse, non mi commuove: buon segno. Suo marito mi si raccomandava andassi a pranzo da lui, gli trovassi dozzinanti: dissi che io non potevo; e trovargli gente è un tristo servizio. E nondimeno mi fanno pietà. Di questa tentazione levatemi voi che sola potete: venite, Maria. Saremo l’uno all’altro custodi: e del combattere e del vincere avremo un vicino conforto. Non aggiungo preghiera.

"Qui troverete lavoro a tanto miglior patto che a Quimper, quante più son le spese. E quand’anco non consentiste a quel ch’io bramo, a far meco comune in tanto la mensa, questo stato penoso non sarà lungo, spero. Quanto a me (gli è pur forza ch’i’ vi parli di queste miserie dalle quali dipende non l’affetto ma il modo di soddisfare all’affetto) un pane non ci mancherà. Dallo scrivere francese rifuggo; ma ad un bisogno, alla meglio potrei. Frattanto mi giova sostenere dell’Italia e il pensiero e la vita. Ho un amico nella vostra Toscana, di fede rara, che nulla ometterà per fornirmene i modi; che con l’affetto suo mi trasporta l’Italia in Parigi, provvedendomi di libri, di meditazione operosa. L’affetto d’un uomo tien vece di molta ricchezza, e l’avanza.

"Per fuggire quel ch’ho detto e che non vo’ chiamare pericolo, me ne son venuto a Versailles. Stanno ammontando qui nella galleria quadri a migliaia, per onorar, dicono, con questi imbratti tutte le glorie di Francia. Onore degno del tempo, e di parecchi di loro. Questo palazzo, testimone di tante adulate infamie, questi giardini simili ai versi di Niccolò Boalò, mandano un alito pestilenziale alla Francia per secoli. Da queste misere delizie il pensier mio vola agl’ignudi poggi di Sebenico a’ quali il sole addopandosi innanzi che muoia, dipinge le nuvolette serene, ed esse la quieta marina, di colori mestamente gai. Perché un raggio di sole sui greppi e sui cardi, è più bello che tra le colonne portanti in lettere d’oro non so che nomi, e tra le bestie di marmo vomitanti acqua calda dalle gole di piombo.

"La risposta indirizzate a Versailles. Deh sia tale che mi riconduca lieto a Parigi. Io non amo le esclamazioni, Maria: ma pensate che dalla vostra lettera dipende il destino della mia vita".

Maria scrisse per consiglio a Matilde: e Matilde le mandò per risposta un bigliettino a Giovanni, che diceva così:

"Ella verrà. Io a ciò la esorto: che credo conoscervi; e spero non vorrete far sì che il mio nome sia maledetto da lei ch’amo tanto. Possiate voi benedire un giorno, o Giovanni, me e il mio consiglio. Io pregherò Dio per voi altri: e voi non dimenticherete, spero, la lontana Matilde".

Scrisse la lettera, e la riscrisse. Prima diceva: Pregherò Dio per voi; ma il voi le pareva equivoco; e fece voi altri. Voleva aggiungere: e voi altri non dimenticherete; ma le parve ripetizione affettata; e lasciò voi. Diceva prima: vi rammenterete senz’odio: ma sentì ch’era troppo.

E che s’intendeva l’infelice di fare con questo biglietto? Vincere i riguardi dell’amica, affrettare il desiderio di lui, compiere un nuovo dovere, frapporre un nuovo ostacolo tra sé e l’uomo che quasi suo malgrado le piacque. Non altro? Altro ancora. Voleva non lo perdere affatto, voleva farlo contento, rammentarsi a lui, significargli ch’ella bramava il suo bene; scrivergli insomma.

La lettera di Pontcroix fu impostata per Parigi a Quimper, dopo aggiuntovi:

visto

MARIA.