Fosca/Capitolo XLVI

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Capitolo XLVI

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XLVI.



La prima lettura di quel foglio non produsse in me che un senso di sbigottimento profondo. Poggiai i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, e la rilessi due o tre volte. Non poteva credere che ciò che aveva letto fosse realmente vero.

La prima impressione che ci dà una sventura grande e inattesa è temperata sempre da un sentimento di strana [p. 195 modifica]incredulità, la quale ci trae a dubitare delle cose più palesi e reali. Se così non fosse, quell’impressione avrebbe spesso il potere di uccidere.

Mi provai a fare colle mani alcune pieghe nel mio abito, a pronunciare forte il mio nome, perché mi pareva di non essere più io, o di essere in preda ad una tremenda allucinazione.

Mi alzai, e sorrisi non so di che cosa. Incominciai a camminare per la camera a passi accelerati. Senza accorgermene aveva preso in mano la candela; la mia ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giù per la stanza. Mi arrestai a contemplarla, l’accorciai e la riallungai appressando e allontanando il lume: mi fermai ad un angolo, e guardai attorno alla camera quasi spaventato, vidi vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colla fiamma della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di voluttà quasi crudele. Passando vicino ad uno specchio, vi scorsi riflessa la mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso.

Mi provai a sorridere, e a contrarre in mille modi le mie fattezze. Vi fu un istante in cui mi parve che lo specchio riflettesse il viso di un’altra persona che era dietro di me e vi si affacciava curvandosi dietro la mia spalla. Trasalii, e feci atto di rivolgermi; il lume mi scivolò di mano, cadde e si spense. Quel rumore, quell’oscurità improvvisa mi fecero tornare in me. Lo riaccesi, mi sedetti, tornai a rileggere la lettera di Clara.

Ora aveva ben compreso; mi premetti le mani sul cuore, e mi abbandonai sulla mia sedia cogli occhi chiusi, quasi sperando che qualche cosa di terribile, di fatale sarebbe [p. 196 modifica]successo fra poco, che la casa ove mi trovava sarebbe rovinata, che la terra si sarebbe aperta per inghiottirmi. Non era possibile che ogni cosa in natura continuasse a procedere collo stesso ordine di prima. Sentiva passare le carrozze sulla via, sentiva il cicaleccio dei passeggieri, ma tutto ciò non avrebbe durato più che un istante. La mia felicità era finita, tutto doveva essere finito. In quel momento scoccarono le sette al pendolo della camera; ogni vibrazione mi parve un colpo di coltello che mi trapassasse il cuore, e mi contorsi e mi raggomitolai gemendo come per difendermi da quei colpi.

In quell’orribile confusione di idee che s’era formata dentro di me, una ve n’era ben certa, ben chiara, ben definita: io aveva amato un mostro. Egli era possibile abbandonarmi così? Potevano esservi in natura ragioni sufficienti a dividere due cuori che si erano amati come i nostri? Potevano due creature che erano state sì care l’una all’altra separarsi e sperare di sopravvivere a questo abbandono? Avrei io mai creduto che il nostro amore avrebbe potuto finire? Avrei io avuto il coraggio pur di pensare a ciò che ella aveva predeciso e compiuto con sì facile risolutezza? No, né io, né nessuno. Tal cosa non poteva essere immaginata che da un essere mostruosamente ingrato, mostruosamente crudele. Io aveva amato questo essere. Tutto l'edificio della mia fede era rovinato, tutto era caduto nel fango.

Mi immersi e mi smarrii in questi pensieri, di cui non comprendeva allora tutta l'ingiustizia. Mi riscossi sentendomi toccare alla spalla; guardai: era il dottore.

Egli si scostò un poco da me, perché la sua ombra non m'impedisse di vedere il colonnello che era entrato con lui, e s'era arrestato in piedi nel mezzo della camera. Si appoggiò colle mani allo schienale d'una sedia e mi disse: [p. 197 modifica]— Immaginerete certo le ragioni che hanno indotto il colonnello a venire da voi. Egli sa che vi sono amico, e mi ha permesso di accompagnarlo. Ho insistito su ciò, perché spero che le vostre giustificazioni saranno sufficienti ad evitare...

— Ma che diavolo dite! interruppe vivacemente il colonnello. Io non vi ho dato certo questo mandato. E proseguì avvicinandosi a me, e piantandomisi diritto dinanzi:

— Signore, voi avete abusato bassamente della mia fiducia, siete venuto nella mia casa per disonorarla, mi avete reso ridicolo. Capirete che ciò è tal cosa cui non si può rimediare con delle parole. È necessario che me ne diate una riparazione d'altro genere. Spero che non dovrò costringervi ad accordarmela.

— Volete dire?

— Noi ci batteremo.

— Va bene. Quando?

— Domani.

— Ma..., interruppe il dottore, io credo... mi pare che se si facessero prima alcune parole in proposito, non sarebbe gran male; sarebbe possibile intendersi, e...

— Via, via, riprese furiosamente il mio avversario, è inutile che insistiate a questo riguardo. Voi non conoscete tutte le minime particolarità di questo fatto, non sapete fino a che punto io fui ingannato. Vi fu un altro miserabile che ha abusato di quella donna... egli lo sa, ho avuto la debolezza di raccontarglielo. Finora ha saputo sfuggirmi, ma nutro speranza che un giorno o l'altro c'incontreremo.

Io non risposi, e continuai a guardare la fiamma del caminetto.

— Spero, continuò egli riavvicinandomisi, dopo aver fatto alcuni giri per la stanza, che lascerete a me lo stabilire le condizioni di questo scontro. Voi siete il [p. 198 modifica]provocato, ma io sono l'offeso. Voi solo sapete fino a che punto mi avete offeso. Abborro questi duelli ridicoli che finiscono con una scalfittura. È necessario che ci battiamo fino a che uno di noi rimanga sul terreno.

— Sia, io dissi senza sollevare gli occhi, ho bisogno di uccidere un uomo.

Il mio avversario e il dottore mi guardavano meravigliati.

— Saprete però, continuò il colonnello, che ciascuno di noi arrischia ad un tempo la sua posizione. La disparità dei nostri gradi ci vieta di batterci. Bisognerebbe che io o voi ci dimettessimo.

— Mi dimetterò io — dissi.

— Non vorrei però...

— Non potete impedirmi di dimettermi, replicai con calma.

— Come volete.

Mi curvai sul tavolo, scrissi la domanda della mia dimissione, e gliela porsi.

— Restano a stabilirsi l'ora e le condizioni del duello, diss'egli, è troppo tardi perché possiamo affidarne l'incarico ai nostri secondi. Se non avete nulla ad opporre, ci accorderemo noi stessi a questo riguardo; il dottore ne sarà testimonio.

Io non risposi.

— Ci troveremo domattina alle otto, dietro gli spalti del castello. Provvederò io le armi. Non avete osservazioni a fare?

— Nessuna.

— Allora non v'è altro punto a discutere. Conto sulla vostra parola. Ci rivedremo.

E fece atto di uscire. Quando fu presso la soglia dell'uscio tornò indietro, e mi disse con voce più calma:

— Qualunque sieno i nostri rapporti attuali, devo richiedervi d'un favore che i vostri sentimenti di [p. 199 modifica]uomo non mi possono rifiutare. Mia cugina non ha serbata memoria alcuna di ciò che successe oggi...

— Ah! vostra cugina...interruppi io. Ebbene?

— È necessario che essa continui ad ignorarlo, che non sappia nulla di ciò che sta per succedere. L'esito di un duello è incerto, e...

— Sì, io dissi alzando il capo e guardandolo in volto per la prima volta dacché era entrato nella stanza, è assai incerto. Io potrei anche uccidervi, non è vero?

— Verissimo, rispose egli un po' turbato, come io potrei uccidere voi.

E dopo un momento di silenzio mi chiese:

— Mi odiate dunque molto?

— Non so, io risposi, ma se non fossi certo che fra poco o ucciderò, o sarò ucciso, mi sarei già buttato sulla via per uccidere qualcun altro.

— Vi ho fatto una domanda inopportuna, diss'egli con aria mortificata e sorpresa. Tali sentimenti non mi riguardano. Le nostre convenzioni sono stabilite, e basta. A domani.

— A domani.

Ed uscì.

Allorché sentii l'uscio richiudersi dietro di lui, ricaddi sulla mia sedia, e proruppi in un pianto dirotto.

Il dottore, che era rimasto nella stanza senza che me ne fossi avveduto, mi si avvicinò e mi disse:

— Calmatevi. Siete stranamente agitato. È a deplorarsi che quella donna vi abbia condotta a tale estremo, ma chi l'avrebbe preveduto? Questo duello avrebbe potuto essere evitato; il vostro contegno fu calmo, ma provocante. Ora non giova pensarci. Voi l'avete detto, l'esito d'uno scontro è incerto, è follia il preoccuparsene. Io sono afflitto di aver cagionato inconsciamente queste sventure, ma voi sapete che l'ho fatto a fine di bene. Non me ne porterete rancore? [p. 200 modifica]— Se io credessi esservi atto meritevole di gratitudine — io dissi — ve ne sarei anzi grato. Ma non parliamo di ciò. Io debbo in questa notte veder Fosca, io l'amo, io voglio renderla felice un istante prima di abbandonarla. Qualunque sia per essere l'esito di quel duello, io non la vedrò mai più. Bisogna che voi la preveniate della mia visita, che ordiniate di lasciarla sola, che mi lasciate passare dalla vostra camera.

— Ma è impossibile! esclamò egli. Voi sapete...

— No, no, interruppi io con impeto. Voi non vi opporrete, perché io sono risoluto a vederla in qualunque modo, a qualunque costo. Nemmeno l'idea di una violenza potrebbe arrestarmi. Quella donna mi ha amato, ella sola mi ha amato veracemente. Non l'abbandonerò senza gettarmi a' suoi piedi, e senza ringraziarla colle mie lacrime.

— La responsabilità di questa imprudenza, disse il dottore, ricadrà tutta sopra di voi.

— Io posso sopportarne delle più terribili...

— Non vi riconosco più. Sia come volete. Vi attenderò nella mia stanza. Ora corro a prevenirla.