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Fra la favola e il romanzo/Beneficio fatto non va perduto/VIII

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Beneficio fatto non va perduto - VIII

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VIII.



A capo di dieci giorni il nuovo quadro era pressochè compiuto. Emilia aveavi lavorato indefessamente; e tanta verità, e tanta maestria aveva essa spiegata nello imitare le tinte corruscanti del tramonto, le quali più vigorose all’orizzonte soavemente si fondono in quelle cilestrine del cielo, che sarebbesi detto il dipinto essere un riflesso del cielo medesimo. Il mare sembrava incresparsi sotto il zeffiro vespertino, mentre la torre della Meloria con tinte oscure spiccava quasi nel mezzo, come un sinistro fantasima surto dalle onde.

Geppina venuta alla cascina per la sua visita settimanale sedea vicino a Sofia, ed ambedue erano occupate in lavoro di ago, mentre Emilia in piedi dinanzi al cavalletto ringagliardiva leggermente le tinte dell’isola e della torre. Intanto veniva dicendo: — Per quanto gradito mi sia stato ritrarre il cielo ed il mare, altrettanto a malincuore dipingo ora questo spettro di torre. Io non amo i luoghi che ricordano geste fratricide; ne abbiamo, mi sembra, già abbastanza, ed in particolare nella nostra Toscana. [p. 44 modifica]

— Bizzarra idea di quel tale amico del babbo, — rispose Sofia con una certa inflessione di voce, perchè la Geppina non intendesse, — nello averti pregato di ritrarre la Meloria. Davvero si direbbe che quella tinta rossastra sia il riflesso del sangue che vi si sparse.

— Chi sa, riprese Emilia, che quel signor Zaccaria non sia nipote dell’ammiraglio di tal nome che comandava la riserva de’ Genovesi il dì della battaglia della Meloria, e voglia ritratta l’isola come un ricordo di famiglia?

— Che cosa è successo alla Meloria? — con un accento pieno d’ingenuità domandò la Geppina che non s’intendeva gran fatto di storia.

— Non ora, Geppina; si parlava d’una battaglia navale fra genovesi e pisani avvenuta presso la Meloria sei secoli fa — rispose Sofia.

— Ih! è antica quanto il mondo! Perchè non me la narri?

— Volentieri, cara Geppina.

— Non potresti invece leggere la descrizione che ne facesti quando il babbo ce la diede per tema chiese Emilia alla sorella.

— Sì, seguirò il tuo consiglio, cara Emilia. — In ciò dicendo Sofia si alzò, entrò in una camera attigua, e tornò con un quaderno nelle mani. Sedutasi di nuovo, così prese a leggere:

— Ai tempi dalla storia distinti col nome di medio evo, molte delle città italiane, e particolarmente quelle che prospettano il mare, erano potenti quanto grandissimi regni, sebbene ciascuna fosse alla testa di piccoli stati che governavansi a repubblica. Fra queste, alla fine del XIII secolo potentissime erano Venezia, [p. 45 modifica]Genova e Pisa. Le due ultime avevano ricche possessioni in Sardegna, in Corsica, in Oriente, dove trafficavano in commerci assai lucrosi coi popoli dell’interno. La potenza e la ricchezza di una risvegliò la gelosia dell’altra, e presero a guardarsi in cagnesco, e a cogliere ogni occasione per nuocersi. Una volta vennero ad ostilità in Corsica a cagione del Giudice di Ginerca protetto da’ pisani, i quali, resi baldanzosi per le proprie forze, un’altra volta predarono in alto mare una galera genovese senza che essa li avesse provocati. In seguito a San Giovanni d’Acri in Siria tanto istigarono i borghesi di quella città contro i genovesi, che questi vennero cacciati dal quartiere che occupavano; i loro magazzini furono saccheggiati e incendiate le loro case. Invano per mezzo d’ambasciatori, i genovesi domandarono soddisfazione di così grave ingiuria, e risolvettero di ottenerla per mezzo delle armi. Al primo sentore di guerra, sì a Genova, come a Pisa, si posero su i cantieri numerosissime galere e facevansi grandi apprestamenti; poichè ambedue le repubbliche deciso avevano di sostenere l’onore delle proprie armi per mezzo di potente navilio. Intanto frequenti avvisaglie e scorrazzamenti aveano luogo fra le due parti nemiche. Ora buon numero di navi genovesi veniva alle bocche d’Arno a sfidare i pisani; ora questi s’avanzavano a Porto Venere e saccheggiavano il paese; e quelli bruciavano in mare il vascello che portava in Sardegna il conte Fazio commissario del governo.

Ora, i pisani, che già aveano in acqua una poderosa flotta, facevano vela fin dinanzi al porto di Genova; e colà, spiegando tutte le loro forze, provocavano i genovesi ad uscire per combatterli, e [p. 46 modifica]lanciavano per braveria e per pompa contro il porto molte frecce d’argento. Quindi i genovesi radunavano tutte le loro navi innanzi alle bocche d’Arno, e mandavano di nuovo a sfidare i pisani. Tanto da una parte quanto dall’altra nel corso di due anni gli apparecchi furono tali che Genova aveva armato cento sette galere, e Pisa centotrè. A stento si può concepire come due sole città potessero creare due flotte così potenti. I genovesi avean richiamati in patria tutti i marinai ch’erano fuor di paese, ed i pisani avean dato posto sulle loro navi a quanto di meglio v’era in ogni classe di cittadini; ed ogni famiglia aveavi il suo, ed anche più.

Le due flotte erano state divise in tre schiere ciascuna. La prima squadra dei pisani era comandata dal veneziano Alberto Morosini, eccellente capitano di mare; la seconda da Andreotto Saracino; e la terza dal conte Ugolino della Gherardesca.

— Quello che fu fatto morir di fame co’ suoi figli e coi nipoti? — domandò Geppina.

— Per l’appunto quello, — rispose Sofia, e continuò: — La prima squadra dei genovesi poi era comandata da Oberto Doria grande ammiraglio, la seconda da Corrado Spinola, e la terza da Benedetto Zaccaria.

— Ah! di certo costui è antenato di quel signor Domenico, — disse Emilia seguitando a ritoccare il suo quadro.

— Correva il giorno 6 agosto del 1284 quando i pisani, usciti d’Arno, eran venuti vogando squadra a squadra verso l’isola della Meloria, presso cui scorgevansi riunite le vele dell’inimico. Essi tenevano certa la vittoria per le armi loro, riputandosi di [p. 47 modifica]egual forza coi Genovesi. I quali però, avendo ricevuto altri rinforzi, per istratagemma di guerra tenevano nascosta dietro la Meloria la squadra comandata dallo Zaccaria, composta di trenta galere. I pisani non peritaronsi punto dallo slanciare i vascelli delle due prime squadre contro quelle dei nemici. Lo scontro fu terribile, ed il combattimento venne per varie ore prolungato senza potersi raccogliere da qual parte pendesse la vittoria, tanto da ogni lato pugnavasi accanitamente. Il numero de’ morti era spaventevole; il sangue scorreva a torrenti da tutte le navi, ed il mare n’era divenuto vermiglio. Migliaia e migliaia di combattenti precipitati nelle onde, feriti o semivivi, nuotavano nella speranza di salvamento attorno alle galere, le quali già correvano all’arrembaggio. I due vascelli montati dai due capi Morosini e Doria combattevano fra loro bordo a bordo, quando di dietro la Meloria uscirono a tutta forza di remi le galere comandate da Benedetto Zaccaria slanciandosi per mezzo alla mischia, e portando immenso scompiglio nella flotta de’ pisani. Zaccaria stesso si spinse addosso alla capitana del Morosini che difendevasi eroicamente dal Doria, e messala in mezzo la ridussero in loro potere. Intanto la galera sulla quale era inalberato lo stendardo del comune di Pisa fu anch’essa fatta prigioniera dai genovesi, e ciò fe’ piegar la vittoria in loro favore. Perchè atterriti i pisani da quella doppia perdita, invitati dal conte Ugolino che diede il segnale della fuga, si ricoverarono alla rinfusa in Arno, e ridotti nello stato più miserando. In quella orribile giornata perderono i Pisani trentacinque galere, ed ebbero nientemeno che cinque mila morti e undicimila prigionieri, i quali [p. 48 modifica]furono tenuti cattivi dai genovesi per tredici anni; e quando, conchiusa la pace fra le due città, furono rimandati alle loro case, erano essi ridotti appena a mille. I genovesi per diminuire la potenza de’ loro emuli vollero ch’essi fossero tutti lungamente immersi nel lutto, e resero spopolata la loro città. Ecco il fine a che mena la gelosia fra popoli, e la smodata sete del potere.

— Maledette le guerre fratricide! — esclamò Emilia facendo col pennello un atto di rabbia contro la torre della Meloria, quasi ch’ella pure fosse stata in colpa della sanguinosa battaglia.

— Quanto scrivi bene! Ora capisco, disse la Geppina dandosi aria di grande penetrazione, perchè a Pisa si vede così poca gente, e la è tanto spopolata! —

La osservazione della fanciulla fece ridere di cuore le due sorelle; le quali però non misero in burla la loro amica perchè l’amavano di vero affetto; e per quel giorno non si parlò più nè della Meloria, nè della battaglia.

Il nuovo quadretto fu ultimato da Emilia, e riuscì tanto perfetto, che il compratore, nella supposizione d’aver a fare con qualche povero artista, sborsò a Tommaso venti lire oltre il prezzo convenuto. Poi passarono due mesi non solo senza che si ottenesse qualche nuova commissione, troppo facilmente sperata dalle sorelle; ma senza che neppure si riuscisse a vendere un altro dipinto rappresentante: una poveretta che fa l’elemosina ad una più poveretta di lei.