Galateo ovvero de' costumi/XXII

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Capitolo XXII

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Cap. XXII. In ogni discorso le parole dover esser chiare: propie di ciò, che si vuole significare: far meglio ognuno a parlare nel propio, che nell’altrui linguaggio: doversi schifare i vocaboli men che onesti: in oltre le parole vili: doversi ciascuno avvezzare al parlare modesto e dolce, guardandosi dalle maniere aspre e ruvide.

107. Le parole sì nel favellare disteso, come negli altri ragionamenti, vogliono esser chiare sì che ciascuno della brigata le possa agevolmente intendere; e oltre a ciò belle in quanto al suono e in quanto al significato; perciocchè se tu arai da dire l’una di queste due, dirai piuttosto il ventre, che l’epa; e dove il tuo linguaggio lo sostenga, dirai piuttosto la pancia, che il ventre, o il corpo; perciocchè così sarai inteso, e non franteso, siccome noi Fiorentini diciamo; e di niuna bruttura farai sovvenire all’uditore. La qual cosa. volendo l’ottimo poeta nostro schifare, siccome io credo, in questa parola stessa, procacciò di trovare altro vocabolo; non guardando, perchè alquanto gli convenisse, scostarsi per prenderlo di altro luogo; e disse:

Ricorditi, che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiestro
(Petrarca).

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108. E comechè Dante, sommo poeta altresì, poco a così fatti ammaestramenti ponesse mente; io non sento perciò che di lui si dica per questa cagione bene alcuno; e certo io non ti consiglierei, che tu lo volessi fare tuo maestro in quest’arte dello esser grazioso, conciossiacosachè egli stesso non fu; anzi in alcuna cronica trovo così scritto di lui: Questo Dante per suo saper fu alquanto presuntuoso, e schifo, e sdegnoso; e quasi a guisa di filosofo mal grazioso, non ben sapeva conversar co’ laici. Ma tornando alla nostra materia, dico, che le parole vogliono essere chiare, il che avverrà se tu saprai scegliere quelle che sono originali di tua terra, che non siano perciò antiche tanto, che elle siano divenute rance e viete, e come logori vestimenti, disposte o tralasciate; siccome spaldo e epa e uopo e sezzaio e primaio. E oltre a ciò se le parole, che tu arai per le mani, saranno non di doppio intendimento, ma semplici; perciocchè di quelle accozzate insieme si compone quel favellare che ha nome enigma: e in più chiaro volgare si chiama gergo:

Io vidi un che da sette passatoi
Fu da un canto all’altro trapassato (Alam.).

109. Ancora vogliono esser le parole, il più che si può, appropriate a quello che altri vuol dimostrare; e meno che si può comuni ad al[p. 69 modifica]tre cose, perciocchè così pare, che le cose istesse si rechino in mezzo, e che elle si mostrino non con le parole, ma con esso il dito: e perciò più acconciamente diremo: — Riconosciuto alle fattezze, che alla figura o alla immagine: — e meglio rappresentò Dante la cosa detta, quando e’ disse:

Che li pesi
Fan così cigolar le lor bilance

che se egli avesse detto o gridare, o stridere, o far romore. E più singolare è il dire, il ribrezzo della quartana, che se noi dicessimo il freddo: e la carne soverchio grassa stucca, che se noi dicessimo sazia: e sciorinare i panni, e non ispandere: e i moncherini, e non le braccia mozze: e all’orlo dell’acqua d’un fosso

Stan li ranocchi pur col muso fuori (Dante)

e non con la bocca: i quali tutti sono vocaboli di singolare significazione: e similmente il vivagno della tela piuttosto, che l’estremità.

110. E so io bene, che se alcun forestiero per mia sciagura s’abbattesse a questo trattato, egli si farebbe beffe di me, e direbbe, che io t’insegnassi di favellare in gergo, ovvero in cifera; conciossiachè questi vocaboli siano per lo più così nostrani, che alcuna altra nazione non gli usa; e usati da altri, non [p. 70 modifica]gl’intende. E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso:

Già Veggia1 per Mezzul2 perdere o Lulla3!

Certo io credo, che nessun altro che noi Fiorentini: ma nondimeno, secondo che a me è stato detto, se alcun fallo ha pure in quel testo di Dante, egli non l’ha nelle parole; ma se egli errò, piuttosto errò in ciò che egli siccome uomo alquanto ritroso, imprese a dire cosa malagevole ad isprimere con parole, e per avventura poco piacevole ad udire, che perchè egli la esprimesse male.

144. Niuno puote adunque ben favellare con chi non intende il linguaggio nel quale egli favella; nè perchè il tedesco non sappia latino, dobbiam noi per questo guastar la nostra loquela, in favellando con essolui, nè contraffarci a guisa di maestro Bruſaldo; siccome soglion fare alcuni che per la loro sciocchezza si sforzano di favellar del linguaggio di colui con cui favellano, quale egli si sia; e dicono ogni cosa a rovescio: e spesso avviene, che lo spagnuolo parlerà italiano coll’italiano, e l’italiano favellerà per pompa e per leggiadria con esso lui spagnuolo: e nondi[p. 71 modifica]meno assai più agevol cosa è il conoscere che amendue favellano forestiero, che il tener le risa delle nuove sciocchezze che loro escono di bocca.

112. Favelleremo adunque noi nell’altrui linguaggio, qualora ci farà mestiero di essere intesi per alcuna nostra necessità; ma nella comune usanza favelleremo pure nel nostro, eziandio men buono, piuttosto che nell’altrui migliore; perciocchè più acconciamente favellerà un lombardo nella sua lingua, quale s’è la più difforme, che egli non parlerà toscano, o d’altro linguaggio; pure per ciò che egli non arà mai per le mani, per molto che egli si affatichi, sì bene i propri e particolari vocaboli come abbiamo noi toscani. E se pure alcuno vorrà aver risguardo a coloro co’ quali favellerà; e perciò astenersi da’ vocaboli singolari, de’ quali io ti ragionava; ed in luogo di quelli, usare i generali e comuni, i costui ragionamenti saranno perciò di molto minor piacevolezza. Dee oltre a ciò ciascun gentiluomo fuggir di dire le parole meno che oneste. E la onestà de’ vocaboli consiste o nel suono e nella voce loro, o nel loro significato; conciossiacosachè alcuni nomi vengano a dire cosa onesta, e nondimeno si sente risonare nella voce istessa alcuna disonestà.

143. E dei sapere che, comechè due o più parole vengano talvolta a dire una medesima [p. 72 modifica]cosa, nondimeno l’una sarà più onesta, e l’altra meno. E più acconciamente dirai il vago della luna, che tu non diresti il drudo; avvegnaché amendue questi vocaboli importino lo amante. È più convenevol parlare, pare, e dire la fanciulla, e l’amica, che la concubina di Titone: e più dicevole è a donna, e ancor ad uomo costumato, nominare le meretrici, femmine di mondo; come la Belcolore disse, più nel favellare vergognosa, che nello adoperare, che a dire il comune lor nome.

114. Anzi non solo si dee altri guardare dalle parole disoneste e dalle lorde: ma eziandio dalle vili, e spezialmente colà dove di cose alte e nobili si favelli; e per questa cagione forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice quando disse:

L’alto fato di Dio sarebbe rotto,
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senza alcuno scotto
Di pentimento.

che per mio avviso non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così nobile ragionamento. Nè dee dire alcuno la lucerna del mondo, in luogo del sole: perocchè cotal vocabolo rappresenta altrui il puzzo dell’olio e della cucina: nè alcuno considerato uomo direbbe, che s. Domenico fu il drudo della teologia; e non racconterebbe che i [p. 73 modifica]santi gloriosi avessero dette così vili parole, com’è a dire:

E lascia pur grattar dove è la rogna

che sono imbrattate della feccia del volgar popolo, siccome ciascuno può agevolmente conoscere.

115. Adunque ne’ distesi ragionamenti si vogliono avere le sopradette considerazioni, e alcune altre; le quali tu potrai più adagio apprendere da’ tuoi maestri, e da quella arte che essi sogliono chiamare rettorica. E negli altri bisogna che tu ti avvezzi ad usare le parole gentili e modeste, e dolci sì, che niuno amaro sapore abbiano; e innanzi dirai: — Io non seppi dire, chè voi non m’intendeste: pensiamo un poco, se così è come noi diciamo: piuttosto che dire · voi errate, o e’ non è vero, o voi non la sapete; — perocchè cortese e amabile usanza è lo scolpare altrui, eziandio in quello che tu intendi d’incolparlo: anzi si dee far comune l’error proprio dello amico; e prenderne prima una parte per sè, e poi hiasimarlo e riprenderlo. — Noi errammo la via; e noi non ci ricordammo ieri di così fare; comechè lo smemorato sia pur colui solo, e non tu. E quello che Restagnone disse a’ suoi compagni non istette bene: — Voi, se le vostre parole non mentano. Perchè non si dee recar in dubbio la fede altrui; [p. 74 modifica]anzi, se alcuno ti promise alcuna cosa e non te l’attende, non istà bene che tu dichi; — Voi, mi mancaste della vostra fede: salvo se tu non fossi costretto da alcuna necessità per salvezza del tuo onore a così dire: — ma se egli ti arà ingannato, dirai: — Voi non vi ricordaste di così fare: e se egli non se ne ricordò dirai piuttosto: — Voi non poteste, o non vi tornò a mente; che: voi vi dimenticaste, o voi non vi curaste di attenermi la promessa: — perciocchè queste sì fatte parole hanno alcuna puntura, e alcun veneno di doglienza e di villania; sicchè coloro, che costumano di spesse volte dire cotali motti, sono riputati persone aspere e ruvide; e così è fuggito il loro consorzio, come si fugge di rimescolarsi tra’ pruni ẹ tra’ triboli.

  1. Botte.
  2. La parte di mezzo del fondo dinanzi della botte,
    dove s’acconcia la cannetta.
  3. Quella parte del fondo della botte che dal mezzule
    all’estrema parte si congiugne alla botte.