Galileo Galilei (Favaro)/IV

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III V


Ma intanto si maturava uno dei maggiori avvenimenti che registri la storia delle scienze, che doveva dare un nuovo indirizzo all’attività scientifica di Galileo ed esercitare una così grande influenza sul suo avvenire e su quello degli studi astronomici: vogliamo dire l’invenzione del cannocchiale. Adombrato da Girolamo Fracastoro che notò per il primo come il guardare attraverso due lenti sovrapposte permetta di vedere gli oggetti ingranditi e ravvicinati; indicato nella "Magia Naturale" del Porta, che spiegò come delle due lenti una deva esser concava e l’altra convessa e ne praticò l’abbinamento, esso fu assai verosimilmente, benchè rozzamente, costruito in Italia negli ultimi lustri nel secolo decimosesto, se anche per varii motivi la costruzione rimase quasi segreta e circoscritta così da non permettere di intravvedere tutto il grandissimo partito che poteva esserne tratto: nè vi si pose attenzione se non allorchè una sommaria notizia ne giunse d’oltralpe.

Quando per la prima volta sia pervenuto a Venezia l’annunzio che una combinazione di lenti, provata a caso da un occhialaro olandese, aveva permesso di ottenere un singolare ravvicinamento degli oggetti lontani, dando luogo a tentativi più o meno razionali per raggiungere con la ripetizione delle prove un tale effetto, sarebbe forse difficile lo stabilire con tutta esattezza; par tuttavia certo che l’avviso ne sia giunto sullo scorcio del 1608 a Fra Paolo Sarpi; nell’aprile del 1609 lo strumento si vendeva già a Parigi, e dalla Fiandra pare che uno ne fosse mandato al cardinale Scipione Borghese. Come e sotto qual forma la notizia sia pervenuta a Galileo, possiamo soltanto ricavare dalle diverse narrazioni, non tutte per verità pienamente concordi tra loro, che egli stesso ce ne ha lasciato, in una delle quali, stesa fra il febbraio ed il marzo 1610, egli scrive: "Sono dieci mesi incirca che pervenne ai nostri orecchi un certo grido, esser stato fabbricato da un tal Fiammingo un occhiale per mezzo del quale gli oggetti, benchè assai distanti dall’occhio, si vedevan distintamente come se fosser vicini, e di questo effetto invero ammirabile si raccontavano alcune esperienze, le quali altri credevano, altri negavano. L’istesso pochi giorni dopo fu confermato a me per lettera di Parigi da un tal Iacopo Badovere, nobil franzese; il qual avviso fu cagione che io mi applicai tutto a ricercar le ragioni e i mezzi per i quali io potessi arrivare all’invenzione di un simile strumento; la quale conseguii poco appresso, fondato sopra la dottrina delle refrazioni. E mi preparai primieramente un cannone di piombo, nelle estremità del quale accomodai due vetri da occhiali, amendue piani da una parte, ma uno dall’altra convesso e l’altro concavo; al quale accostando l’occhio, veddi gli oggetti assai prossimi ed accresciuti". Ed in altra narrazione prosegue: "Mi applicai poi subito a fabbricarne un altro più perfetto, il quale sei giorni dopo condussi a Venezia, dove con gran maraviglia fu veduto da quasi tutti i principali gentiluomini di quella repubblica, ma con mia grandissima fatica per più d’un mese continuo. Finalmente, per consiglio d’alcun mio affezionato padrone, lo presentai al Principe in pieno Collegio, dal quale quanto ei fosse stimato e ricevuto con ammirazione testificano le lettere ducali, che sono ancora presso di me, contenenti la magnificenza di quel Serenissimo Principe in ricondurmi per ricompensa della presentata invenzione, e confermarmi in vita nella mia lettura dello Studio di Padova, con duplicato stipendio di quello che ne aveva per l’addietro, che era poi più che triplicato di quello di qualsivoglia altro mio antecessore".

La Repubblica Veneta infatti che, nell’occasione d’una prima conferma di Galileo nella lettura, aveva portato il suo stipendio a trecentoventi fiorini ed in una seconda l’aveva aumentato di altri duecento, cosicchè anzi egli non aveva dato seguito a trattative corse per passare al servizio del Duca di Mantova, grata dell’omaggio fattole, l’aveva eletto a vita elevandone l’assegno a mille fiorini.

Nel rozzo cannocchiale che Galileo aveva mostrato sul campanile di S. Marco ai patrizi veneti, che s’erano con lui arrampicati fino a quell’altezza, si ravvisava soprattutto uno strumento di guerra, e forse questa fu la causa che indusse il Senato a così grande generosità. Ma quello che ai fini politici di Venezia era sembrato strumento sicuro di potenza marittima e terrestre, divenne più presto nelle mani di Galileo strumento di più alte e immortali conquiste.

Dalla terra egli lo volge al cielo ed in breve volgere di tempo scopre più verità astronomiche che non fossero state trovate nel corso di trenta secoli; ed il primo pensiero di questo reprobo, il cui capo, fatto venerando, era serbato ai fulmini di Roma, è un inno di ringraziamento a Dio che s’era compiaciuto farlo "solo primo osservatore di cosa tanto ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta".

Chi mai presumerà di ritrarre la commozione che avrà provato Galileo davanti alle meraviglie rivelategli dal cannocchiale? Lo stesso Sidereus Nuncius nel quale si affrettò a consegnare il risultato delle sue osservazioni, a mano a mano che le andava facendo, non ce ne conservò altro che un pallido riflesso. Il primo entusiasmo è già svanito; lo scienziato racconta le sue scoperte con calma, con quella calma che ne conferma la piena ed assoluta certezza.

Le montuosità della Luna, le innumerevoli stelle della Via Lattea, quelle delle nebulose del Cancro, le molte delle Pleiadi e d’Orione, e qua e là per il firmamento un così gran numero di stelle da superare più che il decuplo di quelle fino allora conosciute, appartengono ai primi fatti rivelati dal telescopio nell’autunno 1609.

Addì 7 gennaio 1610, mentre stava osservando Giove, gli vide dappresso tre stelle, che stimò fisse, piccole ma brillantissime, e disposte secondo una linea retta parallela all’eclittica, più risplendenti assai d’altre pari in grandezza. Nel giorno successivo tornò a vederle, ma diversamente disposte rispetto a Giove, e già nella notte del 10 era indotto a concludere che quell’apparente cangiamento di luogo non seguiva in Giove, ma nelle stelle. Nella notte successiva, dell’11 gennaio, tornò a vedere due stelle collocate dalla stessa parte rispetto a Giove, ma con distanze diverse, e l’una dell’altra maggiore in grandezza, mentre nella sera precedente erangli apparse uguali; e di qui egli traeva già la conclusione che tre dovevano essere le stelle da lui osservate. Addì 13 finalmente gli apparvero d’un tratto quattro stelle intorno a Giove, tre ad occidente ed una ad oriente: il 14 non potè osservare, ma il 15 nell’ora terza di notte vide nuovamente le quattro stelle, tutte però ad occidente. Il sospetto che fin dalla seconda osservazione egli aveva già cominciato a nutrire, è ormai divenuto certezza completa: le stelle non sono fisse, ma satelliti che si muovono intorno a Giove: la terra intorno alla quale, per consenso di Tolemaici e di Copernicani, girava la luna, non era dunque più un centro unico di movimento intorno al quale s’aggirassero tutti i corpi celesti; Giove, mobile esso pure, sia intorno al sole, sia intorno alla terra, aveva anch’esso quattro lune: la terra non era dunque più centro dell’universo: il cosiddetto "re della creazione" era balzato dal suo effimero trono: il sistema astronomico sul quale avevano giurato fede inconcussa tante generazioni di filosofi era crollato per sempre!

I Peripatetici, scorati dal nuovo e fierissimo colpo, ricorrono al comodo spediente di negare le annunziate scoperte, chiamandole una illusione del cannocchiale e rifiutano di applicarvi l’occhio per timore di doversi ricredere: gli astrologi si ribellano a priori contro la possibilità della esistenza di nuovi pianeti, che demoliva dalle mal connesse fondamenta lo sgangherato edificio degli influssi e dei pronostici.

Ma gli avversarii hanno un bell’ingegnarsi (così lo stesso Galileo al Keplero) di sconficcare a furia di argomenti loici, come per arte magica, i nuovi pianeti dal cielo; nulla vale a trattenere il trionfale cammino del Sidereus Nuncius che reca ai mortali l’annuncio dei meravigliosi discoprimenti. Alla celebrazione della vittoria non mancano i cantici: odi e canzoni italiane, dialettali e latine. Il procaccia che reca a Firenze le lettere di Padova è al suo arrivo assalito, e gli amici di Galileo vengono ovunque assediati per aver più esatte e complete notizie dei fatti il cui annunzio aveva così fortemente commossi gli animi. Tommaso Campanella dal carcere di Castel dell’Uovo scrive: "dopo il tuo Nunzio, o Galileo, tutto lo scibile dovrà rinnovarsi" ed il Keplero, dapprima esitante, verificata la esistenza dei Satelliti di Giove, non può trattenere uno slancio d’entusiasmo, e ripetendo l’estremo grido dell’apostata, esclama: Vicisti Galilaee! Galileo, hai vinto!