Gli invisibili/Della terza categoria
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Quali sarebbero dunque i caratteri speciali delle manifestazioni spiritiche, tali da non lasciar dubbio circa la loro essenza?
In luogo di teorie, mi servirò di esempi, cominciando con quello tipico di Laura Edmunds, figlia d’alto e rispettabile senatore e magistrato americano. In una seduta medianica, in mezzo a un circolo di persone, la signorina medium si rivolse a un greco, il signor Evangelides, e gli parlò in lingua greca, lingua a lei e agli altri presenti sconosciuta. Videsi l’Evangelides farsi pallido, esangue, con l’espressione di un tragico stupore, vacillare e quasi perdere i sensi.
La medium gli aveva annunciato la morte di un figliolo, ch’egli aveva lasciato in patria e credeva in perfetta salute.
Assai giorni dopo, una lettera dalla Grecia confermava la luttuosa novella.
Prima di tutto, Laura ignorava l’idioma greco. Non poteva dunque neppur capire quello che andava dicendo. Se mi ci metto, io posso ben ripetere una frase indiana: ma ignoro quello che significhi e non posso esercitare, sopra di essa, il mio pensiero. Sono un fonografo vivente e null’altro. Conviene quindi escludere che il fenomeno scaturisca dal cervello della medium.
Dunque, la suggestione altrui? Neppure tale ipotesi regge, poiché il signor Evangelides, tranquillo e sereno, non pensava neppure per ombra alla morte del figlio, ch’egli credeva vivo e sano, in mezzo alla famiglia.
Ecco dunque che un medium, sotto l’imperio d’uno spirito, manifesta in lingua sconosciuta un fatto vero, accaduto lontano mille miglia, e da tutti i presenti ignorato.
Altra categoria dei fenomeni, della quale potrei addurre numerosi esempi, presenta indubbia fisionomia spiritica.
Si chiude in una cassetta carta e matita, si suggella la serratura, e poi su quei fogli bianchi si trova una comunicazione scritta con la calligrafia di quel defunto stesso, che s’è annunciato come spirito presente. Mi basti dire un sol caso, dei tanti.
Un ricco e notissimo signore parigino, del quale ora non ricordo esattamente il nome, aveva perduto una figlia adorata. Egli non credeva affatto ai fenomeni medianici; pure, avendo letto qualche cosa sui giornali intorno alla medium Piper, senz’altro partì per l’America del nord, si presentò, sconosciutissimo, alla medium, e senza dirle affatto se si trattasse di figlia, figlio o altro parente, volle tentare la comunicazione, per mezzo della scrittura diretta. Egli stesso provvide la carta bianca, che pose nella cassetta vuota, che poi chiuse con la propria mano, apponendovi i propri sigilli.
Quando la medium affermò essere compiuto il fenomeno, egli dissuggellò la cassetta, e vi trovò una lettera di dieci o dodici righe, contenente espressioni familiari della figlia morta, con la calligrafia identica e la firma consueta. Fra l’altro, nella furia della partenza, egli s’era scordato di munirsi d’autografi della defunta: ma inutile dire che i suoi occhi paterni non ne avevan bisogno per verificare l’identità. Il confronto avrebbe dovuto servire soltanto a convincere gli altri. Appena tornato a Parigi, egli fece fotografare e pubblicò i fac-simili d’una lettera della figlia quand’era vivente, e la lettera scritta dallo spirito. Ho veduto tali riproduzioni: il carattere era di perfetta identità.
Nella lunga serie di esperimenti da me tentati, tre risultano veramente fenomeni di sicuro carattere spiritico.
Il primo è, per sé, di lieve entità, eppure significante e di notevole sincerità.
Due anni fa, una sera, nel mio salotto, eravamo in cinque persone di famiglia, intorno al tavolino, seguendo alcune comunicazioni tipologiche. A un tratto, entra un amico, giovane signore venticinquenne, il quale doveva trasmettermi una lettera urgente. Del tutto ignaro delle pratiche medianiche, egli s’arresta quasi su l’uscio, interdetto, senza capir nulla di nulla.
Voi tutti potete farvi l’idea, mi figuro, di uno il quale, non avendo mai inteso neanche a parlare di spiritismo, entri in una sala, dove crede che la gente stia pigliando il caffè, e veda al contrario cinque o sei persone sedute, in tondo, con le mani sopra una tavola, e senta una voce, che con frettolosa e affliggente monotonia bisbigli:
- A... b... c... d... dice d... a... b... c... d... e... dice e... a... b... c...
Per giunta, siccome desideravo non interrompere la comunicazione, feci cenno al giovane amico di star zitto, sedere e aspettare. Egli, tutto meravigliato, siede confuso sopra un piccolo divano, lontano da noi, presso l’uscio, e guarda il gruppo, senza capire, e probabilmente supponendo che facciamo un gioco di società con relative penitenze.
La tavola si ferma per alcuni secondi. Poi, ripiglia a muovere, ma in modo tutto diverso. La persona che raccoglie le indicazioni alfabetiche, esclama:
- Non si capisce più nulla! non fa che ripetere Mailati... Mailati.. Mailati...
A queste parole, il giovane balza in piedi, gridando stupefatto:
- Mailati era mio nonno!
Il tavolino dà tre colpi rapidi e secchi, che significano sì e ripiglia a dettare:
- Pietro Mailati.
E il giovane, più che mai stupito:
- Ma sì, appunto: si chiamava Pietro Mailati.
Succintamente, alla meglio, spiego al giovane che lo spirito del nonno vuol comunicare con lui. Egli, sorpreso e confuso da un fenomeno per lui nuovissimo, resta in piedi accanto a noi; rivolge una folla di domande all’invisibile per accertarne l’identità, e per mezzo del tavolino gli vengono date esattissime risposte. Tra l’altro, gli sono ricordati minuti episodi d’infanzia: e l’invisibile narra di che e come sia morto, e dà pur l’indirizzo preciso della strada, casa e città dove, lontano dal suo luogo nativo, è seguito il decesso, e tante altre particolarità così precise, da non lasciare nell’animo del nipote dubbio di sorta.
Vi prego, adesso, di riflettere alle circostanze in cui s’è svolto fenomeno così spontaneo. Ai presenti era ignoto il casato del nonno, anche perché, trattandosi del padre della mamma, era tutt’altro del cognome del giovane amico. Nessuno del gruppo, a ogni modo, sapeva se questo nonno fosse vivo o morto.
Non si può del tutto escludere, ma certo è improbabile e inverosimile, che il nipote, ignaro di quanto si svolgeva sotto i suoi occhi, abbia suggestionato la medium: tanto più poi ch’essa, come gli altri, era in uno stato normale e calmo, quindi punto propizio a subire suggestioni.
Il dialogo seguito tra nonno e nipote risultò, infine, di tal natura da escludere ogni forma suggestiva, tanto più che il nipote non entrò nel circolo e non ebbe contatto di sorta col tavolino, né con la medio. Per cui, a dispetto di tutte le altre ipotesi, parmi di poter situare il caso tra quelli d’indole puramente spiritica.
Passiamo a un altro di assai maggiore rilievo.
La seduta, a cui partecipo, si svolge a Roma, nel salone del principe R***. Sono presenti nove persone. Il medium è in piena trance, seduto nel vano della finestra, preparato a gabinetto medianico. Sentiamo il suo respiro alquanto oppresso, con un ritmo continuo, che sta fra un russare lieve e un lieve rantolio.
A un certo momento, vediamo formarsi due nuclei di luce: poi, al di qua della tenda (io non ne son lontano un metro) mentre al di là sentiamo sempre il rantoloso e regolare respiro del medium, vediamo apparire nettamente una testa illuminata, con un panno bianco sui capelli, e due braccia in penombra, aperte, con due mani in alto, tra le cui dita traspaiono sottili strisce di luce, come se stringessero due globi luminosi. La faccia è visibile in ogni sua particolarità, tranne gli occhi che rimangono nascosti nell’ombra delle occhiaie. Pare la testa d’un uomo trentacinquenne, magro, regolare, con baffetti a punta, biondicci, mento e zigomi pronunciati.
L’apparizione tosto dilegua: io la prego di mostrarsi ancora, e rieccola una seconda volta: e poi una terza volta, assai più a lungo, per uno spazio di tredici o quattordici secondi, durante i quali procuro di fissare nella memoria i lineamenti.
Chi mi conosce, sa che la mia vista è talmente, da lungo, esercitata nella ginnastica del disegnatore, che mi basta fissare per poco una faccia, per poi schizzarne il ritratto con precisione sufficiente. Certe volte, per necessità di professione, disegno ritratti di persone che non avrò visto da dieci o dodici anni. E voglio ricordare, a tal proposito, come feci la conoscenza dell’illustre senatore Fogazzaro.
Non avevo avuto mai la fortuna d’incontrarmi con lui. Quattro o cinque anni addietro, vidi soltanto una sua fotografia: null’altro. Son pochi mesi, sotto i porticati del teatro Carlo Felice, osservai un signore che si faceva lustrare gli stivali. La mia memoria e le facoltà visive, proprie di chi ha l’abitudine del disegno, non potevano ingannarsi. Tanto che mi avvicinai e gli dissi:
- Lei è bene il senatore Fogazzaro?
- Precisamente. - mi rispose alquanto sorpreso.
- E io son il tal dei tali, che da tempo desidero vivamente di conoscerlo.
E stringemmo, in modo così inaspettato, una relazione cordiale, che ebbe la più affettuosa riconferma poi a Vicenza, nel Teatro Olimpico, durante la rappresentazione indimenticabile di Edipo Re.
Tutto ciò valga ad accertare il lettore che, quando, a seduta finita, schizzai sul mio albo la testa comparsa, essa, sebben fatta a memoria, non era punto lontana di troppo dalla somiglianza perfetta.
Ora, bisogna sapere che l’entità manifestatasi in forma luminosa, dice chiamarsi Giulio Delgrande, romano, ed essere lo spirito-guida del medium: e sapere altresì che questo Giulio suole rispondere per bocca del medium stesso (la cui voce, in tali momenti, pare quella d’un altro) e che, prima di separarci, ci aveva detto:
- Se desiderate un ricordo mio, andate domattina a Campo Verano, dove stanno rinnovando le fosse, poiché la mia sta per essere completamente distrutta.
Tra i presenti, esclusi due o tre, trattenuti da altre faccende, ci si diede convegno a un’ora fissa, presso la cancellata del monumentale cimitero della capitale. Trovai al convegno il principe R*** con sua sorella, il generale B*** con la sua signora, la signora M*** e il commendator B*** alto funzionario della Corte dei conti. In una giornata umida e grigia, attraversammo tutta l’immensità di Campo Verano, avendo saputo dai custodi che la serie delle fosse che s’andavano rinnovando appunto stava alla estremità opposta della necropoli.
Infatti, presso il muro di cinta, nei campi comuni dei poveri diavoli, trovammo una ventina di manovali che, canticchiando e fumando la pipa, col freddo stoicismo del becchino d’Amleto, scavavano, sui vecchi tumuli, una lunga fila di fosse novelle.
Tra gli sterpi, tra l’erbe alte e folte, tra i cumuli di terra smossa di recente, cercammo in silenzio, e proprio vicino all’ultima fossa a sinistra, sotto piante abbattute, trovammo un frammento di croce di marmo, sopra cui, tuttoché sbianchite dal tempo, si leggevano lettere scolpite, che dicevano:
... iulio Delgrande morto il...
Cercammo il rimanente, ma non trovammo altro che scaglie infrante dal piccone, e sordidi avanzi di corone funebri. A un tratto, sotto un mucchio di sterpi, dentro la fossa, vidi un fangoso pezzo di carta. Lo raccolsi: era un cartoncino lacerato. Lo pulii col fazzoletto e si vide ch’era una fotografia stinta dal sole: una di quelle fotografie che l’ingenua pietà dei consanguinei mette nelle corone e appende alla croce che ricorda l’estinto.
Orbene, quella fotografia, tuttoché sì mal ridotta, conservava i lineamenti d’una testa, che somigliava del tutto a quella che era apparsa la sera precedente, e abbastanza al disegno che avevo schizzato sopra una pagina dell’albo, tanto intendo quanto potesse bastare per una sufficiente identità.
Metto dunque tal secondo fenomeno tra quelli che non si possono spiegare con l’ipotesi spiritica.