Gli orrori della Siberia/Capitolo IV – Le torture della sete

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Capitolo IV – Le torture della sete

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Capitolo IV – Le torture della sete
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Capitolo IV – Le torture della sete


Quantunque lo czar abbia, da una diecina d’anni, abolito le pene corporali pei forzati in Siberia, che un tempo mietevano un numero enorme di vite umane, pure le torture non sono ancora abolite in quella sconfinata regione che fa parte del colosso russo. Lo knut, l’infame staffile di cuoio indurito, munito alle estremità di pallottole di metallo fornite di punta, viene ancora adoperato in larga misura in fondo alle miniere siberiane ed ancor oggi, molti infelici spirano fra gli spasimi di quell’atroce flagellazione.

Ma la polizia siberiana, la più brutale, la più sanguinaria di quante ne esistano, pur non osando adoperare la sferza nelle città troppo prossime alla frontiera europea, per tema che l’eco dei lamenti delle vittime giunga agli orecchi del potentissimo imperatore, ha inventato altri supplizi per strappare ai prigionieri, specialmente a quelli politici, le confessioni.

Uno più adoperato, perché di esito quasi sicuro, è quello chiamato dell’aringa. Non uccide, non costa sangue; ma quali sofferenze deve sopportare il disgraziato se si ostina a rimanere muto.

Il caldo intenso che entra nella stretta prigione per mezzo di tubi appositi, il cibo salato e la totale mancanza d’acqua, in breve tempo lo fanno cedere.

Resiste?... Il miraggio d’una bottiglia di acqua limpida, delle frutta succulenti, una tavola lautamente imbandita, lo costringeranno alla resa.

Tenta ancora di ribellarsi? Si riconduce nella sua cella, gli si danno nuove aringhe, poi ancora aringhe e nemmeno una goccia d’acqua e si continua a riscaldare. Il povero uomo, cucinato vivo, disseccato lentamente, rôso dal sale, o impazzirà o confesserà.

Il colonnello aveva già udito vagamente parlare di quella atroce invenzione della polizia siberiana, ma non vi aveva prestato fede fino allora.

Udendo dalle labbra del carceriere quelle parole, egli era rimasto come annichilito.

– Infami!... – mormorò con voce rauca.

Poi ebbe un impeto di furore. Le sue formidabili braccia in pochi istanti demolirono il tavolaccio e sollevato un pezzo enorme si diede a battere la porta con tale impeto, da far oscillare le pareti e scrostare un lungo tratto di vôlta.

– Aprite!... – tuonò.

– Silenzio, o faccio fuoco! – ripeté al di fuori il cosacco di guardia.

– Voglio vedere l’ispravnik!... Mi si conduca da lui!... Io sono il colonnello Wassiloff.

– Andatevelo a cercare.

– Aprite o sfondo le pareti!... Non si torturano così degli uomini!... Lo czar lo ha proibito!

– Basta!... Silenzio o vi uccido!...

Così dicendo il cosacco aveva aperto un pertugio difeso da una piccola, ma solida inferriata che si trovava a metà altezza della porta, ed aveva risolutamente puntato il fucile, dirigendo la bocca verso il petto del gigante.

– Ebbene, uccidimi! – esclamò questi, precipitandosi innanzi.

Ma Iwan, pronto come il lampo, con una mano aveva deviata l’arma, mentre coll’altra respingeva il colonnello, dicendogli:

– Dovete vivere, signore.

– Non ho paura della morte!...

– Dovete vivere per vostra sorella.

A quelle parole, la tremenda collera del colonnello svanì come nebbia sotto il sole.

– Mia sorella!... – mormorò con accento doloroso.

Si terse rapidamente, quasi con rabbia, qualche cosa di umido che egli era subitamente spuntato sugli occhi, poi aggiunse:

– È vero... grazie, Iwan!...

Non disse altro. Si coricò ai piedi della parete colla testa stretta fra le mani, in preda ad una cupa disperazione. Il cosacco, non vedendosi più dinanzi l’avversario, aveva ritirato il fucile e chiuso il pertugio. Iwan, dopo d’aver ricollocato a posto i pezzi del tavolaccio, si era pure accovacciato presso la parete, girando intorno sguardi feroci. Il povero studente non poteva più resistere: si sentiva disseccare vivo da quel caldo soffocante, ardente, che entrava senza posa dai tubi invisibili, e dalla sete tremenda, atroce, che lo divorava.

La sua lingua ingrossata e disseccata come un pezzo di cuoio, indurito, si rifiutava ormai di parlare e non emetteva che dei suoni inarticolati; gli pareva che la gola eruttasse fiamme e di avere nel corpo un fuoco che divampava con crescente vigore, salendogli verso il cervello. Provava delle allucinazioni strane, udiva dei ronzii cupi dentro gli orecchi e gli pareva che tutta la pelle del corpo si raggrinzasse e si stringesse sempre più attorno ai muscoli. Il colonnello provava gli stessi sintomi e le stesse sofferenze, ma essendo dotato d’una robustezza eccezionale e d’una energia superiore, resisteva ancora. Nondimeno di quando in quando dalle labbra arse e screpolate, gli uscivano dei rauchi gemiti e di tratto in tratto lo si udiva mormorare con voce semispenta:

– Da bere!... Un sorso d’acqua... infami!...

Nessuno però rispondeva a quella disperata chiamata. Un silenzio profondo regnava nel vicino corridoio ed in tutto il vasto palazzo della polizia siberiana. L’ispravnik e le sue genti dormivano senza dubbio e tranquillamente, senza occuparsi affatto dei due disgraziati che lottavano contro quell’atroce supplizio. Bah!... una notte passa presto ed in una notte non si muore di sete!... Così doveva pensarla il potente capo di polizia, il quale, forse in quei momenti, pensava alle confessioni che avrebbe strappato l’indomani alle due vittime.

Intanto le torture crescevano. Iwan, vinto da quell’orribile sete che gli lacerava la gola e le viscere, rantolava in un canto dell’ardente cella cogli occhi schizzanti dalle orbite, la bocca spalancata come se aspettasse, di momento in momento, che una goccia d’acqua gli umettasse la lingua. Il colonnello invece, in preda ad una specie di delirio che aumentava la sua rabbia contro gli infami che lo martirizzavano, si rotolava sul suolo facendo sforzi disperati per rizzarsi in piedi e scagliarsi contro la porta, fosse pur stato certo di farsi fucilare dai cosacchi.

Di tratto in tratto la sua voce rauca echeggiava, rompendo il cupo silenzio che regnava nel kremlino.

– Da bere... da bere... – rantolava.

Ma le sue chiamate non ricevevano risposta. A poco a poco però entrambi caddero in un profondo torpore, che, poteva anche chiamarsi uno svenimento. Quanto rimasero in quello stato? Forse dieci ore, forse di più, poiché quando il colonnello ritornò in sé era ancora notte ed un limpido raggio di luna entrava attraverso i vetri della piccola inferriata.

Quel calore infuocato che lo disseccava vivo pareva che fosse scemato, ma la sete non si era estinta, anzi la tortura aveva raggiunto tale intensità che il disgraziato prigioniero credette di essere impazzito.

Si rizzò sulle ginocchia girando attorno uno sguardo disperato. Iwan rantolava, sempre addossato alla parete, mordendo, in un ultimo spasimo, un pezzo d’aringa e invocando, con voce appena distinta, un sorso d’acqua.

A quella vista il colonnello senti smarrirsi la ragione e un’onda di sangue gli oscurò gli occhi.

– Da bere? – rantolò. – Ah!... non vogliono... darci da... bere... ma se possiamo... bere?... Iwan... vi darò... da bere...

Il disgraziato, che doveva essere in preda al delirio, così parlando rideva, ma d’un riso che faceva paura.

– Da bere?... – ripeté. – Ecco... Iwan... bevete!...

Udendo quelle parole, lo studente, con uno sforzo disperato si alzò, fissando sul colonnello due occhi d’ardente bramosia.

– Acqua... acqua... – rantolò.

– No... acqua... sangue!... – rispose il colonnello.

Poi rapido come il lampo si denudò un braccio e al raggio di luna che entrava nella stanza, Iwan lo vide cercare qualche cosa colle labbra, poi udì cadere a terra uno spruzzo liquido.

– Bevi!... – esclamò il colonnello. – Bevi... non avranno... no... i nomi... degli amici!...

E porse il braccio nudo allo studente spruzzandogli il viso d’un liquido caldo che zampillava a rapide pulsazioni.

– Bevi!... – ripeté il gigante.

Lo studente invece si ritrasse indietro, emettendo un urlo d’orrore.

– Sangue!...

– Delle mie vene... bevi... prima che fugga... tutto...

– Oh!... mai!... mai!...

In quell’istante la porta si aprì ed un uomo munito d’una lanterna si precipitò nella stanza, gridando con voce tuonante:

– Cosa succede qui?... Del sangue?... All’armi!...

La sentinella che stava dinanzi alla porta, udendo quel grido, diede l’allarme e pochi istanti dopo dei cosacchi e dei carcerieri entravano precipitosamente, recando dei lumi.

– Un suicidio? – chiese il carceriere alzando la lanterna sul colonnello.

– Che t’importa? – rispose questi con voce strozzata.

I cosacchi gli si slanciarono addosso: solo allora videro che dal braccio sinistro del prigioniero zampillava un getto di sangue, e irrompeva attraverso una vena aperta sopra il gomito.

– Ah! – esclamò il capo carceriere. – Comprendo di cosa si tratta. Cattiva bevanda, colonnello, insufficiente a spegnere la sete. Bah!... Hanno la pelle dura questi forzati e poi, devono abituarsi, – concluse con un sorriso beffardo.

Si tolse da una tasca un fazzoletto e con mano abile fasciò il braccio, poi si guardò intorno come se cercasse qualche cosa.

– Dov’è l’arme? – chiese con inquietudine.

– Non... ne ho... – rispose il colonnello.

– Ma quella ferita?...

– Basta... un colpo di... dente... Da... bere... datemi da... bere... infami... o vi uccido... tutti!...

– Più tardi, se lo ispravnik lo permetterà.

– Conducetemi... da lui...

– Siete deciso a confessare?... Le aringhe sono un mezzo infallibile per sciogliere la lingua.

– Non... parlerò...

– Come vi piace. Alzatevi e seguitemi.

– Dove... ci... conduci? – barbugliò Iwan.

– Dall’ispravnik: vi attende.

– Sì... sì... vengo... voglio strangolarlo.

– Preparate le armi, – disse il carceriere, volgendosi verso i cosacchi.

I soldati inastarono le baionette, afferrarono i prigionieri per le braccia, senza che questi pensassero ad opporre la menoma resistenza contro quella brutale stretta e li spinsero fuori.

Attraversato il corridoio, li introdussero nella medesima stanza ove avevano subito il primo interrogatorio.

Quella sala aveva però subito una strana trasformazione: si avrebbe potuto dire che era una sala da pranzo anziché di giustizia.

Dei grandi doppieri d’argento, disposti tutti all’intorno, la illuminavano splendidamente, facendo scintillare dei lunghi specchi dorati che adornavano le pareti.

In mezzo una grande tavola, circondata da cinque comode e soffici poltrone, si piegava sotto il peso d’una infinita quantità di tondi. Vi si vedevano salmoni dell’Obi, pasticci freddi, delle coppe riboccanti di frutta deliziose, aranci, melagrani, mele, pere e parecchie bottiglie fra le quali alcune di champagne più o meno autentico. Spiccavano però sopratutto quattro enormi bottiglie piene d’acqua limpidissima, le quali scintillavano sotto il riflesso di quei numerosi doppieri.

Tre poltrone sole erano occupate: una dall’ispravnik, sempre tranquillo e sempre sorridente, le altre da due ispettori.

Nel momento in cui i due prigionieri venivano introdotti nella sala, i tre capi della polizia stavano sorseggiando dei bicchieri di champagne.

– Ah!... – esclamò l’ispravnik, vedendoli. – Spero che la notte vi avrà portato qualche buon consiglio. È vero, colonnello Wassiloff?...

Il gigante non rispose: i suoi occhi si erano fissati con ostinazione feroce sulle quattro enormi bottiglie d’acqua che scintillavano dinanzi al capo di polizia. Ebbe come una vertigine e spinto da una forza irresistibile, più potente della propria volontà, si scagliò verso la tavola, emettendo un grido che più nulla aveva d’umano, mentre Iwan cadeva sulle ginocchia rantolando:

– Acqua... acqua!...

I quattro cosacchi che li avevano condotti colà, si erano rapidamente schierati dinanzi alla tavola, incrociando le baionette per impedire al colonnello di avanzare, ma il gigante, più rapido di loro afferrò due fucili per la canna, atterrò con una spinta irresistibile i loro proprietarii e strappandoli a loro di mano, li alzò minacciosamente tuonando:

– Largo!...

I due cosacchi rimasti in piedi, stupiti da tanta audacia e da tale vigore, non osavano assalirlo. L’ispravnik ed i due commissarii di polizia, pallidi di paura, si erano alzati simultaneamente, impugnando le rivoltelle che tenevano alla cintura.

– Colonnello Wassiloff, giù le armi! – gridò il capo di polizia.

– Dateci... da bere... – rantolò il gigante, che con una rapida mossa aveva alzato i due fucili, pronto ad accoppare coi calci i quattro soldati.

– Giù le armi, – ripeté l’ispravnik, puntando verso di lui la rivoltella. – Volete farvi uccidere?...

– Uccidetemi!... – rispose Sergio.

Aveva appena pronunciata quella parola che le forze lo tradirono, lasciò cadere i fucili, poi stramazzò pesantemente sul tappeto della sala.

L’ispravnik con un gesto arrestò i cosacchi che stavano per precipitarsi sul colonnello, ricollocò nella cintura la rivoltella ed avvicinandosi a lui, gli disse con una voce che invano sforzavasi di rendere ferma:

– Confessate i vostri complici?... Avrete finito le vostre torture.

– Mai!... – barbugliò il colonnello, con suprema energia.

– Renderete un immenso servigio allo czar nostro padre.

– Non... sono... vile...

– Se lo farete, vi giuro che implorerò la vostra grazia.

– No!...

– Ma disgraziato, voi avete una sorella che potreste un giorno rivedere. Orsù, confessate.

Una rapida e profonda commozione alterò i lineamenti del colonnello a quelle parole dell’ispravnik. La grazia!... poter rivedere un giorno la sorella!... Abbandonare quell’inferno di ghiaccio e di tormenti che chiamasi la Siberia e... ritornare un giorno in patria!... Quale miraggio per quel disgraziato!... Ma tutto questo esigeva un tradimento, una delazione; equivaleva a mandare a marcire in fondo alle tremende, alle spaventose miniere, altri infelici, degli amici, dei fratelli forse. Ah! no, il colonnello Wassiloff non era tale uomo. Un’onda di sangue gli montò al capo a quel pensiero ed il suo viso arrossì d’indignazione.

– No!... mai!... – urlò con un supremo sforzo. – Puoi uccidermi... ma non... strapperai... una sillaba... dalle mie labbra.

Poi, come se avesse esalato tutta la sua energia in quell’ultimo grido, lasciò cadere pesantemente la testa sul tappeto, emettendo un rauco gemito.

L’ispravnik lo considerò alcuni istanti con due occhi che mandavano cupi lampi, mentre la sua fronte si aggrottava burrascosamente. A poco a poco però quelle rughe si spianavano e quella tetra fiamma si spegneva.

Scosse il capo, come se volesse scacciare un importuno pensiero, mormorando a più riprese:

– A quale pro? Questi uomini non s’arrendono: i polacchi si lasciano uccidere, ma non tradiscono. E l’altro?... Sarà testardo del pari e si lascerà uccidere piuttosto che confessare. Chissà!...

S’avvicinò a Iwan che rantolava, disteso a terra.

– Puoi parlare? – gli chiese.

Lo studente fece un cenno negativo col capo.

– Io ti darò da bere una di quelle bottiglie d’acqua limpida che vedi scintillare sul mio tavolo e ti darò quelli squisiti aranci che tu vedi, ma ad una condizione, e cioè che tu confessi i tuoi complici.

Lo studente, che fissava con ardente bramosia quelle bottiglie d’acqua, ebbe un sussulto alle prime parole del capo di polizia, ma alle ultime, un sorriso sdegnoso contrasse le sue aride labbra. Fece col capo un energico gesto negativo, emettendo un suono confuso che equivaleva ad un «no» deciso.

– Allora ti lascerò morire.

Lo studente alzò le spalle.

– Ma parla una volta! – esclamò l’ispravnik.

– No, – fece ancora Iwan.

Il capo di polizia non parve incollerito da quell’ultimo e più reciso rifiuto, anzi un lampo di soddisfazione balenò nei suoi occhi.

– Il russo vale il polacco, – mormorò. – Mi sarebbe forse spiaciuto che fosse stato da meno. Bah!... S’incaricherà la polizia di Pietroburgo o di Mosca di scoprire i complici di questi nichilisti. Io ho fatto tutto ciò che potevo e non posso ucciderli.

Poi, volgendosi verso un ispettore, gli chiese:

– Signor Brainin, dove si trova la colonna dei forzati?

– Il corriere giunto ieri mi disse che era giunta alla tappa di Camisceuk.

– Fate ricondurre questi uomini nella loro prigione e date loro da mangiare e da bere. Domani mattina partiranno e con una rapida corsa potranno raggiungere la colonna a Omsk o alla tappa di Cainsk.

– E la catena?

– Gliela metteranno alla tappa. Badate che ci sia una buona scorta dietro alla slitta: questi due uomini sono pericolosi e posseggono una energia sovrumana.