Gli orrori della Siberia/Capitolo I – Gli esiliati

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Capitolo I – Gli esiliati

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Capitolo II – L’«ispravnik»

Capitolo I – Gli esiliati


Quantunque non sia più sede del governo e sia molto decaduta dall’antico splendore, un po’ per incuria degli abitanti ed un po’ per volere dell’Impero Moscovita, che mirava ad innalzare invece Omsk ed Irkutsk, Tobolsk è rimasta ancora una delle più importanti, delle più popolose e delle più pittoresche città della Siberia occidentale.

Situata sulla riva destra dell’Irtish, affluente dell’Obi, rimpetto al luogo dove sbocca il Tobol, signoreggia sopra la steppa circostante e si fa scorgere molto da lontano colle sue cupole ardite dipinte a vivaci colori, e col suo kremlino, cinto di mura merlate.

Come tutte le città asiatiche, è divisa in due parti distinte: la città alta, che racchiude il kremlino, situato ai piedi d’una roccia che s’innalza un centinaio di metri sul fiume, con un palazzo per gli agenti governativi, con caserme pei soldati e le guardie di polizia, le prigioni per gli esiliati, una cattedrale ed una chiesa secondaria; la città bassa, composta di case di meschina apparenza, abitate dalla popolazione indigena, o tartara, di casupole di legno cinte da piccoli orti e di bazar coi tetti dipinti a smaglianti colori.

Sebbene sia città antica, essendo stata eretta subito dopo la conquista della Siberia, sembra assolutamente moderna. L’unico monumento che esista è un obelisco, innalzato a ricordo di Jerneak Timofcief, l’ardito etmanno dei cosacchi del Volga, che nella metà del secolo XVI, alta testa di ottocentoquaranta guerrieri, debellava i tartari e gli ostiaki da Kutscium, assicurando alla Russia il possesso di quella sterminata regione che dai confini dell’Europa corre fino allo stretto di Behring.

La sua popolazione, composta in piccola parte di russi, dediti per lo più al commercio delle pellicce, di tartari e di samoiedi, conta ancora un quindicimila anime, ma tende costantemente a scemare. Di quando in quando però si accresce di qualche migliaio, ma quell’aumento è di poca durata e non è da nessuno degli abitanti di certo desiderato, poiché si tratta di esiliati.

È infatti da Tobolsk che quei disgraziati, condannati alla dura vita delle miniere di rame o di mercurio, cominciano la terribile marcia a piedi, attraverso le immense steppe nevose, per raggiungere i loro luoghi di pena. È colà che si formano quelle interminabili catene di uomini, che poi vengono diramati su quella sterminata regione, e che sono condannati a marciare dei lunghi mesi e talvolta perfino degli anni interi sotto la neve, fra i ghiacci o sotto un sole ardente, succhiati vivi da milioni di avidi tafani.

Si può dire, Tobolsk, il centro da cui partono i condannati, il luogo dove ricevono il loro ultimo foglio di via e di dove cominciano le tremende marce sulla Wladimirka (via della Siberia).

Il 27 dicembre del 1880, un battello a vapore, di quelli che servono al trasporto degli esiliati, fendeva rumorosamente le acque dell’Irtish, avvicinandosi a Tobolsk, le cui cupole si distinguevano confusamente sul nebbioso orizzonte.

Era uno svelto piroscafo, con grandi ruote per vincere la rapida corrente del fiume, equipaggiato da buon numero di marinai e di cosacchi, ma quel giorno non traeva a rimorchio alcuna di quelle grandi chiatte di lamiera galvanizzata, vere prigioni galleggianti, entro le quali vengono stipati, come le acciughe, i colpiti dalla giustizia russa.

La presenza però di quei cosacchi, disposti lungo le murate del battello, colle baionette inastate sui fucili, come fossero pronti a reprimere un qualche pericolo, bastava per far comprendere che, se mancavano le chiatte, non mancavano gli esiliati.

Infatti, seduti presso il boccaporto maestro, colle catene ai polsi e rigorosamente sorvegliati, stavano due uomini, i quali di quando in quando si scambiavano qualche parola.

Uno era una specie di gigante, alto quasi sei piedi, con ampie spalle, petto enormemente sviluppato, un vero tipo di granatiere finlandese. Poteva avere trentasei o trentotto anni, ma la sua ampia fronte era solcata da rughe precoci e sul volto, aperto e simpatico, si stendeva un velo malinconico.

Era biondo come lo sono in generale tutti gli uomini di razza slava, o tartara slava, con folti baffi che gli davano un aspetto marziale e quasi militare, una fronte alta, spaziosa, occhi d’un azzurro profondo che ora mandavano lampi, ed ora pareva che diventassero umili; lineamenti recisi, ma simpatici.

L’altro faceva uno strano contrasto con quel gigante. Era invece di statura media, con capelli e baffetti neri, occhi pure neri, un po’ vellutati, la carnagione rosea, il viso un po’ largo come si riscontra nelle popolazioni della Russia meridionale.

Non pareva molto inquieto nel trovarsi fra quei cosacchi dai volti duri, che non lo perdevano di vista, né molto impressionato per le catene che gli stringevano i polsi.

Anzi, quantunque fosse molto più giovane del compagno, forse di quindici anni, guardava con aria quasi canzonatoria i suoi guardiani e sosteneva intrepidamente le loro minacciose occhiate.

Già il piroscafo non distava che un miglio da Tobolsk, quando il giovane prigioniero, volgendosi verso il compagno, che pareva assorto in profondi pensieri, disse:

– È là adunque, colonnello, che noi sapremo la sorte che ci è riserbata?

– La nostra sorte! – rispose il gigante, scuotendo tristamente il capo. – È già decisa, Iwan: la Siberia ci attende.

– Ma non sappiamo ancora dove ci manderanno.

– Ce lo diranno a Tobolsk.

– Andremo lontano?

– Senza dubbio: i figli della Polonia ed i nichilisti fanno paura al governo e ci manderanno forse nelle più lontane miniere per toglierci ogni speranza di ritorno.

– Ma dove?

– Forse a Werhojansk o più oltre, a Nijne-Kolymsk, a settemila chilometri da Mosca.

– A settemila chilometri? – esclamò il giovanotto. – E, ditemi, quanto impiegheremo noi a giungere colà?

– Due anni almeno.

– Dovremo andare a piedi?

– Lo avete detto.

– Ma... ci sarà il tempo di fuggire, – mormorò Iwan.

Un amaro sorriso increspò le labbra di colui, che era stato chiamato colonnello.

– Fuggire! – diss’egli a voce bassa, per non venire udito dai cosacchi. – Ah! Voi non sapete, Iwan, che cosa sia la Siberia, ignorate cosa sia la catena vivente che marcia sull’interminabile Wladimirka. Quando vi avranno chiuse le gambe fra l’infame catena, e la sferza, il freddo, la fame, le marce forzate, vi avranno stremato, sfibrato, spenta l’ultima scintilla d’energia e ridotto uno scheletro coperto di piaghe e roso dal male, vorrei vedervi a fuggire. No, voi non sapete che cosa sia la Siberia.

– Mi fate venire i brividi, colonnello.

– Vi verranno peggiori più tardi, mio povero compagno di sventura.

– Partiremo in compagnia d’altri?

– Chissà quante centinaia di compagni ci attendono nelle prigioni di Tobolsk.

– Tutti esiliati politici?

– E ladri ed assassini che marceranno assieme a noi, che divideranno il nostro pasto e le dure tavole della tappa.

– Noi assieme ai ladri! – esclamò Iwan, impallidendo e poi arrossendo. – Non siamo assassini noi, colonnello.

– Che importa al governo ed a nostro padre lo czar?1 Non fanno differenza fra noi che lottiamo per un’idea, che chiediamo l’abolizione del dispotismo, e i ladri che derubano i viandanti o gli assassini che accoltellano a tradimento le loro vittime. Temono più noi che loro e gravano la mano più su di noi, che su quei miserabili.

– Ah, ma io! – esclamò Iwan, lanciando uno sguardo feroce sui cosacchi e tendendo le pugna verso di loro.

Un ufficiale cosacco, con due lunghi baffi appuntati ed impeciati di grasso, con una immensa barba rossastra, gli occhi grigi come quelli d’un falco, i lineamenti duri, angolosi, udendo quello scoppio di rabbia e vedendo l’atto minaccioso del giovane, abbandonò il parapetto del piroscafo, e, avvicinandosi, gli disse:

– L’hai finita, cane d’un posselentsy?2 È un’ora che chiacchieri come se tu fossi ubriaco di vodka (acquavite di segala). Basta, canaglia!...

– Io dico... – disse Iwan, dardeggiando su di lui uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.

– Voglio che tu stia zitto, – ribatté l’ufficiale, con voce rauca.

– Nessuno può impedirmi di parlare.

– Te lo proibisco io, cane d’un nichilista.

– Il cane sarai tu! – esclamò il giovanotto, furibondo.

Il cosacco parve sorpreso d’una simile audacia, poi impallidì e alzò la corta frusta che teneva in mano.

– Puoi battermi con tuo comodo, – disse Iwan, con voce stridula. – Non è la prima volta che le vostre fruste mi toccano, e porto ancora, sul mio dorso, le tracce sanguinose dell’infame knut3.

Questa risposta, lungi dal calmare il cosacco, parve che lo irritasse doppiamente, poiché la frusta cadde, ma non toccò le spalle del prigioniero. Il colonnello, rapido come il lampo, si era alzato gettandosi dinanzi al compagno e ricevendo in sua vece la frustata, che doveva produrre, sul suo corpo potente, l’effetto d’un semplice colpo di ventaglio.

– È così che si rispettano gli ordini di nostro padre lo czar? – chiese il gigante, con voce tranquilla, ma dardeggiando sul cosacco uno sguardo tale da farlo indietreggiare. – Ignorate voi adunque che le pene corporali sono state proibite?... Bisogna che ve lo dica io, un posselentsy, ma che un mese fa ero ancora vostro superiore?... Ah! lo so, che laggiù, in fondo alla Siberia, i soldati della Russia ed i poliziotti non si vergognano di adoperare ancora l’infame knut e che straziano le carni degli infelici che il destino avverso ha messo nelle loro mani, ma non siamo ancora sepolti nelle tetre gallerie, celati agli occhi del mondo. Giù quella frusta!...

Un sorriso di scherno contorse le labbra dell’ufficiale, mentre i suoi uomini, per ogni precauzione, armavano i fucili e incrociavano le baionette. Il prigioniero rizzò l’imponente statura e, facendo due passi verso il cosacco, ripeté con un tono che indicava l’uomo abituato al comando:

– Giù la frusta!... Potrei un giorno ridiventare il colonnello Sergio Wassiloff e farvi sentire il peso delle mie braccia.

Il cosacco aveva cessato di ridere, e la frusta lentamente, era ricaduta.

– È vero, – disse, dopo alcuni istanti di silenzio. – Nostro padre lo czar non vuole che si adoperi né la frusta, né lo knut.

Volse bruscamente le spalle e tornò ad appoggiarsi alla murata, fingendo di guardare la corrente del fiume, mentre il colonnello si sedeva accanto al compagno, facendo risuonare lugubremente le catene.

– Grazie, colonnello Wassiloff, – disse Iwan, con voce commossa. – È la seconda volta che voi mi salvate dalla frusta di quel furfante.

– Siate prudente, – disse il gigante. – Qui posso ancora farmi rispettare pel grado e la posizione che occupavo, ma quando farò parte della catena vivente, diverrò anch’io un semplice posselentsy, un internato a vita al pari di tutti gli altri. Evitate di suscitare degli odii; più tardi potreste pentirvene. Ecco il kremlino colle sue tetre prigioni: fra un’ora noi sapremo la nostra sorte a meno che...

– Cosa volete dire? – chiese Iwan, vedendolo interrompersi bruscamente.

– Non sarà finito il nostro interrogatorio, mio povero compagno.

– Ci sottoporranno ad un altro.

– E forse più angoscioso e terribile.

– Vi comprendo; cercheranno di strapparmi dei nomi.

– Sì, Iwan.

– Non parlerò.

– Siamo in Siberia, Iwan.

– Vi dico che non parlerò.

– Chissà...

– Mi nascondete qualche cosa o credete che io sia capace di tradire dei compagni?

– Ve li strapperanno i nomi.

– Oh mai!

– La polizia russa non teme di commettere delle infamie. La Siberia non è la Russia, e quello che succede qui si ignora a Mosca ed a Pietroburgo, e forse dallo stesso czar.

– Volete spaventarmi, colonnello?

– A quale scopo? Non sarebbe il momento, mio disgraziato compagno; vi metto solamente in guardia.

– Voi dunque credete?... – chiese Iwan, guardandolo con viva inquietudine.

– Che la tortura vi costringa a sciogliere la lingua.

– Resisterò a qualunque martirio e non tradirò nessuno, ve lo giuro.

– Siete un bravo giovane e vi ammiro francamente.

Poi, come parlando a se stesso, aggiunse:

– Mi uccideranno se lo vorranno, ma non avranno i nomi dei miei camerati.

Ad un tratto impallidì, e uno spasimo mal frenato, contrasse i suoi lineamenti, mentre un profondo sospiro gli sollevava l’ampio petto.

– Povera Maria Federowna, – mormorò, con voce strozzata.

– Avete qualche profondo dolore che vi turba, colonnello, – disse Iwan che lo guardava con viva attenzione.

– È vero, – rispose il gigante, scuotendo tristamente il capo. – Ah!... Quando penso a lei, il mio cuore si schianta e sento la mia energia vacillare... Povera sorella mia!

– Tobolsk! – gridò in quell’istante il pilota.

Il colonnello si raddrizzò, scuotendo con una specie di furore l’infame catena che stringevagli i polsi.

– Orsù, – diss’egli con fierezza. – Prepariamoci alla lotta.


Note

  1. Così i russi chiamano il loro imperatore.
  2. Forzato a vita.
  3. Frusta di cuoio indurito terminante in pallottole di piombo a punta. Bastano quaranta colpi per uccidere un uomo il più robusto.