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Gli ultimi filibustieri/Capitolo XIX - Fra le foreste vergini

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Capitolo XIX - Fra le foreste vergini

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Capitolo XIX - Fra le foreste vergini
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Capitolo XIX
Fra le foreste vergini


La luna cominciava a tramontare dietro le alte cime della sierra, quando i tre avventurieri si rimisero in cammino, colla speranza di piombare di sorpresa addosso al marchese ed ai suoi pochi uomini, se non si erano ripiegati già sulle cinquantine della retroguardia, e finirla per sempre con quel formidabile ed inafferrabile avversario.

Si erano cacciati in mezzo ad una boscaglia di noci nere, alberi giganteschi, frondosi, foltissimi, che danno delle frutta in quantità enorme, colla corteccia molto spessa ed il nocciolo invece piccolo e mediocre, preziosissimi però pel loro legno che può quasi competere col famoso ebano africano.

Un silenzio di tomba regnava sotto quelle magnifiche piante. La caccia notturna doveva essere finita, poiché l’alba non era lontana e le belve si erano certamente già ritirate, nei loro covi, dopo aver fatto delle vere ecatombi di conigli.

Di quando in quando un improvviso bagliore rompeva l’oscurità profondissima. Proveniva da masse di funghi fosforescenti, di dimensioni gigantesche, che si stringevano intorno ai tronchi enormi dei noci.

Quella corsa furiosa, condotta da don Barrejo, il quale si sentiva spinto da un desiderio feroce di vendicare il povero sergente, non ebbe alcun risultato.

Ai primi albori, i tre avventurieri, madidi di sudore, colle gambe rotte, si trovavano sulla cima della sierra. Degli spagnuoli non avevano trovato alcuna traccia.

— Ehi, don Barrejo, — disse il basco, — spero che non mi prenderai per un mulo dei Pirenei, corpo d’una saetta!... Io e De Gussac siamo quasi morti di fame.

— Ora potremo cacciare, senza correre alcun pericolo, — rispose il guascone.

— Perché?

— Ho ammazzato il cane che guidava gli spagnuoli.

— Tu hai fatto questo?

— Non ho perduto il mio tempo, compare. Avevo già giurato di fare la pelle a quella bestiaccia che costituiva per noi un continuo pericolo.

«Anche se gli spagnuoli udranno un colpo d’archibugio, difficilmente sapranno orientarsi, specialmente sotto queste boscaglie.»

— Io preferirei però fare una dormita, giacché abbiamo guadagnato terreno, — disse De Gussac. — Non ne posso piú.

«Alla colazione potremo pensare piú tardi.»

— Tutti i tavernieri non sono nati avventurieri, — disse don Barrejo, scherzando. — D’altronde anch’io non ho dormito un solo momento, tormentato sempre dal pensiero che sarei stato inesorabilmente appiccato.

«Cadere sul campo di battaglia, passi, ma finire sulla forca come un bandito!... Oh!... Ciò mi crucciava immensamente.

«Che cosa dici, Mendoza?»

Il basco non rispose. Si era sdraiato in mezzo ad un folto e freschissimo tappeto di muschi e cominciava già a sonnecchiare, quantunque avesse gli occhi ancora aperti.

— Allora approfittiamo, — disse don Barrejo. — Pel momento nessuno verrà a disturbarci.

«Abbiamo almeno un vantaggio di sei ore di marcia sugli spagnuoli, ammettendo che si siano mossi coll’alzarsi della luna.»

— Dormi, chiacchierone eterno, — disse Mendoza, sbadigliando. — La tua lingua starebbe bene in bocca alla bella castigliana.

— Anche la sua è abbastanza lunga e non ha bisogno che gliene dia un po’ della mia.

«Tu non l’hai mai udita come urlava quando salivo dalla cantina colle gambe malferme! E quella briccona non voleva capire che i vini devono essere sempre assaggiati da un buon taverniere.

«Vi pare?»

Gli risposero due grugniti: Mendoza e l’ex-taverniere di Segovia dormivano come ghiri, affondati in mezzo al soffice strato di muschio.

— Non sono della mia fibra, — disse il guascone, torcendosi con sussiego i baffi. — Giacché non posso parlare nemmeno coi pappagalli, che qui mancano assolutamente, sarà meglio che approfitti anch’io della circostanza. Chissà!... Posso sognare le deliziose serate passate nella mia cantina, intorno alle botti ben piene.

Sbadigliò tre o quattro volte, stirandosi le membra, poi a sua volta si affondò nel soffice muschio, mandando un gran sospiro di soddisfazione.

Sonnecchiava da forse un quarto d’ora, quando fu sorpreso da una dolcissima corrente d’aria che pareva prodotta da un ventaglio agitato sopra la sua testa. Non essendo ancora completamente addormentato, agitò una mano e provò una strana impressione di freddo che gli fece subito spalancare gli occhi.

Un uccellaccio, che rassomigliava ad un grossissimo pipistrello, si era alzato sopra di lui, mandando delle piccole grida e descrivendo dei fulminei zig-zag.

Essendosi il sole già un po’ alzato, il guascone aveva potuto vederlo. Aveva la testa grossa, armata di due denti e d’una specie di ventosa, e le sue ali pelose misuravano, insieme, quasi un metro, mentre il corpo non era piú lungo d’una ventina di centimetri.

— Un vampiro!... — urlò. — All’erta, camerati!... Si cerca di dissanguarci!...

Né Mendoza, né l’ex-taverniere di Segovia avevano risposto alla chiamata d’allarme.

Tonnerre!... Sono stati già dissanguati!... — esclamò.

Si era alzato in preda ad una visibile emozione, tenendo l’archibugio alzato per ammazzare quei maledetti succhiatori di sangue.

Ad un tratto arrestò inorridito, lasciò cadere il fucile che a nulla avrebbe potuto servirgli, e snudò la draghinassa.

Un orribile spettacolo si era offerto ai suoi occhi; uno spettacolo da far gelare il sangue all’uomo piú coraggioso dei due mondi.

Accovacciati sul petto dei suoi due compagni, stavano due ragni giganteschi, orribili, pelosi, tutti neri, grossi quanto una bottiglia, con due branche armate di terribili uncini, lunghi non meno di otto pollici, i quali si erano già affondati nella carne, attraverso lo sparato della sbrindellata camicia.

Don Barrejo, abbastanza pratico della regione, non aveva tardato a riconoscere in quei due brutti mostri che succhiavano sangue avidamente, due migale giganti, ossia due di quei ragni che vivono nelle foreste dell’America centrale, e che quando sono affamati non esitano anche ad assalire le persone addormentate.

Le branche taglientissime dei due brutti mostri avevano intaccato le carni di Mendoza e dell’ex-taverniere di Segovia, e succhiavano ferocemente.

Don Barrejo balzò contro il piú vicino, con una pedata lo tolse dal petto di De Gussac, poi con un gran colpo di draghinassa lo finí.

Il secondo, vista la mala fine del compagno, aveva tentato di mettersi in salvo su un vicino albero, però prima che fosse troppo alto la draghinassa lo colse, spaccandolo nettamente in due.

— Amici!... Amici!... — gridò il terribile guascone, scuotendoli. — Non vi accorgete che vi dissanguano?

Mendoza pel primo aprí gli occhi, e non seppe trattenere un grido di ribrezzo vedendosi il petto coperto di sangue.

— M’hanno assassinato!... — esclamò.

— Ma che!... — rispose don Barrejo. — Non si tratta che d’una semplice cavata di sangue compiuta dalle migale.

«È vero che se tardavo ad accorgermene, quei mostriciattoli te ne avrebbero succhiato almeno un paio di libbre.»

— Ed anch’io sono tutto insanguinato, — disse De Gussac, balzando in piedi, spaventato.

— Ed io per poco non dividevo la medesima sorte, poiché un grosso vampiro cercava di sorprendermi nel sonno, — disse don Barrejo. — D’ora innanzi noi non commetteremo piú l’imprudenza di addormentarci tutti e tre.

— Le hai almeno accoppate quelle bestie? — chiese Mendoza.

— Io ho vendicato il tuo sangue. Vi è un ruscelletto che scorgo laggiú, andate a lavarvi e mettete sulle ferite un po’ di cotone.

«Ecco là un albero che ve ne fornirà finché ne vorrete.»

— Sarebbe stato meglio che quel cotoniere portasse delle frutta, — disse De Gussac. — Noi moriamo di fame.

— To’!... Mi ero scordato che avete sempre la pancia vuota, mentre il mio ventre è stato generosamente imbottito di non so quale infame intruglio navigante in una vera olla podrida.

«Mentre fate un po’ di toeletta, mi proverò a battere questa foresta.»

— Bada di non perderti, — gli disse De Gussac.

— Non andrò lontano, compare. So bene che è facile smarrirsi in queste immense foreste vergini.

Mise un po’ di polvere nello scodellino dell’archibugio, abbassò il cane perché la trattenesse contro la pietra focaia, e se ne andò, guardando attentamente a destra e a sinistra.

Non aveva percorsi duecento passi quando udí, in mezzo alle folte piante, uscire un grido malinconico, lugubre:

A-j!...

Don Barrejo si era fermato, guardandosi intorno.

— Chi è che si lamenta? — si chiese. — Che vi sia qualche ferito? Non rappresenterebbe una colazione, per centomila code del diavolo!...

In quel momento il grido si fece nuovamente udire, piú lungo, piú straziante.

Pareva proprio che qualcuno si lamentasse.

Il guascone, un po’ impressionato, stava per tornare indietro, quando, alzando gli occhi verso una noce, scorse aggrappata ad un ramo, col dorso rivolto a terra, una specie di scimmia, dal pelame molto folto e colla testa che rassomigliava piuttosto a quella d’un gatto che d’un quadrumane qualunque.

— Ecco la colazione!... — esclamo il guascone. — Non so che cosa sia, so però che sotto la pelle vi è della carne di arrostire.

Aveva alzato già l’archibugio, poi tornò ad abbassarlo, borbottando:

— Se non si muove! Vediamo se si può risparmiare una carica.

Infatti quello strano quadrumane, quantunque avesse già scorto il cacciatore, non abbandonava il ramo e non cessava di mandare il suo sgradevolissimo urlo lamentevole.

— Bisogna venir giú, mio caro, — disse il guascone. — Se hai le gambe rotte e non puoi muoverti io non so che cosa farci.

«Ci servirai egualmente da colazione.»

Si avvicinò al ramo che era piuttosto basso e spoglio interamente di tutte le sue foglie, ed afferrò la coda del quadrumane, tirando a tutta forza.

Il ramo, sotto quella violenta trazione, si abbassò, ma l’animale rimase fermo al suo posto.

— Altro che zampe rotte!... — esclamò don Barrejo. — Queste sono zampe di ferro.

«Signora scimmia, volete arrendervi si o no?»

Il quadrumane ritirò lentamente la sua coda e non si mosse.

— Eppure non è legata, — disse il guascone. — che razza di bestia è questa? Me lo dirà Mendoza che conosce meglio di me le bestie che abitano queste selve.

«Orsú, legami o no, tagliamo.»

Tirò fuori la draghinassa e d’un colpo, decapitò la povera bestia, poi aggrappandosi nuovamente alla coda, dopo sei o sette strappate, le une piú vigorose delle altre, pervenne ad impadronirsene.

Solo allora si accorse che quello strano animale invece di avere delle dita possedeva delle unghie robustissime, lunghe un buon pollice.

— Che appartenga alla famiglia delle scimmie graffianti, se ne esiste una al mondo? Io veramente non ne ho mai udito parlare.

«Graffiante o no, andiamo a scuoiarla ed a gettarla sul fuoco.»

La riprese per la coda per lasciare che il sangue sfuggisse interamente e tornò, non senza qualche difficoltà, al campo.

Mendoza e l’ex-taverniere di Segovia avevano terminata la loro toeletta ed avevano chiuse le due piccole ferite prodotte dalle terribili branche delle migale con dei ciuffi di cotone selvatico.

La cavata di sangue era stata forse un po’ abbondante, però le ferite riportate si riducevano a semplici tagli sulla pelle.

— Ehi, Mendoza, — disse il guascone, gettandogli ai piedi il singolare quadrumane. — Io ti porto la colazione e vorrei, prima di metterla sui carboni, che tu mi dicessi che specie di animale noi mangeremo.

«Certo non è un serpente, ed io non ho mai udito parlare di scimmie velenose.»

— Quantunque tu l’abbia decapitato ti dirò subito che è un a-j.

A-j?... Che cos’è?

— L’animale piú poltrone che esista al mondo, poiché impiega non meno d’un paio di giorni a percorrere un paio di metri, per raggiungere le foglie che gli servono d’alimento.

«Figurati, amico, che piuttosto d’incomodarsi a scendere dagli alberi, si lascia cadere a terra per risparmiarsi la fatica.»

— Che gambe hanno dunque?

— Solidissime e anche ben armate.

— Lo so io che non ero capace di strappare giú questo macaco. È almeno mangiabile?

— Gli indiani non rifiutano la sua carne, quantunque si affermi che sia coriacea come quella del tapiro.

— Bah!... Abbiamo lo stomaco robusto e andrà giú egualmente, — disse l’ex-taverniere di Segovia, il quale aveva già impugnata la navaja per preparare l’arrosto.

— Degli spagnuoli nessuna nuova? — chiese Mendoza.

— Io non ho veduto altro che degli alberi, — rispose don Barrejo. — Devono essere ancora ben lontani, dopo la nostra marcia forzata. Signor taverniere di Segovia, come si può cucinare questa bestia?

— Gl’indiani, che sono grandi divoratori di scimmie, le cuociono al forno. Lasciate fare a me.

«Portatemi della legna e vi offrirò una colazione eccellente.»

— Uhm!... — fece il basco, scuotendo la testa.

Nemmeno don Barrejo parve convinto, poiché fece una smorfia di disgusto.

L’ex-taverniere aveva terminato di scuoiare l’a-j e l’aveva avvolto in diverse foglie di palmizio, dopo d’avergli cacciato nel ventre, prima vuotato, delle erbe aromatiche che aveva trovato a portata di mano.

Servendosi un po’ della draghinassa e un po’ delle mani, scavò una buca abbastanza profonda e vi gettò dentro quanta legna già accesa poté.

— Ecco un forno molto economico e molto spiccio, — disse don Barrejo. — Per caso hai fatto cucina agl’indiani?

— Piú di quanto t’immagini, — rispose De Gussac, ridendo. — Ti posso anzi dire che se sono ancora vivo lo devo alla mia abilità culinaria.

— Che cosa ti è successo dunque?

— Traversavo l’istmo in compagnia d’una mezza dozzina di avventurieri, i quali si erano proposti di raggiungere le sponde dell’oceano Pacifico per arruolarsi sotto Davis, quand’ecco che un brutto giorno una tempesta di frecce ci accoglie in mezzo alla boscaglia, senza che si potesse vedere da qual parte provenivano.

«Rispondemmo subito coi nostri archibugi. Il fragore dei colpi pareva che non spaventasse affatto quei fieri indiani, poiché continuarono a prenderci di mira coi loro dardi e cosí bene, che dopo un quarto d’ora tutti i miei compagni giacevano a terra morti.»

— Eri protetto da qualche prezioso amuleto, tu? — chiese don Barrejo, il quale sorvegliava il fuoco.

— Certo, — rispose, serio serio, l’ex-taverniere di Segovia. — Nella famiglia dei De Gussac si conservava una medaglia benedetta, che si aveva l’abitudine di portare sul cuore.

«Ti avverto che era grossa quando una piastra.»

— Tira avanti, — disse don Barrejo, sorridendo, — e tu, Mendoza, ritira i tizzoni e getta nel forno la nostra scimmia.

«Si deve coprirla di terra, mi pare, è vero, De Gussac?»

— Ed accendervi sopra un altro fuoco.

— Ora continua.

— Morto mio padre, la medaglia l’avevo presa io, perché era l’unica cosa che avesse ancora un po’ di valore, essendo d’oro di miniera.

— Erano ricchi come i miei, i De Gussac, — disse il terribile guascone. — Continua.

— Tu non lo crederai, eppure tre volte delle frecce mi colpirono in direzione del cuore e si spuntarono tutte contro l’amuleto.

— Cospettaccio!... Vuoi vendermelo?

— Se non l’ho piú!

— Dov’è andato a finire?

— Si troverà ancora sospeso al collo del capo della tribú.

— E tu dunque hai reso quel briccone invulnerabile!... Speriamo di non trovarlo sul nostro cammino, — disse don Barrejo, un po’ ironicamente. — E come andò a finire la storia?

— Accerchiato da tutte le parti, da non so quante dozzine d’indiani armati d’archi e di rompi-costole, fui costretto ad arrendermi.

«Fortunatamente quegl’indiani erano antropofagi.»

— Fortunatamente!... — esclamarono ad una voce Mendoza e don Barrejo.

— Se non lo fossero stati, io non sarei già qui a narrarvi quella brutta avventura.

— Spiegati meglio, amico, — disse il terribile guascone. — Qui vi è un punto oscuro che bisogna chiarire.

— Te lo dico subito, — rispose l’ex-taverniere di Segovia-Nuova. — Mi avevano condotto al villaggio e mi avevano legato ad un palo, in attesa di mangiarmi.

«Avendo però abbastanza carne umana, perché come ti ho detto, tutti i miei compagni erano rimasti sul terreno, mi riservarono per una colazione che il cacico doveva offrire ad un altro capo.

«Sotto i miei occhi vidi arrosolare cinque dei miei camerati, su certe graticolone formate di legno d’albero del ferro. Trovandomi presente a quell’orgia di carne, un indiano fu tanto gentile di portarmi una mano semi-bruciata, invitandomi a divorarla.»

— E tu l’hai mangiata! — gridò don Barrejo facendo tre o quattro smorfie di fila. — Puah!...

— Finsi invece di assaggiarla, poi protestai altamente contro i cucinieri, chiamandoli ignari dei piú semplici elementi della culinaria.

«Il cacico, che era un gran buongustaio, come seppi dopo, mi offerse senz’altro la carica di grande cuciniere di corte.

«Ed eccomi all’indomani a cucinar cadaveri dentro pentoloni, con contorno di patate e di erbe aromatiche.»

— E chi cucinavate? — chiese Mendoza.

— Gli altri cinque miei compagni.

— Fulmini!... Che fegato!...

— Mio caro, si trattava di salvare la pelle, e se non li avessi cucinati io, li avrebbero arrostiti gli altri.

«Il successo fu immenso, straordinario. Se quella sera il cacico non morí d’indigestione fu un vero miracolo.»

— Ecco una terribile storia di cannibali!... — esclamò don Barrejo. — Continua, De Gussac: questo racconto m’interessa assai.

— L’interesse è terminato, — rispose l’ex-taverniere di Segovia. — Per cinque mesi non feci altro che preparare gl’indiani morti negli scontri, alcuni alla salsa verde, altri alla rossa, finché un giorno, stanco di quella carica, me ne andai.

— Senza il medaglione?

— Era rimasto nelle mani del cacico.

— E tutto finí lí?

— Ho attraversato boschi, montagne e fiumi, sempre spronato dalla paura di venire ripreso e mangiato a mia volta, finché un giorno giunsi a Segovia-Nuova, che allora non era che un semplice villaggio e là mi stabilii.

— Queste si chiamano avventure, è vero, Mendoza? — disse don Barrejo.

— Che fanno venire la pelle d’oca solamente a udirle raccontare, — rispose il basco.

— Dimmi un po’, De Gussac, hai servito anche qualche morto agli spagnuoli di Segovia?

— Mi avrebbero già appiccato. Ohé, Mendoza, e l’arrosto? Non cucinavo cosí io quand’ero fra gli antropofagi del Darien.

«La scimmia deve essere cucinata a puntino.»

Spensero il fuoco, colle draghinasse vuotarono la buca e misero allo scoperto l’a-j, il quale, pur essendo un quadrumane, spandeva intorno a sé un profumo appetitoso. L’ex-taverniere di Segovia tolse le foglie di palmizio e la tanto sospirata colazione finalmente comparve.

I tre uomini però, quantunque affamati, si guardarono l’un l’altro ed esitarono ad intaccare l’arrosto.

— De Gussac, — chiese don Barrejo, — a che cosa ti pare che somigli questo arrosto?

— Ad uno di quei bambini che cucinavo pel cacico nelle feste di gala.

— Somigli anche al diavolo, non sarò io che mi tirerò addietro, — disse Mendoza.

Prese la navaja e spaccò l’a-j, il quale sembrava piú un essere umano che una bestia.

Vinta la ripugnanza e solleticati dalle erbe aromatiche i tre filibustieri finirono per dare all’arrosto un tale assalto da non lasciare che poche ossa.

— Mi pare che questa carne fosse molto dura, — disse don Barrejo.

— Ah!... Io non me ne sono accorto, — rispose Mendoza. — So che riposa tranquillamente nel mio ventre e che il sacco non è piú vuoto come prima.

De Gussac approvò con un cenno del capo.

— Possiamo andare? — chiese don Barrejo. — Non scordiamoci che abbiamo dietro di noi il marchese di Montelimar e che i nostri compagni sono forse già giunti al Maddalena.

— Gambe, — risposero semplicemente il basco e l’ex-taverniere di Segovia.