Grand Tour/XI
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L’Italia è stata, per lunghi secoli, il Bel Paese che ogni persona colta del Continente era tenuta a visitare con il gran tour di cui il letterato, il filosofo, l’uomo politico dovevano riferire nel diario che, manoscritto o a stampa, si sarebbe aggiunto alla biblioteca i cui volumi più prestigiosi hanno scritto Montaigne e Göethe. La bellezza della Penisola è stata irreparabilmente compromessa da un’urbanizzazione la cui anarchia non ha avuto riscontro in nessuna nazione d’Europa, siccome in Francia, in Germania e in Inghilterra l’industrializzazione non ha compromesso le note caratteristiche degli scenari rurali come è stato consentito di fare in Italia. I muri che delineavano le terrazze in cui erano stati sagomati i rilievi dalla Valle d’Aosta alle Isole Lipari costituivano elemento essenziale del fascino del Bel Paese. Abbandonata l’agricoltura dei rilievi per lo spostamento nelle pianure del baricentro dell’economia, compresa quella agraria, l’immensa opera dell’”Italia ciclopica” si sta dissolvendo all’urto delle forze della natura e a quello dei mezzi moderni per la movimentazione della terra. Costituisce dovere precipuo della cultura agronomica consegnare alle generazioni future la memoria e le immagini di uno dei volti peculiari dell’Italia che presto non sarà più. L’Autore conclude auspicando che sotto l’egida dell’Accademia dei Georgofili venga affrontato l’inventario delle terrazze e dei ciglioni delle regioni italiane che la cultura naturalistica, quella storicistica e quella architettonica non hanno, fino ad ora, neppure tratteggiato.
Grand tour nel Bel Paese che non è più
Credo che l’incontro odierno rivesta un significato che sarebbe colpevole non cogliere. Riunendoci per riflettere sull’eredità che, sagomando, dalla Valtellina alle Isole Pelagie, i rilievi di regioni intere, ci hanno consegnato decine di generazioni di contadini, siamo chiamati a fissare l’attenzione su uno degli elementi che hanno fatto, per secoli, dell’Italia il Bel Paese. Il Bel Paese per antonomasia, il più bello dei paesi d’Europa, il paese che qualunque persona colta del Continente doveva, tra i caposaldi della propria formazione, avere conosciuto, con quel Grand Tour che costituiva tappa necessaria del percorso educativo del patrizio francese, inglese, tedesco, matrice della stesura di forse diecimila diari di viaggio, tra quelli editi e quelli inediti, una biblioteca che sigilla con attestazioni inequivocabili l’antonomasia che per secoli nessuno spirito colto ha potuto disconoscere.
Terrazze e ciglioni, quindi muri di sostegno, sono uno dei cardini della bellezza del paesaggio italiano, quei cardini che, ritengo, fossero eminentemente tre: con la sagomatura delle pendici, la rete di irrigazione che disegnava la pianura piemontese, quella lombarda, le piane del Centro e del Mezzogiorno, fino alla Conca d’oro, e, terzo elemento della triade della perfezione, il manto delle alberate: gelsi, olmi e aceri uniti dai festoni di vite, che alternavano i propri ranghi ai campi arati dal Veneto alla Terra di lavoro. La triade della perfezione consacrava lo splendore del paese più bello d’Europa, bello per dono della natura, siccome le rive del Lario e la costa ligure costituiscono scenari privi di eguale, bello per opera dell’uomo, perché ciglioni, canali e alberate sono frutto del lavoro umano, del lavoro immobilizzato nella terra per renderne possibile uno sfruttamento di intensività quale le condizioni climatiche della Penisola non avrebbe consentito, che senza quegli apprestamenti non avrebbe assicurato la vita di una popolazione numerosa quanto è sempre stata numerosa la popolazione italiana. Capovolgendo i convincimenti della cultura economica settecentesca Pietro Verri, conoscitore ineguagliato di dati economici, proclama, nel 1771, che il paese considerato patria dell’agricoltura più evoluta al mondo, l’Inghilterra, non sarebbe che distesa di pascoli e selve, tanto aspro da costringere gli abitanti a cercare la ricchezza sul mare e sulle coste tropicali, mentre sarebbe paradigma di intensività di sfruttamento l’Italia, e a dimostrare l’asserzione compara i sette milioni di abitanti della Gran Bretagna con i quindici dell’Italia, data l’equivalenza del territorio prova incontrovertibile.
La mano dell’uomo aveva costruito il paese più bello del’Europa per ricavarne pane, vino e olio. La bellezza derivava dall’utilità. Dobbiamo chiederci se, mancati i presupposti dell’utilità, fosse inevitabile rinunciare alla bellezza: dobbiamo chiedercelo perché dobbiamo riconoscere che quello che era il Bel Paese è, oggi, forse il più brutto dei paesi d’Europa. Lo dico con amarezza, ma lo asserisco con determinazione. Escludiamo i centri storici, che la cultura nazionale, orgogliosa dell’edificio, noncurante della campagna, ha curato con venerazione, ed escludiamo i comprensori che hanno goduto di speciale tutela, il Chianti e le Cinque Terre, la Costiera amalfitana e il Parco d’Abruzzo. Attraversiamo l’Italia, sulle grandi autostrade che la intersecano, solcando pianure disseminate di coacervi informi di fabbriche e villini, confrontiamo la visione con quella che offre l’attraversamento, sulle arterie cardinali, della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, tre delle maggiori nazioni industriali del Globo, che attraversate sedotti, per centinaia di chilometri, dalla visione di campi e boschi intatti nella veste secolare. Eppure l’agricoltura delle campagne che solcate, in Francia e in Inghilterra, è la più avanzata del Mondo: l’agricoltura è progredita rispettando qualche quercia secolare, nascondendo la grande stalla dietro un poggio, realizzando il novo stabilimento Renault fuori della vista dell’autostrada.
Terrazze, fossi e alberate non costituivano più necessità agronomica, come non costituivano necessità le querce inglesi e le siepi francesi, ma l’agricoltura di grandi nazioni industriali ha adattato il paesaggio senza privarlo del connotato agreste. In Italia non sono state le esigenze di ampliare i campi per le macchine, si deve ribadire, a cancellare il paesaggio rurale: un’espansione edificatoria sottratta ad ogni regola ed ordine si è appropriata di pianure e valli appenniniche nella furia di imprimere il proprio marchio a un territorio del quale pretendeva di annullare l’antico carattere rurale. Una manomissione che non era imposta da ragioni agronomiche, siccome l’Inghilterra vanta la maglia aziendale maggiore d’Europa, e la Francia la prima cerealicoltura, per produttività, del Pianeta. Gli agricoltori dell’Hertfordshire e quelli della Beauce hanno ampliato i campi in relazione alla potenza delle trattrici, ma chi attraversa la loro terra non vede che campi delimitati da ranghi di querce secolari, sedotto dalla vista che reputa fosse la medesima che dalla carrozza ammiravano Shakespeare o Racine. Non è la medesima vista: è l’illusione felice prodotta da un piano intelligente di trasformazione del paesaggio. Francia e Inghilterra non mancano di impianti industriali: l’amore del paesaggi nazionale ha indotto a nasconderli.
Convertire il Bel Paese nel Brutto Paese non ha costituito l’assolvimento di una necessità agronomica, ha costituito la perpetrazione di un delitto contro il paesaggio, ha costituito una grave menomazione delle potenzialità di approvvigionamento alimentare a favore delle generazioni future. In tremila anni di faticose opere di bonifica il Paese aveva conquistato sei milioni di ettari di pianura: in sei decenni ne ha sacrificato oltre un terzo. Mentre nell’economia planetaria il cibo, che può convertirsi in energia, sta seguendo la strada del petrolio, la scelta inizia a rivelare, forse , la propria temeraria sufficienza.
Prospettive storiche e illusioni prospettiche
Si può peraltro rilevare che il sovvertimento di tutti gli assetti della Penisola si è compiuto in un tumulto che solo una lungimiranza singolare avrebbe potuto disciplinare. A dimostrarlo si può ricordare che Emilio Sereni pubblicava l’opera famosa sul paesaggio nel 1961: pubblicandola si poneva all’interno, non oltre il termine, di una vicenda entro la quale reputava ancora del tutto vitali le potenzialità produttive di ciglioni e muriccioli. Storico attento, marxista rigidissimo, proclamava, nel libro scritto nel 1961, ribadiva nelle edizioni successive, pubblicate prima e dopo la morte, avvenuta nel 1977, che le “forze produttive sociali” pretendessero l’estensione della sistemazione “a spina” propugnata da Ridolfi a tutta la collina dell’Italia centrale, e che fossero le reazioni di retroguardia del capitale a impedire la diffusione di una tecnologia indispensabile per la prosperità dell’agricoltura nazionale. Sappiamo che le forze del capitale sospingevano alla meccanizzazione integrale e ai prodigi produttivi che l’agricoltura italiana avrebbe realizzato nelle pianure, pretendevano l’abbandono della collina al bosco. Il progresso tecnologico ha rifiutato le soluzioni che imponevano un impiego di lavoro umano caratteristico di età diverse della storia. Leggere quelle pagine ci conduce a un’Italia che non è più: in pochi paesi la rivoluzione industriale è stata altrettanto repentina che nel nostro: una nazione contadina si è riversata nelle città, un popolo di contadini si è convertito in paese industriale: esaminando criticamente gli esiti del processo non si può mancare di rilevare quali difficoltà proponesse il suo controllo politico, sociale e, sul terreno del nostro incontro, urbanistico e paesistico.
Ma un’altra età storica si sta, forse, chiudendo all’alba del nuovo millennio: sulle pianure la tecnologia ha compiuto prodigi, ma dall’alba degli anni Novanta la produttività agraria ha smesso di crescere al ritmo degli anni Sessanta e Settanta, quando la combinazione di nuove sementi, fertilizzanti e antiparassitari permetteva, su scala planetaria, incrementi prossimi al 3 per cento all’anno. Contrattisi gli incrementi annuali, mentre la conquista del primo benessere da parte derll’Asia, metà dell’umanità, innesca l’esplosione della domanda di alimenti, verifichiamo che esistono limiti oltre i quali sementi, acqua e fertilizzanti non sostituiscono la terra. Chi ha conservato, con la bellezza del paesaggio, i grandi campi per il frumento e i foraggi ha assicurato ai figli e ai nipoti una certezza che chi ha disseminato le pianure di villette ha quantomeno pregiudicato. Credo che lo scenario nuovo imponga la domanda se l’Italia dovrà produrre, di nuovo, parte del proprio cibo sui declivi. Non lo possiamo escludere, seppure possiamo escludere che, costretti a farlo, lo faremmo sistemando le colline “a spina”
Per la storia dell’Italia ciclopica
Ribadita l’entità del sovvertimento degli antichi scenari agrari italici, suggerito che esso non sia stato espressione della prudenza con cui si amministra il patrimonio essenziale di una nazione, e sottolineato che non sono state le esigenze dell’agricoltura, quando i muretti della collina e i fossi delle sistemazioni a piantata hanno perduto le funzioni produttive, a imporre la conversione del Bel Paese nel Brutto Paese, propongo la domanda che mi pare costituisca l’essenza del tema che siamo riuniti a discutere: cosa si può salvare delle antiche sistemazioni di monte, terrazze, muriccioli e ciglioni?
Alla domanda rispondo, con assoluta sincerità, di non sapere cosa si possa preservare, ancora, in termini fisici. Sono venuto, dichiaro, per ascoltare quanto diranno, in proposito, i relatori del nostro incontro. Quanto voglio ribadire, in queste riflessioni introduttive, è essenzialmente un imperativo della coscienza storica, l’esigenza di conoscere, di fissare nella memoria la fisionomia del paese che obbligò il mondo civile a definirlo il Bel Paese. Un paese civile non può dimenticare quello che è stato, non può dimenticarlo neppure se nell’euforia della nuova ricchezza abbia distrutto i ritratti dei propri vecchi. Esisteva dalla Valle d’Aosta ai monti Iblei, comprendendo i colli della Brianza e la Valtellina, la costa ligure e la Garfagnana, il Chianti, le pendici marchigiane, i Castelli romani, la Costiera amalfitana, i primi rilievi pugliesi e calabresi, le isole Lipari e le pendici dell’Etna, un’autentica Italia ciclopica, frutto del lavoro di centinaia di generazioni, immensa accumulazione di capitale quando lo spazio per produrre cinque staia di frumento e un orcio di olio costituiva certezza di vita. Un’Italia ciclopica in parte già cancellata dagli elementi naturali o dal lavoro delle ruspe, in parte cospicua tuttora testimoniata da tracce evidenti, un paese di cui reputo costruisca dovere della cultura agraria dei decenni dell’abbandono lasciare una testimonianza alle generazioni future. Non mi risulta che dell’immane opus terrae et petrae esistano studi adeguati, la cultura storica ha, dal volume di Sereni, ignorato il tema e ele sue implicazioni, non esiste una geografia, manca una tipologia, l’analisi del ruolo, nella costruzione di muri e ciglioni, di proprietari e contadini, il tipo delle colture praticate in ogni regione, alle quote diverse: non reputo la mancanza di conoscenza accettabile, ritengo che un imperativo di consapevolezza del passato nazionale imponga di ricolmare il vuoto.
A sottolineare l’esigenza, geografica e storica, dello studio dell’Italia ciclopica, mi pare si debba ricordare la fondamentale affermazione di Giuseppe Medici, che amava ricordarci che dagli splendori del primo Medioevo mercantile la civiltà italiana è stata civiltà della collina: in un paese in cui le pianure erano, in prevalenza, dominio dell’acquitrino, la civiltà italiana, ripeteva Medici, era la civiltà di Todi, di Siena e di Spoleto, città di collina circondate da poderi in cui i pochi cereali erano coltivati al fondo delle valli, le cui coste erano ricoperte di viti e di olivi, ai cui piedi non si rinunciava, peraltro, a seminare frumento o fave. Non costituivano eccezione le città emiliane, allineate, sulla via Emilia, al confine tra l’alta e la media pianura, tra la stretta fascia pianeggiante, cioè, in cui i terreni sgrondano naturalmente in fiumi e torrenti, e la pianura media, progressivamente conquistata, nel corso del Medioevo, elevando le imponenti arginature che avrebbero fissato l’alveo vagante degli affluenti padani di destra. Costituiva eccezione, ed eccezione significativa, Ferrara, i cui duchi sfidano, sedotti da un sogno di preminenza cerealicola, le acque del Po, realizzando un’impresa che si risolverà nella più rovinosa disfatta della storia delle bonifiche della Penisola.
Credo che la storia, che dovremmo scrivere, di terrazze e ciglioni, debba essere storia parallela a quella della bonifica idraulica: non potendo, fino alla costruzione dell’idrovora, domare la palude, il contadino italiano ha conquistato la terra che gli era necessaria in montagna, sagomando le pendici perché le acque non gli sottraessero la terra conquistata, con la terra il pane che nasceva dalla terra. Siccome conquistare la montagna alla coltivazione senza terrazzarla significava sottrarla al bosco per pochi anni e consegnarla ai figli convertita in parete sassosa e sterile, incapace di alimentare una spiga. E perdendo la montagna si accrescevano le torbide fluviali condannando, insieme alla terra conquistata sulle pendici, le opere di regimazione in pianura. Come insegna l’esito delle grandi bonifiche estensi, condannate dalla fame di terra che aveva moltiplicato, negli stessi anni, i dissodamenti in montagna, che erano dissodamenti senza muretti e ciglioni.
Non conosco, ho premesso, la grande sintesi che stabilisca le tappe dell’espansione delle terrazze sulle pendici italiane. Dubito che per realizzarla siano disponibili le necessarie tessere locali. Se debbo avanzare una proposta fisserei la data da cui iniziare il percorso storico nel Palazzo municipale di Siena, nel grande affresco del Buongoverno di Lorenzetti. Gli storici dell’arte hanno sottolineato che in un dipinto commissionato dalle autorità comunali l’artista propone la più intensa attività di sfruttamento della terra nell’area periurbana, mostra, attorno ai castelli che infigge su montagne lontane, pendici che mostrano i segni palesi del dissesto idrogeologico. I rissosi feudatari che insidiavano la tranquillità del comune non promuovevano, è il rimprovero pittorico del maestro ai nemici della committenza, l’uso oculato delle risorse, i loro monti franavano.
Fisserei la seconda tappa nel capolavoro agronomico della Rinascenza, le Vinti giornate dell’agricoltura di Agostino Gallo, stampate, nella versione definitiva, nel 1969. Nella cornice di un’opera che celebra l’intensività dello sfruttamento agrario della provincia bresciana nella prima giornata Gallo suggerisce di sagomare le pendici collinari sorreggendole con muri a secco, tra le cui pietre suggerisce di piantare capperi, mentre consiglia, nei ripiani ottenuti, la coltura dei carciofi: è la prima menzione dei terrazzamenti di collina della letteratura agronomica.
Per realizzare l’Italia ciclopica, per erigere le terrazze che arginano milioni di metri cubi ci terra, sorretta da milioni di metri cubi di pietre, occorre, verosimilmente, il lavoro di contadini che l’immensa fatica affrontino nella speranza della proprietà dei pochi metri quadrati da cui ricavare, ogni anno, qualche staio di frumento e un orcio d’olio. Una fatica probabilmente iniziata nei secoli bui del Medioevo, intensificata nel Cinquecento, in epoca di crescita demografica e di elevato prezzo dei cereali, verosimilmente interrotta nel Seicento, età di caduta demografica e di ristagno economico, ripresa nel Settecento, intensificata nel secolo successivo, un secolo di vigorosa crescita demografica e di sempre più evidente squilibrio tra le capacità dell’agricoltura italiana e il numero degli abitanti della Penisola e delle Isole.
Ho supposto una parabola plurisecolare, ma la vastità dell’Italia ciclopica, la diversità delle modalità di costruzione dei terrazzamenti nelle singole regioni, testimonianze di autentiche, peculiari tradizioni di ingegneria contadina, le ingenti differenze tra valli diverse, obbligano a dichiarare, avanzata l’ipotesi, che solo la somma delle indagini locali potrebbe consentire la sintesi di cui la supposizione più sensata non può costituire che l’ipotesi senza poterla sostituire. Ma per sostituire all’ipotesi la dimostrazione occorre, parallelo all’inventario topografico, la ricerca, sulle fonti locali, della genesi di ogni contesto di terrazze o ciglioni.
Ogni pendice sagomata nasce da circostanze specifiche, impone la ricostruzione di una storia peculiare. A ribadire una verità che reputo non richieda dimostrazioni voglio ricordare l’origine, secondo Giorgio Gallesio, di parte cospicua dei terrazzamenti della Riviera di ponente, che il pomologo ottocentesco attribuisce al commercio genovese di zucchero. Quando Genova sarebbe riuscita, infatti, a infrangere il monopolio veneziano, importando zucchero dal Mar Nero e a imporre il duopolio, quel duopolio non avrebbe goduto che di fasti effimeri: la causa, palesemente, l’insediamento delle piantagioni di canna nelle Antille e in Brasile. Genova avrebbe individuato l’opportunità di un commercio di grande ricchezza offrendo, anziché zucchero, i canditi, un derivato la cui preparazione richiedeva quantità di agrumi che nessun concorrente, al tempo, produceva. Le coste spagnole, splendore dell’agricoltura moresca erano tornate, alla Riconquista, pascolo per gli ovini. La costa ligure era già prodigio di coltivazione, il prodigio fu moltiplicato diffondendo l’arancio amaro, l’ingrediente dei canditi più sapidi.
Propongo una vicenda diversa: posseggo una vecchia casa sull’Appennino, a 1025 metri di altezza. Il cartiglio scolpito, sulla porta, in una lastra di arenaria ricorda che Onorato Andreoni fecit anno Domini 1886: tanto il toponimo, La Teggia, quanto la struttura della casa dicono che il costruttore non edificò su un prato, ma ampliò un precedente fienile estivo, costruito per riparare il fieno nei mesi dei grandi lavori, per condurlo in paese, durante l’inverno, su una treggia, attraversando i campi gelati, siccome le mulattiere erano troppo strette per il transito del veicolo. Attorno alla Teggia i campi sono divisi in riquadri da grandi muri costruiti, palesemente quando, convertiti i prati in arativi, quegli arativi dovettero essere liberati dall’immensa mole di pietre giacenti nei primi venti centimetri: un’opera che è verosimile collocare ai tempi della conversione della teggia in abitazione, siccome non è verosimile che il terreno circostante venisse, in precedenza, arato, mentre lo sarebbe stato dopo la costruzione. Un episodio dell’ascesa della fascia abitata, nell’Appennino, dagli 800 metri del borgo ai 1.100 della Teggia, un episodio che si inquadra nei decenni di inarrestabile crescita demografica durante la quale possiamo presumere sia stata realizzata la parte più ingente delle terrazze dell’Italia ciclopica, come confermano testimonianze della Calabria, ricordo annotazioni di Leopoldo Franchetti sulla Sila, e della Sicilia, ricordo rilievi di Sidney Sonnino sull’Etna. Ma nell’Ottocento le terrazze realizzate dalla Brianza all’isola di Filicudi non sarebbero state in grado si sfamare l’immenso numero degli italiani che chiedeva alla terra il proprio pane: sarebbe iniziata la biblica fuga verso l’America e l’Oceania. La storia dell’Italia delle pendici di cui ci ha insegnato a ragionare Medici si conclude sulle centinaia di vapori diretti oltre l’Oceano, una tragedia sociale ed economica la cui percezione ribadisce l’importanza di conoscere la storia dell’Italia ciclopica, per penetrare le vicende dei rapporti, sulla nostra terra, tra l’uomo e le risorse naturali.
Ma ricordando la genesi di parte delle terrazze liguri e della parte più elevata dei muri campestri dell’Appennino emiliano ho, ancora, proposto ipotesi. Uno strumento capitale per convertire le ipotesi in sicurezze storiche abbiamo supposto, immaginando i lavori di questo incontro, potesse essere costituito dai diari del Gran Tour, i diecimila diari che ho ricordato ricolmare le biblioteche francesi, tedesche, inglesi. Il Gran Tour è argomento di moda: tutta la cultura nazionale è stata informata che centinaia di diari sarebbero stati resi disponibili, sullo schermo del computer, dal proficuo accordo di grandi biblioteche europee. E’ stato con grandi speranza che abbiamo incaricato, quindi, una giovane operatrice di biblioteca di ricercare le notizie su terrazze e muretti reperibili sui diari disponibili. Sfortunatamente chi ha realizzato l’impresa, proclamandone il valore culturale, che è indiscutibile, non ha seguito gli accorgimenti necessari alla ricerca secondo parole chiave. Si ricercano invano, quindi, le parole terrasses e gradins nelle centinaia di diari francesi teoricamente disponibili. Affrontata la ricerca la nostra solerte bibliotecaria ha realizzato comunque la lettura di alcuni diari famosi, ricordo Motaigne e Göethe, reperendo menzioni di interesse precipuo sui terrazzamenti di regioni chiave dell’Italia ciclopica: annotazioni di Montaigne sulle isole del Lago Maggiore, di Goethe sulle pendici che osserva dalla carrozza che lo porta da Bologna a Pistoia. Rilevo che da Montaigne a Goethe trascorrono oltre duecento anni, che ci consentono di esplorare l’arco cospicuo dei secoli durante il cui corso supponiamo che la realizzazione si sia compiuta.
Ho enunciato un’esigenza, che credo costituisca dettato della coscienza storica e dell’amore di patria, ho proposto uno strumento per assolverla, uno degli strumenti, preciso, siccome altre fonti sussistono certamente, seppure l’immensa biblioteca dei diari di viaggio costituisca, per assolvere all’intento, scrigno di ricchezze inesauribili, di cui sarà comunque arduo l’inventario. Una tradizione antica vuole che ogni convegno fruttuoso si concluda con l’enunciazione di un programma: credo che la sede di questa Accademia, che incarna la continuità della cultura agraria nazionale, sia la tribuna più consona per auspicare la moltiplicazione degli studi sull’Italia ciclopica, elemento chiave della civiltà fiorita, in secoli gloriosi, tra i fondovalle bresciani, le valli romagnole, i colli toscani, i castelli romani e la costiera amalfitana.
Abstract
Italy was, for e long succession of centuries, the Bel Paese, Nice Country which every cultivated people of the Continent was obliged to visit during the grand tour which the writer, the philosopher, the politician had to refer about in a special diary. Printed or manuscripted, his diary would have enriched the library whose the most famous pieces are the works of Montaigne and Göethe. One of the preeminent elements of the beauty of Italy were the walls that defined the terraces of the hills which, to obtain wheat and olive oil, were shaped from Valle d’Aosta to Lipari Islands. The beauty of the Peninsula doesn’t exist any more, radically destroyed by an urbanization whose anarchy was not allowed in any country of Europe, as in France, in Germany and in England industrialization was realized without destroying the agrarian landscapes of the country regions. After the movement of the center of Italian economy from hilly regions to plains, terraces of Italian hilly regions are tumbling under the pressure of climatic elements and of modern excavation machines, they will soon be cancelled from Italian landscape and from Italian memory. One can state that it is a special duty of agrarian culture to leave to the future generations the story and the images of one of the characteristic faces of the ancient Bel Paese. The Author concludes hoping that under the direction of the Accademia dei Georgofili an inventory would be started of the terraces of all the Peninsula, the purpose that until now neither the naturalistic culture, nor the historical or the architectonic ones proved the necessity to sketch.
Relazione alla giornata di studio Muri di sostegno a secco: aspetti agronomici, paesaggistici, costruttivi e di recupero, I Georgofili – Quaderni, 2008-II, Firenze 2009