I Mille/Capitolo XXII
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CAPITOLO XXII.
IL RISCATTO.
Sulle tue cime di granito — io sento |
Quand’io, nell’avventurosa mia carriera sulle coste americane dell’Oceano, ho potuto dire a degli schiavi «Voi siete liberi!» quello fu certamente il più bel momento della mia vita.
E voi bianchi! padroni e carnefici dello schiavo nero — voi!... teneteveli i diamanti vostri — io non li curo. A me, pirata — come m’avete chiamato tante volte — basta d’aver messo un termine ai vostri delitti ed al servaggio dei vostri schiavi.
Marzia, che abbiam lasciata fuggente dalla sua cella — dopo d’aver atterrato e quasi strangolato il gesuita — dominata ancora dal parossismo di disperazione in cui l’avea condotta il perverso colle diaboliche insinuazioni, avea conservato però presenza di spirito sufficiente per impadronirsi del mazzo di chiavi attenenti alla chiave della propria cella, e profittando della confusione suscitata da Cozzo e compagni nel loro assalto, si accinse ad aprire quante celie le capitarono nel corridoio — piene tutte di prigionieri — e per fortuna indovinò nelle stesse quelle delle sue compagne.
Ricorderà il lettore come finì sventuratamente la lotta ineguale impegnata tra il pugno di prodi, di cui facean parte Cozzo e le tre eroine, e la guarnigione del castello, sostenuta dalle compagnie di sbarco della marina.
Ora la capitolazione dei Borbonici era firmata, l’Isola dovea essere evacuata, e certo i primi a liberarsi dovevano essere i detenuti politici di Castellamare.
La liberazione di quei cari e valorosi compagni, la maggior parte feriti, uscendo dall’ergastolo e risalutando il sole della libertà, acclamati da immensa popolazione, fu un vero giorno di festa per la capitale della Sicilia. — Ognuno abbracciava i suoi che avea creduto per sempre perduti — e lascio pensare con che giubilo Lina e Marzia furono accolte dai Mille, e massime da P. e da Nullo.
Lia era rimasta a custodire Cozzo, incapace di muoversi per le ferite, sino verso sera in cui fu trasportato in una bussola alla propria casa.
Giubilate pure, uomini e donne che contribuiste alla liberazione della patria! A che vale la vita dello schiavo! Non è meglio morire? Palermo libera e cacciando i tiranni, vale ben la pena di esser fieri di giubilarne!
La superba capitale dei Vespri, come i suoi vulcani, manda ben lungi le sue scosse — e crollano al gagliardo suo ruggito i troni che posero le insanguinate fondamenta sull’impostura e sulla tirannide.
Ma non solo i buoni giubilavano, anche i perversi maestri camaleonti — sempre pronti a svestire la pelle del lupo e frammischiarsi tra gli agnelli divenuti leoni. — Sì! anche i schiakal dell’italiana famiglia, oggi tutti seduti alla greppia dell’erario pubblico, giubilavano!
Drizzando alquanto il collo torto ed atteggiando il ceffo al sorriso, spuntavano dai loro covili, ove s’eran tenuti nascosti tutto il tempo che durò la pugna, stringendo la destra a tutto il mondo ed inneggiando più degli altri alla libertà ricuperata.