I minatori dell'Alaska/XII - Battaglia di volatili

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XII — Battaglia di volatili

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XII — BATTAGLIA DI VOLATILI


Il giorno seguente, verso il tramonto, dopo avere attraversata una lunga catena di colline boscose, il drappello giungeva sulle rive del Peace, uno dei più considerevoli fiumi della Columbia Britannica, che ha le sue sorgenti fra la grande catena delle Montagne Rocciose, e che dopo un lunghissimo e tortuoso percorso, attraverso le pianure del territorio dell'Athabasca, va a scaricarsi nel lago omonimo. Le acque erano ancora basse, non essendo ancora cominciato lo scioglimento delle nevi delle Montagne Rocciose. Così il piccolo drappello poté facilmente trovare un guado e raggiungere la riva opposta, accampandosi al margine di una foresta di pini rossi e di abeti. Trovandosi sul territorio di caccia dei Piedi Neri e delle Teste Piatte, tribù avversarie fra loro, e anche nemiche dei Grandi Ventri, fuori quindi dalle terre di Nube Rossa, decisero di fermarsi qualche giorno per accordare un po' di riposo al signor Falcone, la cui ferita, non essendo del tutto rimarginata, lo faceva ancora soffrire non poco e anche per cacciare, non volendo consumare tutte le poche provviste che avevano con loro. Bennie, che conosceva la regione, era certo di poter fare delle belle battute, e di sorprendere dei daini, dei tacchini selvatici e forse anche qualche grossa alce e qualche wapiti. Avevano appena terminato di cenare, quando il vecchio scorridore, che aveva l'udito acuto, fece cenno ad Armando di prendere il fucile e di seguirlo.

— La luna si alza splendida — gli disse, — e i tetraoni si sono già fatti sentire. Questa notte terranno qualche meeting molto rumoroso con intervento di numerosi oratori, e quindi danza guerresca.

— Sono forse degli indiani? — chiese Armando.

— Sì, con gambe ed ali, — rispose il cow-boy, ridendo.

— Sono galli del collare, Armando, — disse lo scotennato.

— Come?... Dei galli che tengono delle sedute, che hanno degli oratori e fanno danze guerresche?...

— Sì, giovanotto, e se mi seguirete vi mostrerò uno spettacolo curioso. Ehiu!... Udite? Cominciano a salutare la luna che sta alzandosi dietro la cresta di quei monti e si chiamano per la seduta.

In mezzo al fitto del bosco era echeggiato un grido acutissimo che rassomigliava al canto del gallo, ma infinitamente più potente, e altre grida simili, che partivano da diverse parti, gli avevano risposto.

— Sono vicini — disse Armando.

— Credo il contrario, — rispose Bennie. — Forse dovremo percorrere due o tre miglia prima di arrivare al loro scratking-place, ossia al loro «campo d'onore». Il loro grido è così forte che lo si sente perfino a quattro miglia di distanza.

— Andiamo, signor Bennie. Sono curioso di assistere a questo spettacolo.

— Che ci fornirà una squisita colazione, — aggiunse il cow-boy. — La carne dei tetraoni vale quella dei tacchini selvatici.

Raccomandarono a Back e allo scotennato di fare buona guardia, presero i fucili e si cacciarono nel bosco, dirigendosi là dove udivano echeggiare le grida dei volatili. Il bosco era folto, formato da grandissimi pini e da betulle i cui tronchi mostruosi crescevano gli uni vicini agli altri, e da ammassi di cespugli; però brillando in cielo una luna splendidissima, i due cacciatori potevano marciare comodamente, trovando senza fatica i più comodi passaggi. Bennie precedeva il compagno, guardando di frequente a terra per timore di mettere i piedi su qualche serpente a sonagli, rettili che abbondano anche nell'Athabasca, e il cui morso è senza rimedio, uccidendo in pochi istanti l'uomo più robusto. Procedendo con passo rapido, il cow-boy e il suo compagno giunsero, dopo una mezz'ora, sulla cima di una collinetta boscosa, dove si udivano echeggiare più frequenti e più acute le grida dei tetraoni. Pareva che lassù i graziosi e battaglieri volatili si fossero radunati in buon numero.

— Avanziamo con precauzione e senza far rumore, — disse Bennie. — Fra poco giungeremo allo scratking-place dei galli.

— Sono diffidenti?...

— Assai, Armando, e non tengono le loro sedute che in luoghi assolutamente deserti.

Si misero a salire l'ultimo dorso della collina, passando fra pini, abeti, querce nere ed aceri, guidati dalle grida dei volatili che risuonavano sempre più vicine, poi Bennie si arrestò dietro un folto cespuglio di cornioli, dicendo:

— Ci siamo.

Erano giunti presso uno spazio scoperto e perfettamente piano, una bella radura vasta, circondata da alti pini, e che la luna illuminava. Armando, che si era spinto più avanti, scorse un grosso numero di volatili bellissimi, alti quasi due piedi, col collo fornito di una specie di tasca rilasciata e rugosa, di colore arancio, che si gonfiava quando quei galli emettevano le loro note potenti. Cosa davvero singolare: quei volatili avevano quattro ali invece di due, avendone un paio supplementare alla base del collo, più piccole, però, delle altre e formate da diciotto penne, metà brune e metà nere. Quei bellissimi galli, che dovevano pesare almeno un paio di chili, stavano correndo all'intorno starnazzando le ali e arruffando le loro penne rossicce.

Pareva che prima di cominciare la seduta notturna e poi la battaglia, volessero assicurarsi della buona qualità del terreno del loro «campo d'onore».

— Sono belli? — chiese ad Armando.

— Superbi, — rispose Armando. — Ce ne sono almeno duecento.

— Si sono radunati tutti quelli del distretto.

— Hanno un distretto anche i tetraoni?

— Pare.

— Strani volatili!

— Ecco che cominciano.

— La seduta?

— Sì, e vedrete con quanta serietà gli oratori pronunceranno i loro discorsi.

— Peccato che non possiamo comprenderli.

— Assaggeremo, però, la carne degli oratori e giudicheremo la loro valentia dalla loro squisitezza.

I tetraoni, maschi e femmine, si erano disposti all'ingiro, formando un vasto circolo, e un profondo silenzio era subentrato alle strepitose grida di quei chiacchieroni incorreggibili. Il presidente esigeva senza dubbio che nessuno fiatasse, prima di aprire la seduta al chiaro di luna. Per alcuni istanti rimasero silenziosi e raccolti, poi un bellissimo maschio, alto quasi due piedi e mezzo, si fece avanti con comica gravità, ispezionando sospettosamente il terreno e guardando la luna con due occhietti neri circondati da una fascia color arancio, quindi si mise al centro del campo e cominciò a strepitare su tutti i toni gonfiando enormemente il sacco che gli pendeva sotto la gola e rompendo di frequente in veri scrosci di risa, che nulla avevano da invidiare a quelli d'un negro ubriaco. L'assemblea lo ascoltava senza interromperlo, conservando una immobilità assoluta. Era molto se qualcuno di quei gravi galli alzava la testa per fare probabilmente qualche accenno di approvazione.

— È ridicolo, — mormorò Armando, volgendosi verso Bennie. — Che cosa dirà quel chiacchierone?

— Probabilmente vanterà la robustezza del suo becco e dei suoi speroni e la bellezza delle sue penne.

— O la delicatezza delle sue carni, prevedendo la nostra vicinanza?

— Sì, burlone — rispose Bennie, ridendo.

Terminato il suo discorso, durato fortunatamente pochi minuti, un altro oratore si fece innanzi, poi un terzo, un quarto, tutti facendo sfoggio, di note, le une più acute delle altre. Quando tutti i maschi ebbero terminata la loro orazione, si divisero in due drappelli e si schierarono l'uno di fronte all'altro curvando il collo, gonfiando i loro gozzi e rizzando a ventaglio le penne delle loro code.

— Che cosa fanno ora? — chiese Armando.

— La danza di guerra — rispose Bennie.

— Assisteremo poi anche a qualche battaglia?

— Sì, giovanotto e sarà allora che noi entreremo in campo.

I galli intanto, incominciarono la loro danza: avanzavano dondolandosi comicamente, battendo forte le ali e gridando a piena gola, poi retrocedevano saltellando, tornando quindi a corrersi incontro, provocandosi. A un tratto le due falangi si scagliarono l'una contro l'altra, spiccando salti di tre piedi d'altezza, e prorompendo in veri scoppi di risa, s'azzuffarono ferocemente, colpendosi col becco e con gli speroni. Era il momento atteso da Bennie. Spezzati due rami e datone uno ad Armando, si precipitò in mezzo ai combattenti, bastonando senza misericordia a destra ed a sinistra, bravamente imitato dal compagno.

I galli erano talmente occupati nella battaglia, che subito non si accorsero della presenza di quei formidabili avversari. Quando però videro cadere parecchi compagni e sentirono grandinare le legnate, si dispersero rapidamente, fuggendo in tutte le direzioni, preceduti dagli spettatori. Sul campo d'onore erano però rimasti undici morti e sei storpiati che Bennie raccolse, aiutato da Armando, il quale s'affrettò a finire per timore che prendessero il largo.

— Che succulenta colazione ci forniranno, — disse il cow-boy. — Sono deliziosi, ve lo assicuro e anche molto ricercati; nelle città si pagano carissimi.

— Anche quelli? — chiese Armando, che aveva fatto un salto indietro, lasciando cadere bruscamente i volatili che teneva in mano.

— Chi?

— Guardate!...

— Corna di bisonte!... — esclamò Bennie retrocedendo. — Una famiglia di glèzè!... Armando, ai fucili!...

Sull'orlo della radura, fra due enormi pini, era comparso bruscamente un gruppo di orsi, composto probabilmente di un maschio, di una femmina e di due piccoli. I due primi erano di statura enorme, di poco inferiore a quella degli orsi grigi, che sono i più grandi della specie; gli altri due, invece, erano un po' più grossi di un montone. Bennie non si era ingannato: era una vera famiglia di glèzè o, come vengono anche chiamati, orsi delle pianure, oppure orsi gialli, avendo la loro pelle delle sfumature giallastre; animali pericolosi, dotati di una forza muscolare prodigiosa e ben più temibili degli orsi neri, i quali sono di umore più tranquillo, spesso addirittura scherzevoli. Bennie e Armando, attraversata rapidamente la pianura, avevano raggiunta la loro macchia, presso la quale avevano lasciati i loro fucili e si erano posti sulla difensiva, prevenendo un imminente attacco.

I quattro orsi, però, non parevano aver fretta, anzi sembravano più sorpresi di quell'incontro che irritati. Si erano arrestati sull'orlo della radura: il maschio, riconoscibile per la sua mole e dietro di lui la femmina con ai fianchi i due orsacchiotti. Per il momento si limitavano a guardare ora i due cacciatori e ora i galli del collare che giacevano in mezzo al campo d'onore.

— Pare che abbiano paura, — disse Armando a Bennie.

— Paura i glèzè?... Uhm!... Non fidatevi della loro calma, giovanotto. Non valgono i grizzly, ma non sono pacifici come vi sembrano, e vi assicuro che ben presto il maschio verrà a visitarci.

— Abbiamo i nostri fucili.

— È vero, ma quei corpacci sopportano molte palle senza cadere. È un brutto incontro, ve lo dico io.

— Che cosa decidete di fare?...

— Attendere, per ora.

— Se fuggissimo verso il campo?...

— Ci seguirebbero, e siccome galoppano bene, non tarderebbero a raggiungerci.

— Diavolo!... Venire a cacciare i galli e trovare quattro orsi!...

— Che non si faranno scrupolo alcuno di mangiarci la nostra preda. Eh!... in guardia, giovanotto!...

Il maschio, stizzito forse per l'immobilità dei due cacciatori, aveva fatto alcuni passi in avanti, mandando una specie di grugnito sordo e poco rassicurante, poi si era nuovamente fermato, guardando la femmina che lo aveva raggiunto lasciando i due piccoli al margine del bosco. Certo di essere spalleggiato, preso da un improvviso accesso di furore, attraversò al galoppo la radura, scagliandosi impetuosamente verso il cespuglio che riparava i cacciatori. In quel momento quel mostro, dotato di una forza muscolare straordinaria, faceva paura. Con la bocca sbarrata, armata di lunghi denti bianchi, il pelo irto e gli occhi ardenti avanzava pronto a mettere alla prova le sue potenti unghie. Bennie, vedendolo a dieci metri da sè, aveva puntato rapidamente il fucile, dicendo precipitosamente ad Armando:

— Non fate fuoco!...

La raccomandazione, sfortunatamente, giunse troppo tardi. Il giovanotto, vedendo slanciarsi anche la femmina, aveva alzato il fucile e le due detonazioni echeggiarono quasi contemporaneamente.

Quando il fumo si dissipò, i due cacciatori videro, con vero terrore, il maschio ritto sulle zampe posteriori e a distanza di pochi passi, mentre la femmina, dopo esser caduta su di un fianco, stava rialzandosi. Non avendo il tempo di introdurre nei fucili nuove cartucce, Bennie e Armando si precipitarono verso una grossa quercia che si trovava dietro di loro, aggrappandosi di comune accordo a un ramo basso e issandovisi sopra con agilità prodigiosa.

Disgraziatamente, nel fare quel salto, avevano dovuto lasciare andare i due fucili, i quali erano caduti alla base della pianta, l'uno sull'altro.

— Corna di bisonte!... — urlò Bennie che si era accorto, ma troppo tardi, dell'imprudenza commessa.

Vedendo l'orso scagliarsi contro la quercia, i due cacciatori, premurosi di mettere in salvo i loro polpacci, s'affrettarono a raggiungere il tronco e di là i rami superiori, mettendosi a cavalcioni di uno dei più grossi che si trovava a trenta piedi dal suolo. Il glèzè, furibondo di aver visto sparire le prede, aveva mandato un urlo feroce e non sapendo con chi prendersela, si era gettato contro il tronco, strappando, con i poderosi unghioni, larghe strisce di corteccia. La femmina intanto, lo aveva raggiunto zoppicando e rigando il suolo di sangue. Pareva che la palla di Armando le avesse fracassata una zampa, ma anche il maschio doveva essere stato ferito, poiché sotto di lui si era formata subito una pozza di sangue.

— Eccoci in un brutto impiccio — disse Bennie. — Senza fucili, e con due belve furiose e ancora in gamba.

— Che si preparino ad assediarci? — chiese Armando, che non manifestava alcuna apprensione.

— Sono certo che non ci lasceranno tanto presto. Questi animali sono testardi.

— Possono arrampicarsi?

— Non lo credo, il tronco è troppo liscio.

— Ci difenderemo se lo tenteranno.

— Non possediamo che i nostri coltelli da caccia, armi che non valgono molto contro quei bestioni.

L'orso, intanto, sempre più inferocito, forse a causa del dolore causategli dalla ferita, faceva rintronare la foresta coi suoi urli e s'accaniva contro l'albero, sforzandosi di raggiungere i primi rami che non erano molto alti, ma che non riusciva ad afferrare, mentre la femmina e i due orsacchiotti correvano all'intorno come se fossero stati colti da un improvviso accesso di pazzia. Bennie e Armando, coi coltelli da caccia in pugno, si tenevano in guardia sul robusto ramo, pronti a salire più in alto, se l'orso fosse riuscito ad arrampicarsi. Cominciavano a temere di dovere, presto o tardi, venire a contatto con l'animale, che pareva risoluto ad andarli a scovare anche lassù. Per fortuna la belva, dopo aver fatto quattro o cinque capitomboli, e strappata quasi tutta la corteccia della quercia fino all'altezza di due metri, convinta forse dell'inutilità dei suoi sforzi, si decise ad abbandonare la partita. Dopo un ultimo e più furioso assalto, parve che si tranquillizzasse, e dopo aver lanciato sui due cacciatori uno sguardo minaccioso, si decise a ritirarsi. Brontolando sempre, andò ad accovacciarsi alla base di un pino che cresceva poco lontano, mettendosi a leccare il petto, che era lordo per il sangue uscito dalla ferita. La femmina non tardò a raggiungerlo, coricandosi accanto a lui e leccandosi la zampa fracassata, mentre i due orsacchiotti, niente affatto preoccupati delle sofferenze dei genitori, si ruzzolavano in mezzo ad un cespuglio giocando e mordendosi come due giovani gatti.

— Giovanotto, — disse Bennie, — eccoci assediati.

— Lo vedo — rispose Armando.

— Passeremo una brutta notte.

— E domani?...

— Domani probabilmente ci troveremo nelle stesse condizioni.

— Credete proprio che non se ne vadano all'alba.

— Ho poca fiducia.

— Suppongo però, signor Bennie, che non rimarranno qui un'intera settimana. La fame, presto a tardi, li costringerà ad andarsene.

— Si daranno il cambio, e poi sono animali che si accontentano anche di bacche e di frutta di pino, e questo bosco abbonda delle une e degli altri.

— Brutta prospettiva per noi, che non possediamo un solo biscotto... Avessimo almeno portato con noi qualche gallo!... Saremo proprio costretti a soffrire un lungo digiuno?

— Senza dubbio, se nessuno viene in nostro soccorso.

— Back e mio zio verranno a cercarci.

— Lo spero, Armando. Non vedendoci ritornare s'immagineranno che ci sia toccata qualche disgrazia.

— Siamo lontani dall'accampamento?...

— Almeno quattro miglia.

— Una distanza breve, come vedete.

— Bisognerà però prima che affrontino gli orsi. Ah!... se potessi pescare i nostri fucili!...

— Non avete una corda?...

— Sì, la mia cinghia di pelle, Armando.

— Tagliamola e cerchiamo di prendere un fucile.

— L'idea non è cattiva: proviamo.