I naufraghi del Poplador/21. I selvaggi

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21. I selvaggi

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21.

I SELVAGGI


Cominciava ad albeggiare quando Michele, che aveva dormito profondamente tutta la notte, aprì pel primo gli occhi. La prima cosa che fece fu di gettare uno sguardo all'ingiro.

Immaginatevi quale fu il suo stupore nel vedersi intorno quindici o sedici individui quasi nudi, di colore molto oscuro, che lo guardavano con viva curiosità, facendo degli strani gesti e mandando fragorosi scoppi di risa! Credette di sognare e si stropicciò energicamente gli occhi, ma ben presto si convinse che era proprio desto e che quegli individui erano proprio di carne e di ossa.

Li guardò con maggior attenzione, senza provare del resto alcuna paura. Come si disse, erano una quindicina; la loro statura era elevata, le loro membra ben complesse, la loro pelle bruna e lucente. Avevano gli occhi neri e pieni di espressione, la fronte fuggente, i capelli lisci e piuttosto lunghi, rovesciati indietro mediante una striscia di stoffa, e in modo da formare in taluni un ciuffo e in altri due bizzarre corna.

Quasi tutti poi erano nudi e tatuati. Tre o quattro invece portavano ai fianchi un lembo di stoffa grossa, ruvida, fibrosa ed agli orecchi e ai polsi delle scagliette di guscio di tartaruga e dei ciuffi di pelo.

— Cosa vogliono questi selvaggi? — si chiese Michele, raccogliendo il suo fucile. — Non mi aspettava una simile sorpresa.

Si alzò lestamente e scosse don Pablo e Josè, che dormivano ancora.

— In piedi! — gridò.

Il capitano e il vecchio mastro aprirono subito gli occhi.

— I selvaggi! — esclamo Josè.

— Da dove sono sbucati? — chiese don Pablo, balzando prontamente in piedi.

— Non ne so più di voi — disse Michele. — Quando mi sono svegliato ci stavano d'intorno.

— Facciamo fuoco, capitano — disse Josè. — Forse sono degli antropofaghi.

— Non vedo che due o tre lance, Josè, e mi sembrano tutti tranquillissimi.

— Anzi molto allegri — aggiunse Michele.

Infatti quei selvaggi non mostravano, almeno in quell'istante, intenzioni ostili. Guardavano con crescente curiosità i tre marinai, se li additavano, mandavano grida che sembravano di gioia e ridevano allegramente.

— Vorrei sapere cosa è che li fa tanto ridere — disse Michele. — Divertitevi, amici cari.

— Stiamo in guardia, tenente — disse Josè. — Io non mi fido di quei messeri. Hanno certe bocche e certi denti!

Ad un tratto un selvaggio che portava fra i capelli una piuma bianca, si avvicinò a don Guzman e gli disse parecchie volte:

— Ehoa!... Ehoa!... Ehoa!...

Il capitano fece un gesto di sorpresa.

— Ma io conosco questa lingua! — esclamò. — Questi selvaggi parlano il nukahivano.

— Oh diavolo! — esclamò Michele. — Che appartenga all'arcipelago delle Marchesi quest'isola?

— È probabile, tenente.

— Allora non abbiamo da temer nulla da questi selvaggi, che forse commerciano da parecchio tempo coi francesi.

— Infatti le Marchesi sono state occupate dall'ammiraglio francese Dupetit Thouars nel giugno del 1842, se ben mi ricordo, e vi ha lasciato delle truppe. Tuttavia Michele, non fidiamoci troppo. Forse quest'isola non fa parte dell'arcipelago, quantunque gli abitanti parlino il nukahivano.

— Cosa vi ha detto quel selvaggio lì?

— Mi ha chiamato amico.

— Chiamatelo anche voi amico.

Don Pablo si volse verso il selvaggio che pareva attendesse una risposta e gli disse col miglior garbo possibile:

— Eoha ehoa!

Il selvaggio mandò subito un grido gutturale e avvicinato il suo naso a quello del capitano si mise a strofinarlo vigorosamente. Altri due selvaggi si accostarono a Michele ed a Josè per fare lo stesso.

— Non respingeteli — disse il capitano, vedendo i suoi compagni alzare le mani. — È il loro modo di salutare.

Il tenente e il mastro, quantunque di malavoglia, si lasciarono salutare, anzi risposero al saluto.

Ciò fatto, il selvaggio, che pareva il capo della banda, pronunciò un lungo discorso accompagnato da una infinità di gesti e di smorfie, poi si fermò come attendesse una risposta.

— Cosa ha detto? — chiese Michele, che non aveva capito una sillaba. — Buon giorno, amico.

— Se ho ben compreso, ci invita a seguirlo nel suo villaggio — disse don Pablo.

— Cosa facciamo?

— Andiamoci, Michele.

— Una parola, prima, capitano. Gli abitanti delle Marchesi sono antropofaghi?

— Prima dell'occupazione francese mettevano allo spiedo i prigionieri di guerra. Forse in qualche isola si mangia ancora carne umana, ma questi selvaggi non mi sembrano antropofaghi.

— Andiamo pure al villaggio, ma stiamo in guardia e alla prima minaccia facciamo fuoco.

Don Pablo, aiutandosi coi gesti, fece capire al selvaggio che accettavano l'invito. Gli isolani parvero assai soddisfatti, e dopo aver fatto mille smorfie e mille salti, si misero in cammino cacciandosi sotto i boschi.

Don Pablo, Michele e Josè li seguirono a breve distanza, ma colle armi sotto il braccio e gli occhi ben aperti.

Dieci minuti dopo la piccola banda giungeva in un'ampia radura in mezzo alla quale sorgevano centocinquanta o duecento capanne disposte in semicerchio, per la maggior parte piccole, formate di piccoli tronchi d'albero e coperte di foglie di cocco e di artocarpo. Nel mezzo si rizzava una capanna assai più grande e più alta, difesa da una bassa palizzata e ombreggiata da sette od otto banani dalle foglie gigantesche.

In un baleno la popolazione del villaggio uscì tutta, correndo incontro alla banda che faceva la sua entrata con alte grida. Erano cinque o seicento selvaggi fra uomini, donne e ragazzi. Molti erano affatto nudi, altri tatuati, altri ancora avevano i fianchi stretti da un pezzo di topo, (stoffa fabbricata colla scorza del moro papirifero), o portavano degli ornamenti consistenti in collane di denti di porco, in penne, in peli e in scagliette di gusci di tartaruga. Alcuni di quei selvaggi erano armati di lance colle punte di osso e di certe mazze di legno assai pesanti, un sol colpo delle quali sarebbe stato più che sufficiente per abbattere un uomo per quanto fosse robusto.

La folla si precipitò in massa addosso a don Pablo, a Michele ed a Josè, gettando urla indescrivibili, urtandosi, atterrandosi per meglio vedere. Tutti volevano toccare quegli uomini che avevano la pelle bianca e le membra coperte.

— Largo! Largo! — gridava Michele, che non si fidava troppo di quelle dimostrazioni.

— Via di qua — urlava il mastro, tirando pugni a destra e a sinistra.

Anche il capitano cercava di respingere i curiosi, ma era fatica sprecata. La folla si pigiava sempre più e finì coll'accerchiare così strettamente i tre marinai, da impedire a loro qualsiasi movimento. Fortunatamente un selvaggio, che doveva essere un capo a giudicarlo dagli ornamenti e dal diadema di piume che portava sulla testa, accorse dalla gran capanna armato d'un solido bastone e cominciò a dispensare botte da orbo urlando con quanto fiato aveva in corpo.

Michele e Josè, vedendo che i selvaggi si pigliavano in santa pace quella grandine di legnate, si misero a scappellottare i più vicini e lavorarono sì bene che la folla in pochi istanti li lasciò liberi.

Allora il selvaggio, che aveva dato quel bell'esempio, si presentò ai tre naufraghi e fece a loro un breve discorso, additando parecchie volte la grande capanna.

— Ci invita a seguirlo là dentro — disse don Pablo ai compagni.

— A che fare? — chiese Michele.

— Senza dubbio ci vuol presentare al mutoi (capo).

— Andiamoci — disse Josè. — Forse troveremo una buona colazione.

Don Pablo e i suoi compagni seguirono il selvaggio che li condusse infatti nella gran capanna.

Era questa una grande baracca di tronchi d'albero e di foglie di banani, col tetto adorno di penne di uccelli e di frutta d'artocarpo infilate in aguzzi bastoni. Una stretta apertura, sostenuta da due grosse travi bizzarramente scolpite, metteva nell'interno.

I tre marinai, dopo qualche esitazione, entrarono. Si trovarono in uno stanzone quasi oscuro e miseramente arredato. C'erano delle stuoie di fibre di cocco, dei gusci di tartaruga pieni di acqua, dei pacchi di topo, sospesi, forse contenenti le acconciature di cerimonia, poi degli ampi panieri con diademi di penne, un fascio di lance, alcune mazze e delle noci di aleurites trilobata infilate in una nervatura di cocco e che il capitano disse destinate a servire di candele. In fondo, disteso su una grossa stuoia e circondato da sei guerrieri e da sei donne, stava un selvaggio di alta statura, vecchio, coperto di numerose cicatrici e di orribili pustole.

Aveva sul capo una specie di diadema di fibre di cocco e di penne, al collo ed alle braccia collane e braccialetti di conchiglie bianche, di scagliette di guscio di tartaruga, di pallottoline di vetro appartenenti forse a Mendana o a Cook, e di denti di gulù; alle orecchie dei pendenti di legno colorato e ai fianchi un pareu1 di tapa ricamato di conchiglie. Fitte linee di variopinti tatuaggi gli ornavano il petto, la fronte e le mani.

Don Pablo capì subito che si trovava dinanzi al mutoi dell'isola, e si levò il berretto. Il capo rispose con un leggero inchino della testa e con un gesto della mano.

Poi guardò attentamente e colla più viva curiosità i tre marinai. Pareva che non avesse, prima di allora, visto uomini dalla pelle bianca. Anche i suoi guerrieri o ministri che fossero e le sue donne, dimostravano la più grande sorpresa.

— Mi pare che questo capo sia molto malandato — disse Michele.

— Infatti ha delle pustole orribili — disse Josè. — Che ci abbia fatti venire qui per guarirlo, capitano?

— Lo temo, mastro — rispose don Guzman.

Il mutoi, che fino allora era rimasto silenzioso, diede ai bianchi il buon giorno, poi fece un lungo discorso con voce fioca assai e interrompendosi di quando in quando per riprendere lena. Don Pablo comprese che quel selvaggio voleva essere guarito del suo male che lo faceva assai soffrire e che a poco a poco gli toglieva le forze.

— Siamo in un bell'impiccio — disse a Michele ed a Josè. — Io non so che male sia quello lì.

— Fabbrichiamo qualche medicina — disse il tenente.

— Meglio è fingere di non aver compreso. Se ci muore fra le braccia, per noi è finita.

— Lo credete così seriamente ammalato?

— Hum! Non dò a quel povero diavolo una settimana di vita.

In quell'istante il mutoi tornò a parlare, ma facendo sforzi indicibili. Chiedeva ancora, e questa volta con tono minaccioso, d'essere guarito.

— Accontentiamolo — disse Michele, dopo aver udita la traduzione fatta dal capitano. — Diamogli da bere qualche cosa.

— Dell'acqua forse?

— No, capitano. A me sembra che quest'uomo sia infiacchito dalle orge. Diamogli delle uova mescolate a qualche bevanda spiritosa. Alla prima occasione, però ce la batteremo.

— Ma qui non ci sono galline, Michele.

— Ci sono degli uccelli.

— L'idea mi sembra buona.

Don Pablo, aiutandosi coi gesti, promise al monarca di guarirlo, chiedendo però che gli fornissero delle uova di uccelli e delle bevande spiritose.

Il mutoi, che cominciava già a irritarsi, parve contentissimo della promessa, anzi atteggiò le sue labbra ad un sorriso e fece subito offrire al capitano ed ai suoi compagni un guscio di noce di cocco pieno di namu, bevanda molto spiritosa che pareva preparata con bacche di pepe.

Quando l'ebbero sorseggiata, dieci guerrieri, armati di lance e di mazze, entrarono e li condussero in una capanna che elevavasi all'estremità del villaggio.


Note

  1. Gonnellino.