I pescatori di balene/XV. L'inverno polare

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XV. L'inverno polare

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XV


L'INVERNO POLARE


Molti e molti giorni sono trascorsi dopo quella notte in cui le prime pressioni dei ghiacci si sono fatte sentire.

L'inverno polare è piombato con tutti i suoi orrori sulla nave danese che non aveva più potuto districarsi dalla cerchia dei ghiacci. Il sole dopo essersi mostrato per qualche giorno ancora sul fosco orizzonte, sempre più smorto e sempre più freddo, ha definitivamente abbandonato quei paraggi e sugli immensi campi di ghiaccio, riuniti dalle correnti prima e dal freddo poi, si è stesa un'oscurità quasi perfetta che ben di rado la luna riesce a rompere.

Nebbioni pesanti, che i venti più furiosi non riescono a disperdere, si succedono gli uni agli altri accompagnati da spaventevoli tempeste, i cui ruggiti formidabili gelano l'anima dei più intrepidi marinai e orribili nevicate.

I banchi di ghiaccio, pochi giorni innanzi popolati di foche, di trichechi, di volpi e di qualche orso bianco, sono diventati deserti e così pure hanno disertato in massa gli uccelli che si sono affrettati a raggiungere climi meno rigidi. È già molto se qualche procellaria o qualche ardito gabbiano solca il nebbione e viene a volteggiare attorno alla nave.

L'equipaggio, vinto dal freddo che talvolta scende fino ai 40° sotto lo zero, da molto tempo non osa più affrontare l'aria esterna e vive costantemente sotto la tolda ove circola ancora un po' di calore, in preda ad una viva inquietudine che prende proporzioni angosciose ad ogni tremito della nave, ad ogni crollo di un «iceberg», ad ogni fischio più acuto del vento polare.

Non è più il baldo equipaggio di prima. I marinai più audaci hanno perduto il loro coraggio; i più forti la loro vigoria; i più allegri il loro buon umore. Lo stesso sig. Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto.

I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell'equipaggio, non riescono più.

Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili.

Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuoli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere.

L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri!

Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio.

Una luce biancastra prodotta dall'«ice-blink» e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40° sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14°.

L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena.

Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce.

— Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano?

— Sì, sì! — risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. — Solennizzeremo il Natale con un banchetto.

— E pianteremo anche l'albero.

— Con dei regali per tutti.

— Sì, con dei regali.

In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il «Danebrog».

Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri.

La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi «iceberg» di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma.

Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie.

— Siamo proprio accerchiati, e come! — esclamò il tenente. — Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via.

— Fortunatamente la nave resiste sempre! — disse il capitano.

— Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò.

— Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi.

— E i nostri magazzini avranno sofferto? — interrogò Koninson, guardando a babordo.

— Non mi sembra — disse il capitano. — La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo.

— Sì, domani! — affermò il tenente. — Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale.

— E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup.

— Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti.

— Mi metterò io alla loro testa! — disse il fiociniere. — Ehi, mastro Widdeak, al lavoro!

I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina.

Alle 4 pomeridiane il ponte del «Danebrog» offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine.

Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione.

Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie.

— A tavola! — s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente.

Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi.

— Evviva al sig. Hostrup! — urlò l'equipaggio.

— Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, — disse il tenente — e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco.

I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe.

Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò.

— Capitano, un brindisi — gridò.

— A chi? — domandarono i marinai.

— Al nostro valoroso «Danebrog»! Amici, capitano, evviva al «Danebrog»!

Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono.

Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito.

— Cosa succede? — chiese il tenente che nulla aveva avvertito.

— La nave si è mossa! — disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni.

— Ed io ho udito un sordo boato — aggiunse Koninson.

— Forse le pressioni? — chiesero i marinai.

Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio.

— Sono le pressioni! — esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. — E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci!

— Zitti tutti! — comandò il capitano. — Udite! Udite!

Ognuno prestò orecchio.

In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee.

D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia.

— Fuori, fuori tutti! — disse il capitano.

I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio.

Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave.

Gli «iceberg», le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni.

Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli «iceberg» che venivano dietro di loro.

— Corriamo qualche pericolo? — chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata.

— Chi può dirlo? — rispose Weimar. — Temo però che passeremo una brutta notte.

— Cosa dobbiamo fare? — chiese Koninson.

— Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta.

— Perchè mai? — chiesero alcuni.

— Perchè potrebbe darsi che la nave….

Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni «icebergs».

L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore.

— Presto, presto, — gridò il capitano — portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe.

I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta.

Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, «icebergs», «hummocks», piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi.

Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano.

La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci.

L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno.

Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di «icebergs» e di «hummocks» e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini.

Il «Danebrog», che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare:

— Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il «Danebrog»!

Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe.

Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando:

— Indietro, fermi tutti! Il banco si apre!

Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare.

— Indietro — ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. — Volete farvi stritolare dai ghiacci?

— Ma la nave affonda! — disse un gabbiere.

— Non ancora! — gridò il tenente. — Tutti a poppa!

Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa.

— Signor Hostrup, — gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci — scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani.

Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte.

— Ebbene? — chiesero i marinai correndo verso di lui. — È finita per il «Danebrog»?

— Non ancora! — rispose egli.

— Non affondiamo?

— No, almeno per ora.

— Cos'è che ha ceduto? — chiese il capitano.

— I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva.

Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava.

— Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani?

— Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave.

— L'acqua entra?

— L'ho udita precipitare nella sentina.

— Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini?

— Lo tenterò, capitano, se è necessario.

— È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro.

— Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura.

— Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! — rispose il coraggioso fiociniere. — Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura.

— La attraverseremo, Koninson.

— Affrettatevi dunque, signor Hostrup! — disse il capitano. — Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale.

— Vieni, Koninson — disse il tenente.

Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con pochi ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio.

— Ci servirà per passare il crepaccio! — disse al capitano che lo guardava senza comprendere. — Arrivederci ai magazzini, signor Weimar.

— Dio vi guardi, signor Hostrup! — rispose il capitano con voce commossa.

Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra.

— Non so, — disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento — io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia?

— Non lo credo — rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. — Addio, capitano, addio!

Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso.

— Si direbbe che una disgrazia mi minaccia — mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori.

Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato.

— Affrettiamoci tenente! — disse il fiociniere. — Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave.

Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri.

Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso.

Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero.

Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita.

— Mi sembra che non abbiano sofferto — disse il tenente dopo una rapida occhiata.

— È vero — confermò il fiociniere.

— Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi.

Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono.

— Le scialuppe? — chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto.

— Eccole lì! — rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino.

— Saremo capaci di spingerle fuori?

— Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli.

In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal «Danebrog», giunsero pure ai loro orecchi.

— Presto, presto, Koninson! — gridò il tenente. — Forse la nave sta per affondare.

— Eccomi, signore! — rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri.

Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino.

Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria.

Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva.

Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave.

— Koninson! — esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione.

— Tenente! — rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere.

— Aiuto! Si salvi chi può! — s'udì urlare al di fuori.

Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti.

Il «Danebrog», schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio.

I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio.

— Capitano! Capitano! — gridò il tenente.

— Accorriamo! Accorriamo! — esclamò Koninson. Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare.

Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il «Danebrog» e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi!

Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!