I pescatori di balene/XXI. Trascinati dai ghiacci

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XXI. Trascinati dai ghiacci

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XX. Attraverso le montagne XXII. Il Porcupine

XXI


TRASCINATI DAI GHIACCI


Tutta la notte i ghiacciai della montagna furono in continuo movimento empiendo l'aria di interminabili fragori e scagliando nella sottoposta valle immense quantità di massi di cui taluni del peso di migliaia di tonnellate.

Il tenente e Koninson, quantunque al sicuro, più volte lasciarono la tenda e si spinsero verso la valle che ormai era interamente coperta, presentando un indescrivibile caos di valanghe, di «icebergs» rovesciati e di massi che, di quando in quando, urtati, spinti da altri ghiacci e da altri ammassi di neve, si agitavano e rimbalzavano come se fossero esseri viventi.

Alle 6 del mattino, dopo una magra colazione, i due balenieri che vedevano i loro viveri scemare rapidamente e sapevano di aver dinanzi una grande estensione di terra, prima di giungere ai luoghi abitati, piegata la tenda e attaccatisi alla slitta, si rimettevano in cammino onde intraprendere la traversata della catena dei monti.

Il caso li aveva guidati in un buon passaggio, formato da una specie di strettissima valle che s'arrampicava fra due colline e che pareva si prolungasse fino alla cima.

Per di più quel passaggio pareva che non offrisse ostacoli, poichè si vedeva salire senza roccie e senza accumulamento di nevi, le quali cose avrebbero reso difficilissima la via alla slitta che, quantunque di molto alleggerita, pesava ancora un centinaio e più di chilogrammi.

Aiutandosi coi bastoni forniti dai pennoni della vela, i balenieri, riunendo tutte le loro forze, si cacciarono nella stretta valle che poteva anche chiamarsi una semplice spaccatura e cominciarono a salire tenendo però sempre gli occhi volti verso le cime delle due vicine colline dalle quali poteva, da un istante all'altro, cadere qualche valanga e seppellirli.

La slitta, quantunque avesse sotto di sè un buon strato di solido ghiaccio che la faceva scivolare abbastanza bene, diventava pesante a causa del pendio che cresceva sempre più, ma i due marinai, che avevano fretta di uscire da quel pericoloso passo, non si arrestarono e incoraggiandosi vicendevolmente colla voce e coll'esempio, continuavano a salire, aggrappandosi alle pareti rocciose quando si sentivano trascinare indietro e piantando profondamente i bastoni nella neve.

Dopo aver fiancheggiato dei profondi abissi da cui saliva una densa nebbia sotto la quale si udivano ululare i lupi, dopo aver arrischiato venti volte di fiaccarsi il collo, dopo aver sollevato, con uno sforzo sovrumano, più di una volta la loro slitta per superare certe creste ove nessuna mano di uomo aveva aperto un passaggio, verso le dieci del mattino giunsero dinanzi ad una specie di caverna che occuparono per prendere un pò di riposo.

Mentre Koninson, che non poteva star fermo, s'ingegnava ad accomodare la slitta che in quei trabalzi aveva sofferto non poco, il tenente fece un'ampia provvista di lichene di roccia con cui contava di regalarsi una eccellente zuppa.

Fu in quella raccolta che egli scoprì una strana pianticella che prima d'allora non aveva mai vista e della quale non aveva mai udito parlare.

— Vieni, Koninson, — disse. — Ho messo la mano su una rarità che i botanici ancora ignorano.

— Roba da mangiare? — chiese il fiociniere, che pensava al pranzo.

— No, ma sono contento di averla scoperta.

Il fiociniere raggiunse il tenente che gli mostrò un bizzarro fiore, piantato in mezzo alla neve e cresciuto fra i gelati soffi del vento settentrionale, formato di tre sole foglie del diametro di circa tre pollici coperte di microscopici cristalli di neve e d'una stella, i cui petali, lunghi quanto le foglie e larghi un mezzo pollice, mostravano dei piccoli punti lucenti come diamanti e della grossezza di capi di spilli.

— È meraviglioso! — disse il fiociniere. — Un fiore che nasce in mezzo ai ghiacci!

— Ne hai visto di simili?

— Mai, signor Hostrup, eppure ho viaggiato assai nelle regioni polari. Tò! E cos'è quella roba rossa che vedo laggiù, presso quel masso di ghiaccio?

— Un'altra pianta meravigliosa forse?

— Non credo, signor Hostrup. Io la direi...

— Neve rossa, vuoi dire.

— Precisamente.

— E lo è infatti.

— Come? Forse che c'è anche della neve rossa?

— Altri viaggiatori artici l'hanno veduta più a nord.

Si diressero verso quello strato rosso che non occupava però più di tre o quattro metri quadrati e si convinsero che era proprio neve colorata di rosso.

— Ma come diventa di questo colore? — chiese Koninson, meravigliato. — Forse per la presenza di vegetali coloranti microscopici?

— Lo si è creduto, Koninson: ma il viaggiatore Scoresby, che l'ha studiata, non è di questo parere. Secondo lui, il principio colorante deriverebbe da migliaia di piccoli infusorii che si muoverebbero con rapidità vertiginosa.

— Che abbia differente sapore della bianca?

— Non credo; del resto puoi...

— Zitto, signor tenente!

— Cosa c'è ancora?

— Udite!

Il tenente tese gli orecchi e fra i cupi rimbombi dei ghiacci scivolanti dalla montagna, udì delle urla acute che rapidamente si avanzavano.

— Bah! Sono lupi! — disse.

— Ma mi sembrano molti.

— Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio.

— Non ci assaliranno?

— Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa.

Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l'attacco delle voraci bestie.

Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all'intorno un profumo appetitoso.

Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla.

— Il colore non è rassicurante! — disse Koninson. — Ma il profumo è promettente.

E l'assaggiò una, due, tre volte.

— Eccellente! — esclamò. — Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa?

— Trippa di roccia.

— Evviva la trippa, adunque!

La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato.

— Troppo ardito, mio caro! — disse il tenente afferrando il fucile.

All'ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori.

— Diavolo! — esclamò Koninson, prendendo l'altro fucile. — Abbiamo una banda dinanzi alla grotta.

— Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe.

— È ciò che vedremo.

Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè.

Alla detonazione e all'urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s'affacciarono all'entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti.

Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente.

— Ah! — esclamò il fiociniere. — Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita.

— È vero! — disse il tenente. — Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie...

Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s'affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza.

— Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup.

— Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle.

— In marcia, adunque.

Caricarono i fucili, s'attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati.

Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare.

Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini.

I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe.

Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d'occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato.

A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli «icebergs» del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente.

Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s'alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s'udivano muggire degli impetuosi torrenti.

— Dove siamo noi? — chiese Koninson.

— Sul fianco di una montagna — disse il tenente.

— Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate.

— Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d'incontrare qualche tribù d'indiani.

— È molto lontano questo fiume?

— So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so.

— A qualche migliaio di chilometri no di certo.

— No, ma a più di duecento sì.

— Allora lo raggiungeremo.

— Ne sono certo. Dove sono andati i lupi?

— Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti.

— Meglio così. Dormiremo più tranquilli.

— Contate di rizzare la tenda qui?

— E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo.

— Sarà solido il ghiaccio?

— Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo.

— Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati.

Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di «hummok» che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto.

La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo.

Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s'addormentarono profondamente.

Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda.

Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio.

— Guarda! — esclamò. — Si direbbe che la montagna brucia.

Alzò un lembo della tenda e strisciò all'aperto.

Una superba aurora boreale, forse l'ultima della stagione invernale splendeva sull'orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura.

Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino.

Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine.

— Siamo perduti! — esclamò involontariamente. — Koninson! Koninson! All'erta!

Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato.

— Cosa succede? — chiese.

La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci.

Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa.

— Fuggiamo, signore! — esclamò.

— Dove?

— Alla grotta.

— È impossibile, la via è interrotta.

— Allora siamo perduti.

— Chissà! Speriamo in Dio.

— Signor tenente...

Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l'aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda.

Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d'una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa.

Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni.

I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal'altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli.

Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta.

Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s'alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile.

Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti.

I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.