I pirati della Malesia/Capitolo XIV - Narcotici e veleni
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Capitolo XIV
Narcotici e veleni
Due uomini si erano improvvisamente rizzati dietro a un cetting, arbusto rampicante, il cui succo è talmente velenoso che uccide in pochi istanti un bue. Uno era un indiano, alto, magro, nervoso, vestito di tela bianca e armato d’una lunga carabina incrostata d’argento; l’altro era un Dayaco di belle forme, colle membra straordinariamente cariche di anelli di ottone e di perle di Venezia e i denti anneriti col succo caldo del legno siuka. Un solo pezzo di stoffa di cotone copriva i suoi fianchi e un fazzoletto rosso la sua testa, ma portava indosso un vero arsenale. Una terribile cerbottana colle frecce tinte nel succo dell’upos pendevagli da una spalla; il formidabile parang, pesante sciabola dalla larga lama intarsiata a pezzi d’ottone, che serve ai Dayachi per decapitare i nemici, penzolavagli al fianco; il laccio che sanno adoperare forse meglio dei Thugs indiani, stringevagli la vita. Non mancava nemmeno del kriss, dalla lama serpeggiante e avvelenata.
— Alto là ! — ripetè l’indiano, facendosi innanzi.
Il portoghese fece a Kammamuri un rapido gesto e si avanzò colle dita della mano destra sulla batteria del fucile.
— Che vuoi e chi sei tu? — chiese all’indiano.
— Sono una guardia del rajah di Sarawack, — rispose l’interrogato. — E voi?
— Lord Gills Welker, amico di James Brooke, tuo rajah.
L’indiano e il Dayaco presentarono le armi.
— Quell’uomo è al vostro servizio, milord? — chiese l’indiano indicando Kammamuri.
— No, — rispose Yanez. — L’ho incontrato nella foresta e avendo egli paura delle tigri ha chiesto di seguirmi.
— Dove vai? — domandò al maharatto.
— Ti ho detto anche stamane che sono provveditore dei placers di Poma, — rispose Kammamuri. — Perché domandarmi anche adesso dove vado?
— Perché il rajah così vuole.
— Di’ al tuo rajah che io sono un fedele suddito.
— Passa.
Kammamuri raggiunse Yanez che aveva continuato la sua via, mentre le due spie tornavano ad imboscarsi sotto l’arbusto velenoso.
— Cosa pensate, signor Yanez, di quegli uomini? — chiese il maharatto, quando fu certo che non potevano né udirlo né vederlo.
— Penso che il rajah è astuto come una volpe.
— Deviamo?
— Deviamo, Kammamuri. Quelle due spie possono avere qualche sospetto e seguirci per un buon tratto.
— Faremo perdere le nostre tracce.
Kammamuri abbandonò il sentieruzzo fino allora seguito e piegò a sinistra, seguito dal cavallo e dal portoghese. La via divenne ben presto difficilissima. Migliaia e migliaia d’alberi, dritti gli uni, piegati e contorti gli altri, e cespugli e rampicanti, si stringevano in modo da impedire spesso il passaggio, se non agli uomini, almeno al cavallo.
Qui vi erano colossali alberi della canfora, che dieci uomini non sarebbero stati capaci di abbracciare; là delle arenghe saccarifere che, ferite, danno un liquore zuccherino e inebriante se lasciato fermentare; più oltre superbe palme pinang che piegavansi sotto il peso delle noci formanti grandi grappoli; poi bellissimi mangostani, alti quanto un ciliegio, le cui frutta, grosse come aranci, son le più gustose e le più delicate che si trovino sulla terra, e areche dalle foglie grandissime, uncaria cambir e isonandra guta e giuta wan, piante, queste tre ultime, che danno il caucciù. E come se tutte queste non bastassero a rendere difficile il cammino, smisurati rotang, che nel Borneo tengono il luogo delle liane, e nepentes, correvano da un albero all’altro formando delle vere reti, che il maharatto e il portoghese erano costretti a tagliare a colpi di kriss.
Percorso mezzo miglio, descrivendo lunghi giri per trovare passaggi, saltando alberi atterrati, sfondando cespugli, tagliando radici e gomene vegetali a destra e a manca, i due pirati giunsero sulle rive di un canale d’acqua nera e putrida. Kammamuri tagliò un ramo e misurò la profondità.
— Due piedi, — disse. — Salite sul cavallo, padron Yanez.
— Perché?
— Entreremo nel canale e lo saliremo per un buon tratto. Se le due spie ci seguono, non troveranno più le nostre tracce.
— Sei furbo, Kammamuri.
Il portoghese salì in sella e dietro di lui salì il maharatto. Il cavallo, dopo aver un po’ esitato, entrò in quelle putride acque che spandevano un fetore insopportabile e rimontò, traballando e scivolando sul fondo pantanoso, la corrente.
Fatti ottocento passi, riguadagnò la riva. Yanez e il maharatto discesero e stettero in ascolto coll’orecchio appoggiato a terra.
— Non odo nulla, — disse Kammamuri.
— E nemmeno io, — aggiunse il portoghese. — È lontano il campo?
— Un miglio e mezzo almeno. Affrettiamoci, padrone.
Un sentieruzzo, aperto fra i cespugli e i rotang dagli animali, spariva nel folto della foresta. I due pirati lo raggiunsero allungando il passo. Una mezz’ora dopo, altri due uomini s’alzavano dietro una macchia, intimando ai due pirati di arrestarsi. Kammamuri gettò un fischio.
— Avanti, — risposero le due sentinelle.
Erano due pirati di Mompracem, armati fino ai denti. Vedendo Yanez mandarono grida di gioia.
— Capitano Yanez! — gridarono, correndogli incontro.
— Buon giorno, ragazzi, — disse il portoghese.
— Vi credevamo morto, capitano.
— Le tigli di Mompracem hanno la pelle dura; dov’è Sandokan?
— A trecento passi di qui.
— Fate buona guardia, amici. Vi sono delle spie del rajah nel bosco.
— Lo sappiamo.
— Bravi, tigrotti.
Il portoghese e il maharatto raddoppiarono il passo e ben presto giunsero all’accampamento piantato presso ad un kanpong in rovina. Del villaggio, che un tempo doveva essere stato abbastanza grosso, non rimaneva intatta che una sola capanna di foglie di nipa, posta sopra pali alti più di trenta piedi, fuori di portata dagli assalti delle tigli e anche dagli assalti degli uomini.
I pirati però stavano ricostruendo altre capanne e piantando solide palizzate onde mettersi al coperto e, in caso d’improvviso attacco da parte delle truppe del rajah di Sarawack, poter resistere.
— Dov’è Sandokan? — chiese Yanez, entrando nell’accampamento, accolto da grida di gioia da tutta la banda.
— Lassù, nella capanna aerea, — risposero i pirati. — Avete incontrato dei soldati del rajah, capitano Yanez?
— Ciò che ho detto alle sentinelle lo dirò anche a voi, tigrotti, — disse il portoghese. — State in guardia, che vi sono delle spie del ‘‘rajah’’ nel bosco.
— Che si mostrino! — gridò un malese, impugnando un pesantissimo parang ilang colla punta fatta a doccia. — I tigrotti di Mompracem non temono i cani del rajah.
— Capitano Yanez, — disse un altro, — se incontrate qualcuna di quelle spie, ditele che siamo accampati qui. Sono cinque giorni che non combattiamo e le nostre armi cominciano ad arrugginirsi.
— Fra poco, ragazzi avrete da lavorare, — rispose Yanez.
— Viva il capitano Yanez! — urlarono i tigrotti.
— Ehi! fratello mio! — gridò una voce che veniva dall’alto.
Il portoghese alzò gli occhi e vide Sandokan ritto sulla piccola piattaforma della capanna aerea.
— Che cosa fai lassù? — gridò il portoghese, ridendo. — Mi sembri un piccione appollaiato su di un albero.
— Sali, Yanez.
Il portoghese si slanciò verso una lunga pertica che presentava delle tacche, e con sorprendente agilità giunse sulla piattaforma o meglio terrazzata della capanna, ma qui si trovò in un brutto imbarazzo. Il suolo era formato da bambù, ma distanti l’un dall’altro un buon palmo, sicché i piedi del povero Yanez non riuscivano a trovare uno stabile appoggio.
— Ma questa è una trappola! — esclamò.
— Costruzione dayaca, fratello mio, — disse Sandokan ridendo.
— Ma che piedi hanno quei selvaggi?
— Forse più piccoli dei nostri. Un po’ di equilibrio, diamine!
Il portoghese, traballando e saltando di trave in trave, giunse nella capanna.
Era discretamente vasta, divisa in tre camerette di cinque piedi di altezza e altrettanti di larghezza, col pavimento pure formato da bambù lontani l’un dall’altro parecchi centimetri, ma coperto da stuoie.
— Che cosa mi rechi? — chiese Sandokan.
— Molte novità, fratello mio, — rispose Yanez sedendosi. — Ma dimmi, innanzi tutto, dov’è la povera Ada, che non ho veduta nel campo?
— Questo luogo non è molto sicuro, Yanez. Le guardie del rajah possono assalirci da un istante all’altro.
— Comprendo, fratello mio; tu l’hai nascosta in qualche luogo.
— Sì, Yanez. L’ho fatta condurre verso la costa.
— Chi ha con sé?
— Due uomini che mi sono fedelissimi.
— È ancora pazza?
— Sì, Yanez.
— Povera Ada!
— Guarirà, te lo assicuro.
— In qual modo?
— Quando si troverà dinanzi a Tremal-Naik, proverà una scossa così forte che riacquisterà la ragione.
— Lo credi?
— Lo credo, anzi ne sono certo.
— Possano le tue speranze avverarsi.
— Dimmi ora, Yanez, che cos’hai fatto a Sarawack in questi giorni?
— Molte cose. Sono diventato amico del rajah.
— In qual modo?
Il portoghese in poche parole lo informò di quello che aveva fatto, di quello che gli era accaduto e di ciò che aveva udito. Sandokan lo ascoltò attentamente senza interromperlo, ora sorridendo, e ora pensieroso.
— Dunque tu sei amico del rajah, — disse, quando Yanez ebbe terminato.
— Amico intimo, fratello mio.
— Non ha alcun sospetto?
— Non credo, ma ti dissi che sa che tu sei qui.
— Bisogna affrettarsi a liberare Tremal-Naik. Ah! se potessi nel medesimo tempo schiacciare per sempre quel dannato Brooke!
— Lascia stare il rajah, Sandokan.
— Egli fu troppo feroce, Yanez, verso i nostri fratelli. Darei mezzo del mio sangue per vendicare le migliaia di malesi uccisi da quel terribile e spietato uomo1.
— Bada, Sandokan, non abbiamo che sessanta uomini.
Un lampo sinistro balenò negli occhi della Tigre della Malesia.
— Tu sai, Yanez, di quanto io sia capace, — disse con tono di voce che faceva fremere. — Il mio passato tu lo conosci.
— Lo so, Sandokan, che tu hai sfidato l’ira di regni ed imperi europei. Ma la prudenza non è mai troppa.
— E sia: sarò prudente. Mi accontenterò di liberare Tremal-Naik.
— Cosa forse più difficile dell’altra, Sandokan.
— Perché?
— Ci sono sessanta bianchi nel fortino e dei pezzi di cannone.
— Che cosa sono sessanta uomini?
— Il fortino è vicinissimo alla città. Al primo colpo di cannone tu avrai i bianchi dinanzi e le truppe dei rajah alle spalle.
Sandokan si morse le labbra e fece un gesto di dispetto.
— Eppure bisogna salvarlo, — disse.
— Che cosa dobbiamo fare?
— Giuocheremo d’astuzia.
— Hai un piano?
— Sono bornese e come i miei compatrioti ho sempre amato i veleni. Con una sola goccia si uccide un uomo per quanto sia forte; con un’altra goccia si addormenta, lo si fa credere morto, e lo si fa impazzire. Il veleno, come vedi, è un’arma potente, terribile.
— So che durante il nostro soggiorno a Giava tu ti occupavi molto di veleni. E mi ricordo che una volta un potente narcotico ti salvò dalla forca.
— Ecco che i miei studi e le mie ricerche cominciano a fruttare, — disse Sandokan. — Ascoltami, Yanez.
Frugò in una tasca interna della sua giacca e levò una scatoletta di pelle, ermeticamente chiusa. L’aprì, e mostrò al portoghese dieci o dodici microscopiche boccettine piene di liquidi bianchi, verdastri e neri.
— Per Giove! — esclamò Yanez.
— Non è tutto, — disse Sandokan, aprendo una seconda scatoletta contenente piccolissime pillole esalanti un acuto odore. — Questi sono altri veleni.
— E cosa vuoi fare con quei liquidi e quelle pillole?
— Ascoltami con attenzione, Yanez. Tu mi hai detto che Tremal-Naik è prigioniero nel forte.
— E’ vero.
— Credi di poter entrare nel forte, chiedendo il permesso al rajah?
— Lo spero. Ad un amico non si nega un favore così piccolo.
— Tu dunque entrerai e chiederai di vedere Tremal-Naik.
— E quando l’avrò veduto, che cosa farò?
Sandokan levò dalla seconda scatola tre pillole nere e gliele mise in mano.
— Queste pillole contengono un veleno che non uccide, ma che sospende la vita per trentasei ore.
— Ora comprendo il tuo piano. Io dovrò farne inghiottire una a Tremal-Naik.
— O scioglierne una nella brocca dell’acqua.
— Tremal-Naik non darà più segno di vita, lo crederanno morto e lo seppelliranno.
— E noi, alla notte, andremo a disseppellirlo, — aggiunse Sandokan.
— Il progetto è stupendo, Sandokan, — disse il portoghese.
— Tenterai il colpo? Tu non corri, mi pare, alcun pericolo.
— Io lo tenterò, purché mi si permetta di entrare nel forte.
— Se non te lo permettono, corrompi qualche marinaio. Hai denaro?
Il portoghese aprì la giacca, il panciotto, alzò la camicia e mostrò una fascia un po’ rigonfia che cingevagli i fianchi.
— Ho sedici diamanti che tutti insieme valgono un milione.
— Se ne vuoi degli altri, parla. Io ho la mia cintura che contiene il doppio della tua e a Batavia abbiamo tanto oro da acquistare la flotta intera del Portogallo.
— Lo so, Sandokan, che il denaro non ci manca. Per ora mi accontenterò dei miei sedici diamanti.
— Nascondi ora queste pillole e anche quelle due boccettine, — disse Sandokan. — Una, la verde, contiene un narcotico che non sospende la vita, ma che addormenta profondamente per dodici ore; l’altra, la rossa, contiene veleno che uccide istantaneamente e senza lasciare traccia. Chissà: possono esserti utili.
Il portoghese nascose le pillole e le boccettine, si gettò a bandoliera il fucile e si alzò.
— Te ne vai?
— Sarawack è lontana, fratello mio.
— Quando farai il colpo?
— Domani.
— Mi farai subito avvertire da Kammamuri?
— Non mancherò; addio, fratello.
Scese la pericolosa scala, salutò i tigrotti e tornò a cacciarsi sotto la foresta, cercando di orizzontarsi. Aveva percorso sei o settecento metri, quando fu raggiunto dal maharatto.
— Altre novità? — chiese il portoghese, arrestandosi.
— Una e forse grave, signor Yanez, — disse il maharatto. — Un pirata è tornato or ora al campo ed ha riferito alla Tigre di aver veduto, a tre miglia da qui, una banda di Dayachi guidata da un vecchio bianco.
— Se la incontrerò gli augurerò il buon viaggio.
— Aspettate un po’, signor Yanez, — disse il maharatto. — Il pirata ha detto che quel vecchio dalla pelle bianca somigliava a quell’uomo che ha giurato di appiccare la Tigre e voi.
— Lord James Guillonk! — esclamò Yanez, impallidendo.
— Sì, padron Yanez, quell’uomo somigliava allo zio della moglie di Sandokan.
- E’ impossibile!... È impossibile!... Chi è il pirata che lo ha visto?
— Il malese Sambigliong.
— Sambigliong!... — balbettò Yanez. — Questo malese era con noi quando rapimmo la nipote di lord James, anzi, se la memoria non m’inganna, affrontò lo stesso lord che stava per spezzarmi il cranio. Per Giove!... Io corro un gran pericolo.
— Quale? — chiese il maharatto.
— Se Lord Guillonk viene a Sarawack io sono perduto. Mi vedrà, mi riconoscerà, quantunque siano scorsi quasi cinque anni dall’ultima volta che ci siamo incontrati, e mi farà arrestare e appiccare. Dirai a Sandokan che starò in guardia e che cerchi d’impadronirsi di quel vecchio dalla pelle bianca. Addio, Kammamuri, domani mattina ti attendo alla taverna cinese.
Il portoghese, molto inquieto, si rimise in marcia, guardandosi ben d’attorno e tendendo gli orecchi, pauroso di trovarsi da un istante all’altro dinanzi a quel vecchio.
Fortunatamente non udivasi, sotto la gigantesca boscaglia, alcuna voce umana, né alcun segnale. I soli rumori che rompevano il silenzio erano le grida degli argus giganti, magnifici fagiani che svolazzavano a centinaia, quelle non meno acute delle cacatue nere e quelle rauche delle scimmie dal naso lungo, così chiamate perché il loro naso è lungo, assai grosso, e rosso come quello di Bacco.
Camminò così, con grandi precauzioni, fra cespugli inestricabili e gigantesche macchie, ora piegando a destra ed ora a sinistra, per cinque ore. Non giunse a Sarawack che al calar del sole, affranto dalla fatica e affamato come un lupo. Stimando fosse tardi per recarsi a pranzare dal rajah, si recò alla taverna del cinese.
Dopo un lauto pranzo e parecchie bottiglie, fece ritorno alla palazzina. Alla sentinella, prima di entrare, chiese se un vecchio dalla pelle bianca fosse giunto, ma avutane risposta negativa, salì.
Il rajah erasi ritirato nella sua stanza da qualche ora.
— Meglio così, — mormorò Yanez. — Un cacciatore che torna senza un pappagallo può allarmare quella vecchia volpe sospettosa.
Andò poi a dormire, mettendo le pistole e il kriss sotto il capezzale.
Note
- ↑ James Brooke fu infatti spietato verso i pirati malesi. I suoi stessi compatrioti biasimarono la sua crudeltà. [N.d.A.]