I pirati della Malesia/Capitolo XI - Una notte in prigione

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Capitolo XI - Una notte in prigione

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Capitolo XI - Una notte in prigione
Capitolo X - La taverna cinese Capitolo XII - Il rajah James Brooke

Capitolo XI
Una notte in prigione


Quelle grida, emesse da cinesi in quartiere cinese, dovevano ottenere lo stesso effetto che ottiene un gong battuto in una via di Canton o di Pekino.

Infatti, in meno di due minuti, un duecento coduti figli del Celeste Impero, armati di bambù, di coltelli, di sassi e di ombrelli, si trovarono riuniti dinanzi alla porta della taverna, mandando urla spaventevoli.

— Dalli al ladro! — gridavano gli uni, roteando minacciosamente bastoni e ombrelli.

— Appicca il bianco! — urlavano gli altri, mostrando i coltelli.

— Gettalo nel fiume!

— Ammazzalo! Annegalo! Abbrucialo! Appiccalo!

I bevitori, spaventati da tutto quel baccano e temendo di venire lapidati, sgombrarono in fretta la taverna, chi uscendo dalla porta e mescolandosi alla banda, chi saltando dalle finestre, che fortunatamente non erano troppo alte. Là non rimase che il portoghese, il quale rideva a crepapelle, come se assistesse ad una brillantissima farsa.

— Bravi! bene! bis! — gridava egli, armando però le pistole e tirando dalla cintura il kriss.

Un cinese che parlava più di tutti, in prima fila, gli tirò una sassata; ma il ciottolo andò a spezzare un gran fiasco di sam sciù, il cui liquore si sparse per terra.

— Ehi, mariuolo! — gridò il portoghese, — tu rovini il taverniere.

Raccolse un ciottolo e lo rimandò all’aggressore, che n’ebbe rotto un dente.

Urla ancora più acute rimbombarono nel quartiere, facendo accorrere altri cinesi, alcuni dei quali armati di vecchi archibugi. Tre o quattro, incoraggiati dai compagni del taverniere, tentarono di entrare, ma alla vista delle pistole che il portoghese puntava verso di loro, s’affrettarono a mostrare le suole di feltro dei loro zoccoli.

— Lapidiamolo! — gridò una voce.

— E la mia taverna? — gemette il taverniere.

— Sassate, amici! Sassate!

Una grandine di ciottoli entrò nella taverna, fracassando le lanterne, i fiaschi, i tondi, le terrine ed i vasi.

Il portoghese, visto che il baccano diventava pericoloso, scaricò in aria le sue due pistole.

Ai due spari tennero dietro sette archibugiate sparate nella via, ma senz’altro effetto che quello d’ingrossare il baccano.

D’improvviso si udirono varie voci gridare:

— Largo!... largo!...

— Le guardie del rajah!

Il portoghese respirò. Quel baccano, quei bastoni in aria, quei coltelli, quelle grandinate di ciottoli, quei moschettoni e quel continuo ingrossare della folla cominciavano ad inquietarlo.

— Facciamo baccano, ora che non c’è più pericolo, — disse. Si slanciò verso una tavola e la rovesciò, fracassando tutti i fiaschi, i vasi, i tondi che vi erano sopra.

— Arrestatelo! Arrestatelo! — urlò il taverniere. — Quel bianco mi fracassa tutto.

— Largo! largo alle guardie! — gridarono alcuni.

La folla si divise e sulla porta della taverna apparvero due uomini di color scuro, alti, robusti, con giacca e calzoni di tela bianca e una draghinassa in pugno.

— Indietro! — gridò il portoghese, puntando su di loro le pistole.

— Un europeo! — esclamarono le due guardie, meravigliate.

— Dite un inglese, — disse Yanez.

Le due guardie ringuainarono le draghinasse.

— Non vogliamo farvi alcun male, — disse uno dei due. — Siamo al servizio del rajah Brooke, vostro compatriota.

— E che cosa volete da me?

— Liberarvi da questa turba.

— E condurmi in qualche carcere?

— A questo penserà il rajah.

— Mi condurrete da lui?

— Senza dubbio.

— Se è così vengo. Dal rajah Brooke non ho nulla da temere. Le due guardie lo presero in mezzo e tornarono a sguainare le draghinasse, onde proteggerlo dalla rabbia dei cinesi, che era giunta al colmo.

— Largo, — gridarono.

I cinesi, in numero grossissimo, a quella intimazione non ubbidirono: volevano ad ogni costo appiccare l’europeo.

Le due guardie però non si perdettero d’animo. Distribuendo piattonate a destra ed a sinistra e vigorosi calci, riuscirono a fare un po’ di largo e trassero il prigioniero in una stretta stradicciola, giurando di ammazzare quanti li avrebbero seguiti.

I cinesi, dopo aver urlato su tutti i toni e lanciato imprecazioni contro Yanez, contro le guardie e contro lo stesso rajah che accusavano di proteggere i ladri, si dispersero, lasciando solo il taverniere coi suoi quattro sguatteri malconci.

Sarawack non è una città molto vasta e non ha molte vie, sicché le due guardie in meno di cinque minuti giunsero alla palazzina del rajah, costruita in legno come tutte le abitazioni dei bianchi che coronano le collinette dei dintorni.

Sulla cima ondeggiava una bandiera, che al portoghese parve rossa come quella inglese: dinanzi alla porta stava impalato un indiano armato di fucile e baionetta.

— Mi condurrete subito dal rajah?

— E troppo tardi, — risposero le guardie. — II rajah dorme.

— E dove passerò la notte?

— Vi daremo una stanza.

— Purché non sia una cantina.

— Un compatriota del rajah non si mette in una cantina.

Il portoghese fu fatto entrare, indi salì una scala, e fu introdotto in una stanzina colle finestre difese da grosse stuoie di foglie di nipa, con un’amaca di filamenti di cocco, qualche mobile di provenienza europea e una lampada che era stata già accesa.

— Per Giove! — esclamò, stropicciandosi allegramente le mani. — Dormirò come un babirussa.

— Desiderate nulla? — chiese una delle guardie.

— Che mi si lasci dormire, — rispose Yanez.

Una guardia uscì, ma l’altra si sedette presso la porta mettendosi in bocca una noce di areca avvolta in una foglia di betel.

— Approfitterò per farlo cantare; ci sono molte cose che ignoro e che quest’uomo senza dubbio sa, — pensò Yanez.

Arrotolò una sigaretta, l’accese, aspirò alcune boccate di fumo e avvicinandosi alla guardia:

— Giovanotto, sei indiano? — chiese.

— Bengalese, sir — rispose la guardia.

— E’ molto tempo che sei qui?

— Due anni.

— Hai udito parlare di un pirata che si chiama la Tigre della Malesia?

— Sì.

Yanez represse a stento un gesto di gioia.

— È vero che la Tigre è qui? — domandò.

— Non lo so, ma si dice che dei pirati hanno assaltato un vascello a venti o trenta miglia dalla costa e che poi sono sbarcati.

— Dove?

— Non si sa precisamente in qual luogo, ma lo sapremo.

— In qual modo?

— Il ‘‘rajah’’ ha delle brave spie.

— Dimmi, è vero che alcuni mesi or sono è naufragato un vascello inglese presso il capo Taniong-Datu?

— Sì, — rispose l’indiano. — Era un vascello da guerra proveniente da Calcutta.

— Chi corse in suo aiuto?

— Il nostro rajah col suo Realista.

— Fu salvato l’equipaggio?

— Tutto, compreso un indiano condannato alla deportazione perpetua, non ricordo più in quale isola.

— Un indiano condannato alla deportazione perpetua! — esclamò Yanez, fingendo la massima sorpresa. — E chi era costui?

— Si chiamava Tremal-Naik.

— E qual delitto aveva commesso? — chiese Yanez, trepidante.

— Mi si disse che aveva ucciso degli inglesi.

— Che brigante! Ed è ancora qui questo indiano?

— È rinchiuso nel fortino.

— In quale?

— Quello che è sul colle. Non ve n’è che uno a Sarawack.

— Ha guarnigione il fortino?

— Vi sono i marinai del legno naufragato.

— Molti?

— Una sessantina al più.

Yanez fece una smorfia.

— Sessanta uomini! — mormorò. — E forse vi saranno dei cannoni anche.

Si mise poi a passeggiare per la stanza, meditando. Passeggiò così per alcuni minuti, poi si sdraiò sull’amaca, pregò la sentinella di abbassare la fiamma della lampada e chiuse gli occhi.

Quantunque prigioniero e con molti pensieri pel capo, il portoghese dormì come se fosse a bordo della Perla di Labuan o nella capanna della Tigre della Malesia. Quando si svegliò, un raggio di sole penetrava attraverso le foglie di nipa che servivano da persiane.

Guardò verso la porta, ma la sentinella non c’era più. Vedendolo dormire e fors’anche udendolo russare, se ne era andata, certa che un prigioniero di quel genere non sarebbe saltato dalle finestre.

— Benissimo, — disse il portoghese. — Approfitteremo.

Balzò giù dall’amaca, fece un po’ di toeletta, alzò la stuoia e si affacciò alla finestra, respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino.

Sarawack presentava un bel colpo d’occhio colle sue verdeggianti palazzine di legno, col suo grande fiume ombreggiato da superbi alberi e solcato da piccoli prahos, da svelte piroghe, da leggeri e lunghi canotti, colle bizzarre casette, a tetto arcuato e dipinte a smaglianti colori, del quartiere cinese, le sue capanne di foglie di nipa, piantate su pali di rispettabile altezza, del quartiere dayaco e le sue viuzze affollate di cinesi, di dayachi, di bughisi e di macassaresi.

Il portoghese percorse, con un rapido sguardo, la città e arrestò gli sguardi sulle colline. Là, in alto, si vedeva una graziosa chiesetta e, a non molta distanza, un forte, solidamente costruito e con molte feritoie.

Il portoghese lo guardò con attenzione profonda.

— E’ là che vi è Tremal-Naik, — mormorò. — Come liberarlo?

In quell’istante una voce dietro di lui diceva:

— Il rajah vi attende.

Yanez si volse e si trovò dinanzi al bengalese.

— Ah! siete voi, amico? — disse, sorridendo. — Come sta rajah Brooke?

— Vi attende, sir.

— Andiamo a stringergli la mano.

Uscirono, salirono un’altra scala ed entrarono in un salotto, le cui pareti scomparivano sotto un vero strato d’armi di tutte le grandezze e di tutte le forme.

— Entrate in quel gabinetto, — disse il bengalese.

— Che cosa racconterò? — mormorò. — Coraggio, Yanez. Hai una vecchia volpe dinanzi.

Spinse la porta ed entrò risolutamente nel gabinetto, in mezzo al quale, dinanzi ad una tavola ingombra di carte geografiche, stavasene seduto il rajah di Sarawack.