I principii scientifici del divisionismo/II

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CAPITOLO II




La percezione normale dei colori.


L
a dimostrazione di un mondo reale diverso da quello presentatoci dal senso della vista, subordinato anzi alle proprietà nervose dell’organo visivo aprirebbe un varco al dubbio della possibilità di tante particolari sensazioni del colore degli oggetti naturali di quante varietà è suscettibile l’individuo entro la specie, e quindi sensazioni ed apprezzamenti se non in contrasto assoluto col modo di essere dei colori del vero, che non lo consente l’uniformità di carattere generale del nostro organismo, tuttavia tali da ritenere possibile la discussione sull’eguaglianza o dissomiglianza di percezione di uno stesso colore fra due o più individui.

Si allude ad un'invalsa opinione sul vedere o meno il colorito che è prezzo dell’opera esaminare, non potendosi concedere in nessun modo che l’esercizio dell’arte sia lo sfruttamento di un fenomeno fisiologico anormale, mentre l’arte non trova successo duraturo se non è capace di rispondere alla più squisita e universale intelligenza del vero. [p. 36 modifica]

Certamente il raggiungere coi mezzi della pittura la somiglianza dei colori del vero, che si può riprodurre tanto per una semplice impressione del tono di uno o più oggetti reali quanto per una rappresentazione complessa degli elementi di ciascun colore, non è facile. E per farlo coi mezzi della pittura si è d’accordo nell’ammettere delle singolari attitudini come delle insufficenze.

Però le comuni espressioni vedere il colore o sentire il colore, colle quali si designano le facoltà di quei pittori che colgono più o meno felicemente le più esatte, più efficaci o più armoniche tinte del vero, rinchiudono un erroneo concetto delle facoltà attive dell’artista quando rappresentano il convincimento che ogni pittore debba avere un suo modo particolare di vedere nel vero, ossia di un privilegio qualunque dell’occhio, poiché tali facoltà non risiedono affatto in una squisitezza o meno della vista, ma sono essenzialmente d’ordine intellettuale come l’attenzione e la memoria.

L’occhio normale funziona similmente tanto nei chiamati all’arte come in quelli che si dicono negativi per l’arte, mentre altrettanto non si può dire delle doti spirituali nelle quali effettivamente risiede il grado di attitudine all’estrinsecazione del vero per mezzo dei colori.

Eliminato ogni dubbio di imperfezione fisica dell’occhio 1, che in ogni modo costituisce l’eccezione e come [p. 37 modifica]tutte le eccezioni inetta a menomare la forza della regola generale, è lecito ammettere senza sottilizzare che presentando a degli iniziati all’arte del dipingere una doppia serie di cartoni di tinte neutre come un grigio appena verdastro ed un grigio tendente al rosso, mescolati alla rinfusa, essi sappiano senza tante perplessità sciegliere ed ordinare partitamente i grigi verdeggianti da quelli rossastri senza scambio degli uni cogli altri.

Né maggiori difficoltà potrebbero trovare gli stessi individui apprestando loro fra diversi barattoli di colori le stesse tinte che servirono per colorire i detti cartoni a bene distinguerle e con quelle dipingere altri cartoni grigi rossastri e grigi verdi eguali ai precedentemente scelti ed ordinati. Sono queste mansioni che si vedono tutto giorno disimpegnate da garzoni di imbiancatori e verniciatori e da non mettere in forse se lo potesse fare chi copia già dal vero, mostrandosi così assodata in tutti questi esaminandi la capacità di scorgere l'uguaglianza e dei cartoni dapprima ordinati e dei colori che servirono a tingerli e di quelli stessi dipinti dalle loro mani.

Ora se a ciascheduno di questi pittori si affida la propria tavolozza perché su di una tela o sul muro o su qualsivoglia [p. 38 modifica]superfice ciascheduno componga da sè le tinte grigiastre che ha saputo così bene discernere per eguali, noi assisteremmo indubbiamente ad uno spettacolo di risultati assai diversi. A quella semplicità di moti e facilità di disimpegno dimostrata nella scelta dei colori eguali, già preparati, verrà, man mano che procede la ricerca d’imitazione sulla tavolozza, sostituendosi un’ansia, un ’ impazienza, un corruccio, una stanchezza sempre più visibile, che si verrà mostrando anche sulle rispettive tele una varietà di campioni di colori da far credere che si tratti della copia di tutt’altre tinte e che da ogni pittore si sia improvvisamente perduto ogni criterio di eguaglianza, tanto diversi l’uno dall’altro e dai modelli saranno i colori risultanti nelle singole imitazioni.

Ma ciò che è più interessante è questo, che, fatto deporre tavolozze e pennelli e chiamati a pronunziarsi sull’opera collettiva, per sciegliere chi si sarà avvicinato di più colla copia al modello, tornerà il criterio della somiglianza a farsi strada nello spirito di tutti e da ognuno verrà indicato quello che nella copia sarà riescito meglio ad imitare i modelli proposti.

Questo esperimento, che con varianti trascurabili si fa tutti i giorni nelle scuole di pittura, mette in rilievo due fatti importantissimi. L’uno che il giudizio sull’eguaglianza dei colori non ha nessuna relazione coll’abilità necessaria per imitarli, l’altro che per imitare i colori non basta avere il criterio per distinguere quando due colori sono differenti l’uno dall’altro, ma che occorrono delle doti particolari per riescire coi colori della tavolozza ad imitare delle tinte composte e che non hanno corrispondente uguale sulla tavolozza per essere passate con un semplice atto meccanico da questa sul dipinto.

Restando nell’esempio proposto di un grigio rossastro da [p. 39 modifica]imitare e sulla tavolozza non essendovi che dei colori puri come il bianco, il giallo, il rosso, il verde, l’azzurro, il violetto ed il nero o varietà sempre più intense che non il grigio rossastro, il pittore dovrà forzatamente mescolarne diversi per ottenere la tinta grigio-rossa cercata. Ma per iniziare i suoi miscugli da quale punto fisso deve partire?

Evidentemente qui non è più l’occhio che agisce ma il ragionamento, anzi una somma di ragionamenti che non sono meno tali perché si possono fare senza muovere labbro e perché si vedono compiere molto spesso da pittori la cui educazione eccessivamente pratica non li pone in grado di poterli tradurre in parole, ma non per questo meno ragionamenti dei più logici, fondati o sull’esperienza altrui o sulla propria osservazione dei mezzi dell’arte se il risultato si vede corrispondere ad un esito positivo, come il ricavare da colori che in sè sono effettivamente diversi l’eguaglianza con altre tinte.

Con tutti i colori, opportunamente mescolati, è possibile arrivare al grigio e, lasciando prevalere il rosso, giungere ad un grigio rossastro. Ciò teoricamente, ma in pratica e di fronte ad un determinato grigio, come quello dato a modello (e vale lo stesso per qualsiasi genere di tinta che non esista bell’e fatta sulla tavolozza), quante mai gradazioni escono nel percorrere i varî stadî di ricerca ogni volta che il pennello si intinge nel bianco, nel nero, nel rosso e via via, nel giallo, nel verde, e quanti ne possono occorrere per arrivare alla imitazione del tipo stabilito!

Ognuno vede che nel copiare non è più questione di percepire la somiglianza di due colori, ma di capire per quali colori e per quale quantità di certi colori si può pervenire all’imitazione di un tipo dato. Una sbadataggine nel dare preferenza al cinabro rosso invece che ad una terra rossa; ad un giallo di zinco o ad [p. 40 modifica]un cadmio, invece che ad una terra gialla; ad un azzurro oltremare, piuttosto che ad un nero; ad un bleu di Prussia anziché ad un cobalto, trascina a dover mescolare e rimpastare tinte su tinte per delle ore prima di rimettersi in certo equilibrio, ed anzi dati questi punti falsi di partenza il più delle volte è impossibile venire a capo dell’imitazione ed il miglior partito è rinunciare all’impresa, o togliendo ogni colore dal dipinto, ritornare da capo.

Ma sarà sempre collo stesso contingente di attitudini intellettuali di cui ciascun artista è fornito che sarà ripresa la lotta dell’imitazione, talché chi non riesce dopo una certa somma di esperienza a concepire mentalmente i risultati dei miscugli dei colori senza procedere all’atto mate riale, ed a mo’ di esempio, chi non riesce mai a capire che un po’ di bianco e di nero forma una tinta azzurra che può bastare alla imitazione di certi azzurri, ma tutte le volte che si trova a dover imitare questi azzurri va inconsultamente a intingere il suo pennello nel bianco e in un blu di Prussia, fatalmente questo pittore cadrà in una impossibilità materiale di accostarsi all’azzurro cercato e l’opera sua si risentirà sempre di questo difetto intrinseco nel quale non ha che vedere né l’occhio, né il colore che serve da modello, né il fine stesso che si propone tale pittore, il quale tuttavia saprà sempre dirvi benissimo quando gli si volesse mettere un tassello nei calzoni di stoffa di ore diverso, che le due tinte non sono precise, e vedrà benissimo la menoma scolorazione prodotta dalla luce su di una tappezzeria, e saprà egregiamente giudicare se la copia di un dipinto sarà eguale all’originale ed indicarne anche le più delicate differenze.

Dunque la facoltà di imitare non istà essenzialmente nel saper vedere le disuguaglianze o le uguaglianze dei colori, ma nel criterio di ricavare da colori in sé differenti delle [p. 41 modifica]determinate gradazioni di tinte, ed è quindi illogico concludere dalla inettitudine all’impiego del materiale pittorico tanto un difetto organico del senso visivo, quanto il così detto modo proprio di vedere, che si attribuisce ad ogni singolo pittore, partendo dal fatto che tutti i pittori hanno nei proprî quadri persistenti tendenze di colore ed offrono risultati diversi l’uno dall’altro, anche se evidentemente si tratti della copia dello stesso oggetto.

Per ciò l’artista che riesce meglio nella imitazione dei colori, sbaglierebbe molto ritenendosi dotato di un occhio migliore di qualunque altro normale, e stimando indispensabile il suo concorso quando si trattasse di precisare se due colori sono eguali fra di loro o con un terzo, come sbaglierebbe assai quegli che non riescendo nella imitazione pittorica si giudicasse inetto ad intervenire ogni qualvolta vi fosse da decidere sulla questione della eguaglianza dei colori.

Si è considerata nei casi suesposti la copia dei colori ridotta alla più semplice espressione, la tinta uniforme, la meno difficile da cogliersi, perché generalmente suppone una estesa superfice che pel tempo necessario a coprirla dà agio di perfezionarne l’imitazione, ad ogni nuovo tocco di pennello ricavandosi sussidio nuovo di confronti.

Ora se si avverte che negli oggetti naturali la grande varietà dei riflessi e il modo stesso della propagazione della luce fanno sì che mai vi possono essere due punti dello stesso colore, nello stesso grado di chiaroscuro, se non su parti di oggetti eguali posti sullo stesso piano ed alla stessa distanza dalla sorgente luminosa, quanto dire che estensioni uniformi di colori non accadono mai, apparisce con abbastanza evidenza come dal vero, anche per artisti dotati di certo intuito degli effetti dei miscugli della tavolozza e di una normale percezione di eguaglianza, la copia possa [p. 42 modifica]piegare verso un colore falso sino dall’applicazione delle prime pennellate sulla tela, alla difficoltà della tinta unendosi sempre la difficoltà della forma che la inchiude, anche questa variabile dalla semplice linea di una pianta o di un sasso alle più complicate e talvolta inafferrabili modellature di un volto umano.

Avanti di un pronunciamento qualsiasi per un difetto dell’occhio, desunto da prove pittoriche, occorre avere esaurito l’esame di tutte le circostanze per le quali si può giungere a comprovare che un colore urtante, eccessivo, ingiustificabile nell’armonia di un dipinto, non sia che la conseguenza più semplice dell’impianto del dipinto su quelle condizioni sfavorevoli di contrasti che certi colori tanto facilmente trascinano per loro propria natura.

Non si saprebbe veramente spiegare l’effetto dispiacevole delle colorazioni inchiuse fra la metà inferiore dello spettro, che tuttavia dominano in natura tanto quando risplende la luce diretta del sole o la stagione od il clima importano la prevalenza delle tinte fredde. Ma riflettendo ai cento modi di mitigare i colori che si nuociono reciprocamente, sia diminuendo lo spazio occupato dall’uno, sia interponendo qualche altro colore molto diverso, sia spingendo la serie delle gradazioni a tale finezza che i passaggi dall’uno all’altro dei colori urtanti sembri l’inesorabile conseguenza del loro avvicendarsi, il concetto che sia piuttosto l’arte che manchi, in dipinti di tal fatta, che una facoltà visiva dovrebbe essere sufficiente a porre in disparte ogni altro fantastico supposto.

Le cose ridicole, assurde, mostruose che si vedono compiere nel disegno, non meno che le fiacche, inespressive ed inutili che spesso usurpano il nome d’arte, mai spingono all’idea di vere perturbazioni della vista e di difetti dimostrabili dell’occhio, riserbandosi, a quanto pare, tale [p. 43 modifica]privilegio solo alle mille forme d’impotenza al linguaggio dei colori, che pur devono mostrarsi con altrettanto sconclusionati e dispiacevoli aspetti, non solo quando disegno, idea e sentimento malamente espressi dicono che si è in presenza di un inetto all’arte del colorire ma anche quando i difetti cromatici si trovano accoppiati a cospicui valori di forma, d’invenzione, di scienza, non essendo detto che questi pregi debbano necessariamente essere congiunti colle doti particolari che distinguono il pittore per eccellenza, quello cioè nel quale il senso del colore e l’attitudine a dimostrarlo col pennello soverchia ogni altra sua qualità.

Chi non ha veduto i cattivi dipinti di Gustavo Dorè, l’immaginoso e inesauribile compositore di disegni, non può persuadersi delle bizzarrie del caso nel distribuire qualità artistiche, come non è sempre dato di verificare sin dove giunga la degenerazione del gusto del colorito nei rami inferiori dell’arte per semplice abbandono dello studio del vero, e tutto ciò senz’ombra di difetto organico dell’occhio, senza obbligo di applicare contrariamente alla più elementare filosofia della statistica la percentuale dei daltonici in certe professioni ai pittori, o allarmarsi pel dubbio che un aberrato del senso cromatico potesse fare scuola!

Togliendo dunque ai pittori il falso privilegio di un modo singolare di vedere i colori non si intacca menomamente il loro diritto di preferire delle colorazioni diverse da quelle scelte da altri nel comune patrimonio del vero, nemmeno si compromette il piacere di avere della varietà nelle opere d’arte essendo questa assicurata già dalla varietà infinita degli aspetti delle cose naturali, mentre la concessione di un modo singolo di interpretare il colore implicherebbe in sé l’impossibilità per ciascun pittore di uscire da quella cerchia di effetti che sin dal primo dipinto avesse manifestato. [p. 44 modifica]

Inoltre a rendere giusto e naturale un colore non contribuisce soltanto l’esattezza della sua copia dal vero, come colore preso separatamente a sé, quanto vi contribuisce l’armonia dei colori adiacenti.

Nei quadri a soggetto, che non si trovano mai bell’e composti in natura, l’effetto parziale e totale viene a dipendere non già dalla capacità di distinguere esattamente colore da colore, ma dalla suscettibilità di raggiungere un equilibrio estetico indipendente affatto da considerazioni metodiche, cosicché un gusto pel rischioso o la preferenza per un colore di difficile maneggio facilmente travolgono nel falso. Nel paesaggio, ad esempio, quante impressioni sgradevoli per gli artisti e tutte le persone dotate di gusto raffinato in causa degli ostacoli inerenti all’impiego armonico del verde! «La grave difficoltà di armonizzare i verdi, osserva Rood 2, è ben conosciuta da tutti i pittori e molti fra di loro evitano più che possono di servirsene. La presenza in un quadro di colori che si avvicinano al verde azzurro od al verde smeraldo, per quanto in misura ragionevole, esercita un senso di repulsione pressoché generale, e fa parere fredda e dura ed anche freddissima e durissima un’opera sotto ogni altro riguardo considerevole».

La cattiva accoglienza fatta al prevalere del violetto nel maggior numero delle pitture di effetti all’aria aperta, soggetto preferito della modernità, parrebbe dare ragione alla teoria non ha guari emessa da Ugo Magnus sulla evoluzione del senso dei colori, colla quale teoria, sulla base mal fida di prove filologiche, vorrebbe l’autore che l’umanità primordiale percepisse appena il chiaroscuro senza distinzione di [p. 45 modifica]alcun colore ed abbia acquistato a lenti gradi pel continuato esercizio dell’occhio la visibilità del rosso, poi del giallo e via via del verde, dell’azzurro e del violetto. Evoluzione che potrebbe essere attendibile, anche nel breve tempo di 4000 anni accordatile dal Magnus, purché fosse accertato fra l’uomo antico ed il moderno uno sviluppo proporzionato degli elementi sensibili della retina, mentre è risaputo che queste sono le parti meno conosciute dell’occhio umano.

Ma se l’avversione che il violetto partecipa coll’azzurro ed il verde azzurro, nei gradi medi e chiari, risponde da un lato alla opposizione perfetta nella quale questi colori presi a sé si trovano col giallo, l’aranciato ed il rosso, rappresentanti per eccellenza della luce e del calore e quindi attraenti di quanto lo sono al nostro spirito tutti i richiami alle idee di vita che dalla luce e dal calore trae le energie più potenti, però il verde azzurro, l’azzurro ed il violetto per essere nello stesso tempo appunto complementi del rosso, dell’aranciato e del giallo essi ne formano il contrasto con seguente per una legge fisiologica che vedremo non ammette eccezioni.

Ond'è giuocoforza ritenere che il presunto difetto dei colori più rifratti dello spettro si debba alla difficoltà di metterli in equilibrio, equilibrio si intende secondo la naturale proporzione dei contrasti e non l’abitudine di avere il nero come insuperabile godimento estetico.

Ma la facilità di produrre dei colori neri, il continuo averli sott’occhio nell’uso suntuario, la diffusione della stampa in nero e l’abitudine di disegnare a chiaroscuro, ma più di tutto, nell’arte, il grande servizio che il nero presta a mascherare una apparente forza d’attitudine a dipingere, che più spesso è un’impotenza di raggiungere delle giuste armonie di colore, illustrano abbastanza la necessità [p. 46 modifica]sentita in alcuni di spiegarsi la frequenza tutt’affatto moderna del violetto nei dipinti che hanno per obbiettivo ricerche luminose, fondate anzitutto nella esclusione dell’abituale armonico nero e nella più ampia adozione di quegli azzurri e violetti che per essere i naturali complementari dei colori indispensabili a destare la sensazione luminosa non possono venire soppressi dall’opera pittorica, e specialmente da quella che ha per scopo la gran luce dell’aperto, senza che l’impressione della luminosità non rimanga distrutta. Così una teoria che dimostrasse attavica la propensione per il nero e perfezionato soltanto chi sa vedere anche il violetto avrebbe forse tagliato corto a tante avversioni per quei colori che più sembrano giustificare la facilità di ammettere anomalie nel senso cromatico, se, per fortuna, escluso il daltonismo, altri difetti di percezione dei colori non implicassero lo sconvolgimento di tutto il meccanismo della visione e la conseguente impossibilità di produrre qualsiasi manifestazione pittorica.

Inoltre l’intervento della forma in ogni applicazione pittorica del colore, se è condizione imprescindibile dell’arte di dipingere, nessun interesse risultando è potendo essere connesso all’accozzamento di soli colori, tuttavia accresce talmente le difficoltà di convergere tutti i colori ad una prescelta armonia da doversi considerare la forma contenente il colore come una delle cause più gravi di perturbamento nell’accordare le varie tinte del dipinto.

Quindi nella ricerca delle cause che possono avere con tribuito a deviare il pittore da una giusta interpretazione di uno o più colori ed anche dalla naturalezza di tutto il quadro sino all’apparenza di un vero difetto visivo nell’autore, l’ostacolo inerente al compenetrare il colore nella forma assurge ad importanza tale che non potrebbe essere trascurata senza che le deduzioni ricavate dal solo esame [p. 47 modifica]del colore non corressero il rischio di essere erronee del tutto rispetto ad un giudizio definitivo sulla percezione più o meno normale di chi ha eseguito il quadro.

L'esempio di cattivissimi pittori di figura, che non la sola mancanza di percezione di un sol colore, come i daltonici, ma che si sarebbero ritenuti destituiti di qualsiasi qualità per riescire nell’arte, dedicandosi al paesaggio mostrarono come si possono smentire pronostici di tal fatta. Né queste sono le sole ragioni che rendono dubbioso ogni giudizio portato sulle qualità dell’occhio dell’artista partendo dall’analisi del colorito dei suoi quadri, fondendovisi influenze di epoca e di scuola, di aspirazioni a conquiste coloristiche nuove o anche a semplici riproduzioni di effetti singolari troppo per ricevere una sanzione generale di veridicità. Così le risultanze di un'affrettata o preconcetta disamina possono bastare perché da un’epoca, da una scuola, da un consesso limitato di giudici, come da un intero pubblico si attribuisca anche a questo erroneo privilegio di un modo singolare di vedere nel vero un’interpretazione pittorica, un'arte scaturita da una più profonda osservazione della natura viva, da una preparazione più consona alla difficoltà di portare un contributo utile al progresso dell’arte - da quel provvidenziale rinnovellamento dell’istinto d’indagine che contrassegnò il succedersi delle antiche scuole, morte non dacché mancò l’innumerevole schiera di quelli che fanno diverso dal vero per non poter fare altrimenti, ma l’alito vivificante dei maestri che si isolassero dal modo arbitrario di copiare dal vero per avervi saputo guardare meglio.

Il colorito dunque che può presentarsi così vario nelle opere di ogni singolo pittore, nella grande maggioranza dei casi dotati del senso visivo normale conferito da natura all’essere umano, non è altro che il prodotto delle [p. 48 modifica]attiudini intellettuali proprie di ciascun pittore a superare le difficoltà dell’imitazione dei colori dal vero coi mezzi dell'arte; e le estrinsecazioni diverse che l’opere degli stessi artisti possono presentare nelle varie evoluzioni che sono normalmente il risultato logico dell’esercizio di copiare, ogni nuova varietà introdotta nel loro colorito non è menomamente dipendente da sopravvenuta modificazione organica del loro occhio, ma una conseguenza necessaria della attività impiegata per farsi più abili nella lotta di asservire il materiale pittorico allo scopo della imitazione; finché, come accade sempre, determinatosi nell’artista il criterio del campo migliore di utilizzazione delle proprie forze o quelle predilezioni per certi effetti del vero che sono inseparabili dal gusto educato, il cosidetto modo personale di vedere nel vero si fissa e l’artista allora si ripete. Non occorre qui discutere se con beneficio dell’arte e maggiore godimento degli amatori d’arte, ma certo segnando così, non già un singolo senso del colore, ma accentuando una singola preferenza di colori del vero, differenza enorme col privilegio tanto gratuitamente concesso e all’ombra del quale si potrebbe, quando che sia, trincerare chiunque per atteggiarsi a contradittore delle verità più elementari acquisite dalla scienza in ordine ai fenomeni della luce e dei colori.



  1. Per stabilire in modo positivo che la percezione dei colori è eguale in un certo numero di persone sulle quali si volesse esperimentare, è prudenza procedere ad un esame, dacché l’acromatopsia o mancanza di sensibilità per qualche colore si sia rivelata un’affezione assai più diffusa di quanto si riteneva avanti che Dalton, celebre chimico inglese che ne era colpito, vi richiamasse una speciale attenzione indirizzandovi le ricerche statistiche. Il caso più ordinario è quello della imperfetta sensibilità pel rosso, che si traduce nello scambio del rosso col verde e di questo con quello. Un daltonico è presto riconosciuto quando lo si ponga a separare da una serie confusa di rossi e verdi ciascun colore e disporre i rossi coi rossi ed i verdi coi verdi. Per quanti sforzi potesse fare chi ha tale difetto nell’occhio per simulare di vedere normalmente, non potrebbe resistere ad una prova prolungata di dividere, ad esempio, una moltitudine di pezzi di carta rossi e verdi, di simile intensità luminosa, che non cada nell’inganno di confondere gli uni cogli altri mancandogli la differenza in grado di chiaro scuro, che per solito serve di norma ad evitare gli errori in quelli che conoscono il proprio difetto.
  2. O. N. Rood, Théorie scientifique des couleurs. — Paris, 1881, Felix Alcan éditeur, pag. 254.