I principii scientifici del divisionismo/VII

Da Wikisource.
../VI

../VIII IncludiIntestazione 21 aprile 2022 50% Da definire

VI VIII
[p. 135 modifica]

CAPITOLO VII




Sguardo retrospettivo
sulla teorica e la tecnica della pittura.



I
l senso di nero che pervade l’opere degli antichi pittori che più intesero alla ricerca degli effetti luminosi, si trova corrispondere al risultato dell’esame tecnico delle stesse opere — anzitutto la tecnica essendo il segno concreto rivelatore dei principî informativi dell’opera d’arte ed anche delle più secrete intenzioni dell'artista, se queste hanno avuto un qualunque inizio di esecuzione materiale, giacché è troppo ovvio che se nulla ci è dato di vedere dove manca una sensibile traccia di sostanza colorante così nulla si potrà desumere ove facciano difetto i contrassegni della intenzione pittorica.

In fatti, come non si può supporre potenza di colore o volontà di raggiungerlo dove effettivamente il colore manchi, né che si sia voluto ottenere morbidezza e fusione dipingendo contorni rigidi e taglienti senza gradazioni intermedie, [p. 136 modifica]così non potrà risultare impressione di luce viva e in particolar modo di luogo aperto dove primeggino soltanto forme perdute nella oscurità, mancanza di riflessi e di mezze tinte: come conseguentemente ancora non sarà lecito dire che si ebbe conoscenza di complementari, e di contrasti appoggiati su questi, se le opposizioni più spiccate, quelle che richiedono altresì della più esplicita visibilità di questi colori, si vedranno poggiare sempre sull’urto del bianco col nero o di colori chiari ed oscuri senz’altro vincolo fra di loro che l'evidente risalto della cosa oscura contrapposta alla più chiara.

In nessun campo meglio che nelle arti plastiche è in- giustificabile ed arbitraria la supposizione di pregi o tendenze che non risultino per qualche segno materiale, e per questo nessuno mai oserebbe dire che nell'arte del quattro- cento e nelle tempere di quegli artefici vi si riscontrano i meravigliosi impasti di colore, le potenti velature, la scioltezza di mano di Tiziano, di Paolo Veronese, di Luca Giordano, del Tiepolo. Il fiotto delle dimostrazioni contrarie schiaccerebbe l’incauto che tanto azzardasse, e non certo dimostrazioni di sola indole estetica, che il dibattito durerebbe in eterno, ma prove materiali quali possono decidere in modo incontrovertibile se un colore sia a corpo od a velatura, se due colori furono piazzati con un colpo secco di pennello l'uno accosto all’altro o se sono stati fusi ed ammorbiditi dalla meccanica penetrazione dell'uno nell’altro : se due colori sono eguali o differenti; infine quante deduzioni si possono ricavare dall'esame di un materiale che non figurando mai sull'opera d’arte per mera causalità ma come risultato definitivo di un deliberato volere, si risente quanto mai altro delle effettive energie intellettuali e modalità fisiche che presiedettero al suo impiego.

Cosicché per le stesse ragioni dagli artifici impiegati, dalle [p. 137 modifica]stesse arbitrarie interpretazioni delle leggi del colore o dei fenomeni ottici è dato inferire il preciso stadio di criteri tecnici da cui derivano tali materiali adattamenti dei colori, piuttosto che altri, che vi si dovrebbero rintracciare, ove in fatto di queste leggi dei fenomeni luminosi si fosse stato in cognizione.

L’arte non esistendo se non per quanto essa ha di concreto da offrirci ai sensi, appunto per l'impossibilità di destare sensazioni di similitudine plastica mancando la plasticità del mezzo, si potrà sempre indagare sull’opera di pittura l'esistenza del segno eccitatore della impressione intellettuale o fisica che essa ci desta. Che se l'arte per il suo significato estetico; filosofico, morale ci rivela la potenza della mente, la profondità del sentimento, la coltura di chi la condusse, quanto l'epoca che la vide nascere, le influenze di scuola, o l’obbiettività individuale pittorica, non è meno espressiva dal lato puramente tecnico sino a chiarire tutte le condizioni che agirono sull'esecuzione tecnica.

Ed allo stesso modo che da un esame generale e particolare dell'interpretazione data dai vecchi pittori alla verità storica dei costumi, rintracciando qui il casco di un lanzichenecco, là un giubbone spagnuolo, altrove un'impugnatura di spada italiana, sistematicamente ed indifferente- mente applicati sopra scene bibliche, greche o romane, non possiamo pervenire che alla perfetta convinzione di una proporzionata cultura storica ed archeologica, e secondo l’insistenza di tali anacronismi, sino al giudizio sicuro di una ignoranza assoluta in argomento consimile, tanto per l’opera individuale di un artista come per quella di tutta un'epoca, altrettanto rispetto all’interpretazione del colore e degli effetti luminosi, su l’opera isolata o su quella collettiva di un'epoca e di varie epoche, con criteri tecnici adeguati all'esame, sarà possibile pervenire ad un giudizio esatto sull'entità [p. 138 modifica]tecnica di un'opera d’arte per quanto appartenente ad un lontano passato.

Così le sensazioni di grande, di piccolo, di morbido, di secco, di azzurro o di rosso, di bianco o di nero, di orizzontale o di verticale, di quiete o di moto, non possono razionalmente essere destate che da concrete ed accertabili corrispondenze plastiche. Ciò che vi può essere di discutibile sarà il grado di tali elementi positivi quando difettino mezzi di misura assoluta, ma per via di comparazioni fra materiali analoghi, col raffronto di opere, colla guida dei trattati teorici e pratici dell'epoca alla quale appartiene un dipinto è possibile sempre di sviscerare la costituzione tecnica di una pittura, tanto più se l'indagine sia mossa da un sincero amore di verità e da un vero interesse del progresso dell’arte.

L'arte dei rapporti dei toni è stata grandissima negli antichi ed anche la conoscenza dei loro materiali, per la più lunga durata dei colori, onde si vuole subito esclusa l’alte razione prodotta dal tempo come argomento d'opposizione al fatto che il senso di oscurità che pervade le opere antiche si debba attribuire ad un annerimento sopravvenuto, tanto più quando l'esame si porti tanto sui quadri dalle più chiare intonazioni eseguite col processo a tempera, come sopra quelli dipinti ad olio, e fra questi si eserciti l’analisi così sui tenebristi1 che i loro rivali della stessa epoca vagheggianti i più brillanti e chiari colori — dipendendo il senso di oscurità del quale si fa discorso, dall’applicazione della teorica allora dominante, nella quale l'elemento luce ritenevasi rappresentato dal bianco della tavolozza per sè come l'oscurità vi era rappresentata dal nero — e per la [p. 139 modifica]vibrazione luminosa ossia per quel senso di luce che oltrepassa l'aspetto comune del bianco, provvedendosi coll’esclusivo mezzo di restringere i bianchi contrapponendovi la più ampia ed intensa oscurità possibile, rappresentata conseguentemente dal nero.

Ed esaminate le tecniche dei tenebristi e dei loro oppositori, emerge cori evidenza il concetto più giusto dell’effetto luminoso in quelle oscure tele dove i tocchi chiari si mostrano senza tante ripetizioni e rialzi artificiosi, essendovi condensata tutta la elaborazione meccanica nelle ombre. Segno che l’artista era già sin dall’inizio della sua opera persuaso che il senso di luce dei suoi chiari non poteva essere espresso per le qualità che aveva in sè il colore materiale, ma non poteva risultare come efficente di senso luminoso finché dall’ombra non fosse raggiunto un determinato contrasto. Mentre quei fiacchi pittori che furono il D'Arpino e gli Zuccheri ed i Barocci, amanti delle ombre chiare e molto riflessate, per un malinteso senso decorativo dell'effetto luminoso, tormentavano la parte dei lumi sopraccaricandole di colore sino a far gonfiare la tela che li sostiene, giacché tale rigonfio è la conseguenza, immancabile col tempo, della parte della tela che è più contratta dal colore sostenuto.

E ciò indica in modo manifesto che questi pittori, distribuito il loro effetto generale del quadro complessivamente chiaro, sentivano che i lumi, o diremo meglio i bianchi che dovevano funzionare come lumi, mancavano di vibrazione. Né potendosi questa ottenere, cogli impasti, se non per forti contrapposti di nero, istintivamente ritornavano col pennello carico di nuovo bianco sui punti chiari, esaurendo così le risorse della tavolozza dal lato dei chiari senz'altro risultato che di ingrossarne lo strato ed altresì la visibilità come semplice materiale, che è il senso rimasto [p. 140 modifica]definitivamente a tali opere e comune a tutti i dipinti siano antichi o moderni, ad olio, tempera, affresco o pastello, quando, per accentuare la sensazione luminosa, non vi concorra la scomposizione dei colori, secondo la legge dei contrasti complementari, ad innalzare le tonalità chiare a potenza di luci vibranti.

Attraverso il velo semioscuro che involge tutti i dipinti antichi affetti da ricerca di luce, velo attutito dal raccoglimento di luce speciale e dall'addobbamento oscuro che distingue i musei dell’arte retrospettiva, e senza del quale artificio, la maggior parte delle opere espostevi non darebbero che l'impressione di vani tenebrosi aperti nelle pareti, la memoria di effetti vibrati di luce non può cadere che su quei soggetti circoscritti in modo da simulare piuttosto le accidentalità di luce artificiale, come lampade, candele, torcie o fuochi. Delle quali si compiacquero particolarmente i pittori fiamminghi, ed il cui risultato impressionante dipende esclusivamente dalla fitta oscurità che circonda il soggetto illuminato. Quadri, che generalmente dai pittori si guardano con mediocre interesse, ben sapendosi da loro di quale maggiore difficoltà sia la imitazione della luce diurna, il che è altresì prova implicita che evidenze luminose simili, ma nel campo della normale e più ampia luce del giorno non presenta l’arte antica, perché non fosse altro che per essere la luce diurna molto più vibrante di quella di qualsiasi lume artificiale, il ricordo di tali dipinti resterebbe assai più impresso nella nostra memoria.

Un'altra maniera di accertare l'eccesso di nero nel quale fatalmente dovevano cadere gli stessi pittori che occupandosi particolarmente della luce dovrebbero lasciarcene i ricordi più vivi e non il senso opposto, si presenta in quelle gallerie che possedendo varie opere dello stesso autore offrono l'opportunità di confrontare scene rappresentanti [p. 141 modifica]l'aperto con scene di luoghi chiusi, rilevandosi come le intonazioni complessive non diano nessun’idea del distacco immenso che separa l’ambiente chiuso dall’aperto, ed effettivamente la distinzione che possiamo fare di luogo circoscritto da pareti da quello senza confini dell'aria libera non si faccia strada in noi che per gli oggetti differenti riprodotti in quei dipinti, essendo naturale che dai verdi e dagli azzurri, dalle nubi, dagli alberi, dai fiumi e dai prati o dalle montagne, non abbiano da derivare idee analoghe a quelle che ci producono mobili ed architetture, ma, conseguentemente, neanche sensazioni di verità oggettiva, perché mancando il contrasto proporzionale tra la luce dell’aperto e l'oscurità del chiuso la sensazione luce non può ragionevolmente essere provocata.

Nei dipinti ad olio, sempre degli stessi autori e pure di scene all'aperto, se la causalità li pone a contatto con scene d'interno dipinte a tempera da qualche quattrocentista, si osserverà sempre che l’opera dei luministi, che a tale categoria indubbiamente appartengono, il Caravaggio, il Tintoretto ed i Caracci, quanto il Guercino ed il Ribera con una lunga schiera d'imitatori, si mostra invariabilmente nella sua intonazione complessiva, sempre più scura di quella. E non essendo il veicolo oleoso che impedisca al pittore di scegliere i colori più chiari della sua tavolozza, che, sebbene preparati ad olio, ne possiede tanti di chiari da disgradare la tempera ed il pastello, bisogna pure anche per questo convenire che tali quadri sono scuri perché tali uscivano dalla mano dell’artista anziché per un sopposto annerimento in causa del tempo, che mai avrebbe potuto operare sì da nascondere un’originaria chiarezza, quale permane nelle tempere più chiare pel solo fatto che furono condotte con colori chiari in un periodo e da artisti non preoccupati da ricerche luminose, fomentate in parte dal processo stesso [p. 142 modifica]di dipingere ad olio, pel quale essendo aumentata l'intensità di molti colori scuri si credette ottenere maggior luce col solo contrapporli a colori chiari.

La Ronda notturna di Rembrandt è ormai dimostrata come un soggetto di piena luce diurna del maggior luminista delle antiche scuole, e rimane pure la più solenne prova della impressione tenebrosa alla quale conducono invariabilmente gli effetti ricavati dal solo contrapposto dei colori chiari con i più intensi della tavolozza.

Si è citato questa notissima opera di Rembrandt come uno dei dipinti antichi che mostrano meglio d'ogni altro l'eccesso di scuro nel quale poté cadere quel ricercatore famoso di sensazione luminosa, sforzando un mezzo tecnico per sé inadatto a produrre la vibrazione che pure esiste nel vero nelle intonazioni chiare, perché appunto essendo quel soggetto un argomento nel quale la chiarezza complessiva del quadro avrebbe dovuto esserne il tratto emergente, esso è all'opposto così oscuro da essere stato scambiato per secoli con un effetto di notte.

Ma non si crederebbe che Rembrandt non fosse ancora contento degli scuri che aveva raggiunti colla propria tavolozza. E si racconta infatti che egli un giorno arrabbiatosi di non potere ricavare dai suoi colori un nero più intenso del massimo ottenuto, sfondasse con un pugno formidabile la tela in lavoro e guardando poi lo squarcio che distaccava in maggior nero sul dipinto, esclamasse: ecco, avrei avuto bisogno di un nero simile per ottenere l’effetto che volevo!

Certo che con un nero maggiore sarebbe aumentato il brillante dei lumi del dipinto, ma il senso di analogia del dipinto, così artificiosamente costituito rispetto al vero, avrebbe senza dubbio prodotto un'impressione sfavorevole piuttosto che di ammirazione, per quanti tesori di abilità vi avesse versato quel sommo artista. [p. 143 modifica]

Se dalle opere antiche che mostrano ad una ricerca speciale degli effetti di luce si viene a dimostrare che il con- trasto del bianco col nero era l’unico modo per interpretare pittoricamente la vibrazione luminosa, non meno esplicitamente risulta dalla disamina dei trattati che furono guida teorica degli antichi maestri.

Le osservazioni sulle: luci e le ombre ed i colori raggruppate dagli antichi nel trattato della pittura, fondamento teorico e. guida pratica alle opere di tutti i grandi maestri del passato, non si poterono avvantaggiare dei principî e delle applicazioni derivate dalla scoperta della decomposizione della luce e della proprietà dei colori complementari, sia per l’intelligenza del fenomeno luminoso nei suoi molteplici asperti colorati che per la conoscenza del migliore rapporto fra le materie coloranti e le luci ed i colori reali.

Il sistema dell’Alberti ed i precetti Vinciani, che formano ancora la miglior teoria del chiaro-scuro, finché si contengono alla considerazione dell'effetto luminoso contemplato nei suoi estremi di luce ed ombra, corrispondenti tecnicamente al bianco e nero materiale di cui dispone il pittore, si possono dire completi, sorretti come sono altresì per la determinazione degli spazi occupati sulla superficie dei corpi dalla luce e dall’ombra, dal duplice sussidio della prospettiva e del metodo di descrivere le ombre che ne è corollario. Ma rispetto alle parvenze colorate il passato non ebbe altra guida che l’intuito artistico e l'esempio dei maestri pure operanti per individuale criterio. Condizioni queste che, per quanto posto si voglia fare alle più felici costituzioni artistiche, non potevano condurre ad ammaestramenti più sicuri di quelli che permettessero gli intuiti artistici volti alla interpretazione degli effetti prospettici e delle apparenze esteriori anatomiche, quando prospettiva ed anatomia non erano ancora entrate fra le scienze positive. [p. 144 modifica]

È troppo noto doversi a Snell, Descartes, Newton ed altri molti scienziati del diciassettesimo secolo la base scientifica dello studio della luce e dei colori che, con Helmholtz Bruke e Rood, quasi a noi coetanei, stese le sue diramazioni al campo della pittura, e da ciò l' inutilità di dover dimostrare che né Leon Battista Alberti, né Leonardo, né il Lomazzo, né Raffaello Mengs, indubbiamente i maggiori teorici dell’arte che già fu, nulla insegnarono in proposito; né possono dare appiglio di supposta cognizione di decomposizione della luce e di complementari e contrasti gli accenni ad opposizione di bianco e nero, di colori caldi e freddi, distacchi o risalti di rosso e verde, di giallo e violetto, che a sbalzi s'incontrano negli antichi autori, i quali non potevano naturalmente spiegare e ricavare deduzioni da ciò che non era ancora noto, a meno che non si voglia dire col Venturi che se gli antichi pittori usarono dei contrasti, essi non lo potevano fare con maggiore fondamento di quello col quale le donne di gusto li intuiscono quando si tratti di far risaltare le guarnizioni dei loro vestiti2.

Leon Battista Alberti nei suoi tre libri della Pittura, fra gli scrittori di pittura precedenti Leonardo il solo che dimostri un fondamento scientifico, dà per dimostrato che il lume sia bianco e debbasi rappresentare per (mezzo del bianco siccome l'ombra per mezzo del nero; gli altri colori non essendo da stimarsi che per la materia, con i quali si aggiungono le alterazioni dei lumi e delle ombre, onde tutta l’attività dell'artista deve concentrarsi nel bilanciamento del bianco e del nero.

La base scientifica dell’Alberti relativa alla luce ed i colori è scientifica s'intende quanto poteva esserlo per le [p. 145 modifica]cognizioni del tempo, in cui non si riteneva ancora bene determinato nè utile a sapersi se i raggi luminosi partissero dal nostro occhio pet correre agli oggetti o da questi concorressero all'occhio per destarvi le sensazioni di forme e colori. Ed i pittori a detta dell'Alberti dovevano accontentarsi di sapere che « i colori sono quattro come sono quattro ancora gli elementi dai quali si cavano molte e molte specie. Poiché egli è quello che par di fuoco, per dir così, cioè il rosso e poi quello dell'aria che si chiama azzurro, quel dell'acqua è il verde, e quel della terra ha il cenerognolo »3. Definizioni che naturalmente non alterano il valore delle osservazioni interessanti da lui fatte sui rapporti fra i lumi e le ombre e le gradazioni dei colori, ma che mostrano abbastanza quanta via vi fosse ancora da percorrere per giungere alle nozioni odierne sulla luce e sui colori e come le incomplete deduzioni che si ricavano da incomplete od erronee premesse dovessero riverberarsi anche sui suoi dettati relativi alla pittura.

Leonardo da Vinci, nel Cap. CLXI, che tratta degli effetti dei miscugli dei colori, senza definire propriamente i rapporti dei colori d’uso del pittore colle luci naturali, stabilisce con poco divario dall’Alberti che « Dei colori semplici il primo è il bianco, il giallo è il secondo, il verde il terzo, l'azzurro il quarto, il rosso il quinto, il nero il sesto ». E il bianco pone per la luce « senza la quale nessun colore veder si può, il giallo per la terra, il verde per l’acqua, l'azzurro per l’aria, e il rosso per il fuoco, e il nero, per le tenebre che stanno sopra l'elemento del fuoco ». Ed al Cap. CKXXVII che si può dire il fondamento del contrasto seguito dalle antiche scuole insegna « che li campi che convengono all’ombre ed a lumi ed alli termini illuminati o adombrati di [p. 146 modifica]qualunque colore faranno più separazione l’uno dall'altro se saranno più vari, cioè che un colore oscuro non deve terminare in altro oscuro ma molto vario, cioè bianco: e ancora:« La cosa bianca si dimostra più bianca che sarà in campo più oscuro ».

Il Lomazzo non ebbe cognizione sicura del trattato di Leonardo che tuttavia corse manoscritto fra gli artisti se non colla facilità portata dalla stampa, abbastanza però da non potersi dire sconosciuto avanti la prima pubblicazione fattane dal Dufresne nel 1651, poiché nella Teorica della Pittura del lucchese Antonio Franchi, l'autore dice di aver letto il Trattato del Vinci « da un manoscritto, uscito dalle mani del gentile Guido Reni dopo la sua morte » e tutto il volume primo del Trattato del Lomazzo non apparisce infatti che una parafrasi delle massime dell’Alberti, ma sommerse nel diluvio metafisico, astrologico e storico del cieco scrittore, il quale tuttavia, nel campo dell'ottica, riflette esattamente le nozioni e le idee generali del tempo. Né si deve ritenere che le idee del Lomazzo non portassero il loro effetto e non avessero accoglienza, che il suo trattato della pittura, uscito nel 1585, era già esaurito all'epoca del Domenichino, segno non trascurabile della considerazione nella quale fu tenuto.

Così il Lomazzo verrà dicendo dei colori « che due sono estremi, e come padri di tutti gli altri e cinque mezzani ». Gli estremi sono il nero ed il bianco ed i cinque mezzani sono il pallido, il rosso, il purpureo, il giallo ed il verde. Quanto all'origine e generazione dei colori, la frigidità è la madre della bianchezza ed a produrla vi concorre la moltitudine del lume. Il calore è padre del nero, e nasce dalla poca quantità del lume e dalla molta caldezza. Il rosso si fa dalla mescolanza del bianco e del nero. Il violaceo ovver pallido fassi di molto bianco e di poco rosso. [p. 147 modifica]Il croceo, cioè il giallo, si fa di molto rosso e poco nero, ed il verde, di poco nero e molto rosso »4 .

Raffaello Mengs, è il primo che si ponga nettamente avanti agli occhi il rapporto fra le materie coloranti e gli effetti naturali da riprodurre. « La pittura » (dice il Mengs5), « imita l'apparenza della natura, mediante i cinque colori sopradetti, che servonle di materiali, e sono il Bianco, il Giallo, il Rosso, l’Azzurro ed il Nero. Benché il primo e l’ultimo non siano effettivamente colori, deve nondimeno il pittore considerarli come tali per la grande utilità che egli ne trae per rappresentare la luce e le tenebre, poiché in quest'arte non abbiamo altro mezzo da rappresentare queste due qualità, ed anche con questo non si conseguiscono che imperfettamente.

« Siccome il nero nella pittura non è in sé più tenebroso di qualunque altro corpo meno illuminato, ci vuole un'arte particolare per fare che il nero dipinto comparisca priva- zione di luce.

« La stessa difficoltà, anzi molto maggiore, si trova nei lumi, perché la tavola dipinta non si può vedere se non in positura tale che il lume che essa riceve non riflettasi agli occhi del riguardante, altrimenti farebbesi uno specchio della luce e dell'ombra, e i lumi comparirebbero chiarissimi più o meno, secondo che la superficie sarà tersa, e siccome i lumi dipinti non possono essere, per quanto sieno bianchi se non che della chiarezza d'una mezza tinta di un corpo bianco, per conseguenza il pittore che voglia imitare un corpo di superfice tersa o liscia da riflettere luce, ha bisogno di moltissimo artificio ».

Però anche il Mengs non intravede possibilità di dare [p. 148 modifica]vibrazione luminosa al bianco se non pel contrapposto immediato del nero. « Se il pittore facesse un quadro di bianco semplice e di nero, risulterebbe un tutto smorto, perché sarebbe uniforme; poiché sì il bianco che il nero escludono qualunque altro colore, uno in luce, l'altro in tenebre: ma se di questi due egli si serve proporzionatamente, secondo l’idea che vuol rendere comprensibile, adoperando ora il più nero o il più bianco e ora la mezza tinta, farà, non ostante l'uniformità di questi due colori, una sensazione variata. Avvicinando i due estremi sarà forte ed aspra, mettendo fra l'una e l’altra grande intervallo di mezze tinte sarà più dolce, e ponendo ciascun grado sempre a fianco del più prossimo e distinguendolo solamente quanto basta per distinguere gli oggetti, tale opera sarà soavissima ».

Non è certamente la mancanza di comprensione della differenza enorme che esiste fra luce vera ed il bianco in possesso del pittore quella che risulta dalla consultazione diretta degli antichi trattati, ma l'affermazione costante che nel bianco e nel nero rappresentandosi l’estremo limite di luce ed oscurità concessi come mezzi materiali al pittore per interpretare la vibrazione luminosa, l’arte non poteva fare altro che spingere il contrasto del bianco col nero alla sua opposizione massima, cioè restringendo il bianco ed ampliando la superfice del nero per raggiungere questo senso speciale proprio della luce, che nel bianco non è rappresentato a sufficenza perché applicata una: quantità qualsiasi di bianco su di una tela ne scaturisca l’impressione che si dice luce.

Né che si trovi nell'antico trattato accenno di sussidio per tale scopo nei colori complementari, né che di tali colori si abbia un'idea precisa quale non poté essere data che dalla scoperta di Newton, si vede apertamente dalla quantità di autori che dopo Newton discussero delle [p. 149 modifica]proprietà di questi colori e singolarmente dei colori immaginarî, e quindi del contrasto dei colori non si sia mai ordinatamente fatto parola negli antichi autori che scrissero della pittura, comprendendo naturalmente in questi anche il Mengs, -che di proposito deliberato rinunziò a valersi delle cognizioni fisiche del tempo: l'accenno che egli fa alla teoria dei tre colori fondamentali non provando altro se non che tale falsa teoria aveva già messo radici nel campo dell’arte molto tempo avanti che Brewster se ne facesse sostenitore scientifico.

E che non si potesse attribuire altro significato alle esplicazioni dei trattatisti sul rapporto del bianco e del nero colla luce e l'ombra naturale che quello di un'equivalenza che poteva essere raggiunta coll'abbondare nel nero lo dimostrano, come non si potrebbe dippiù, le massime che in trattati meno conosciuti, ma che pure ebbero la loro influenza nella cerchia dell’arte, si vennero ricavando dalle definizioni di bianco e nero, luce ed ombra già dichiarate, e per le applicazioni consone che ne furono fatte dai pittori. Nel trattato di pittura di D'Andrè Bardon, comparso a Parigi nel 1765, si leggono questi precetti alla pag. 114 e seg. « Le masse scure hanno il loro vigore dalla loro estensione piuttosto che dalla loro oscurità e devono essere di tanta maggior vaghezza che esse sono più estese. Ne seguirà che più le masse scure saranno grandi più il quadro sarà luminoso ».

« Le mezze tinte sono le molle più proprie per far muovere una macchina pittorica. Esse servono ugualmente a mettere in rilievo il bagliore delle luci e la fierezza delle ombre. Il volume delle masse di mezze tinte deve essere più considerevole che quello delle luci per il principio generale che prescrive che qualunque massa che sostiene sta più grande che la massa sostenuta, se il sostegno è meno [p. 150 modifica]forte esso non saprebbe sostenere, e se non è che eguale in forza sosterrebbe debolmente.

« Una massa di mezze tinte può servire a stendere quella della luce o a fare opposizione con essa. Nel primo effetto si deve opporla ad un fondo scuro che la "faccia brillare! e può allora essere considerata come una seconda luce. Nell'altro essa deve distaccarsi sopra un fondo chiaro che le darà il valore, la solidità, la consistenza di cui ha bisogno per fare un contrasto che colpisca, ma nell'uno e nell'altro caso la massa di mezza tinta deve essere sostenuta da una massa d'ombra che sta non solamente più considerevole in volume, ma ancora così estesa che la mezza tinta e la luce insieme. Così ha pensato ed operato la maggior parte dei grandi pittori che conoscevano perfettamente la magia degli effetti ».

Se altre interpretazioni, se altri precetti sulle opposizioni della luce e dell'ombra fossero stati argomento dei maggiori trattati, non avrebbero mancato di trarne profitto Richardson, Cochin, D'Arsenne, De Piles, il Franchi, il Milizia, il Baldinucci, che scrissero sulle traccie seguite dal D'André Bardon, ai quali tutti non mancava certamente l'intelligenza dell’arte e l’amore del vero, onde, considerando le condizioni dell’arte e le cognizioni che agli artisti potevano venire dal trattato, nei riguardi della imitazione delle luci e dei colori, si può dire coll’ Algarotti che Newton, « mercé le nuove proprietà da lui viste nella luce, ha con un nuovo cannocchiale perfezionato i nostri sensi »6.

Ma questa condizione in cui fu l'arte antica di non potere interpretare la vibrazione delle luci diffuse, senza trasformarne l’effetto in quello di un lume secondario che dà risalto alle sole prominenze degli oggetti che colpisce, [p. 151 modifica]lasciando il rimanente nella più profonda oscurità, come ne porge esempio spiccatissimo Rembrandt, e in Italia la numerosa schiera dei tenebristi, oltre che risultare dal raffronto materiale dei dipinti e dalla disamina dei principî teorici che servivano di guida alla intelligenza del vero ed alla applicazione dei mezzi della pittura per giungere ad imitarlo, si rende manifesta vieppiù oramai che, essendo note scientificamente le proprietà delle sostanze coloranti e dei meccanismi d’impiego per ridurle da semplici prodotti della natura o dell'industria ad elementi idonei a simulare il comportarsi dei colori del vero, non certamente costituite di biacche,.ocrie od ossidi o solfuri di questo o quel metallo, ma di vibrazioni di luci, è possibile dimostrare che dal solo uso degli impasti e delle velature, la sensazione luminosa non poteva risultare che a scapito della chiarezza generale del dipinto.

Quell’assorbimento o fenomeno di sottrazione di raggi semplici dalla luce incidente, dal quale proviene in genere il colore dei corpi e singolarmente quello delle sostanze coloranti, perché l’uniformità del loro tessuto molecolare sospingendo in un senso unico l’azione che esse esercitano sulla luce, fa sì che anche nei miscugli si verifichi visibilmente questa proprietà di sottrarre e non addizionare luce, d’onde l'oscurità che risulta maggiore, più che si mescolano insieme molti colori, viene favorito o ridotto dal modo meccanico di impiego della sostanza colorante stessa. Ciò ben sapevasi dai pittori antichi, essendo naturale che dalla pratica manuale dei colori, esercitata per secoli da intelligenze avide di ricavarne il partito migliore per l’imitazione del vero, non potessero sfuggire almeno i principali requisiti quanto i principali difetti del materiale continuamente maneggiato, dipendenti dal modo stesso di maneggio. Epperò la norma di non tormentare o pestare [p. 152 modifica]il colore, di cercare di indovinare subito per quali colori si pervenga ad una data tinta, la simpatia stessa che sempre ebbe lo schizzo per la freschezza dei colori, si possono dire nozioni vecchie quanto l’arte di dipingere, ma delle quali malagevolmente gli artisti del passato avrebbero potuto darsi una ragione che non fosse espressa con quella candida semplicità che il Cemini adopera per spiegare che il cinabro, il bianco ed altri colori più si macinano più diventano belli, perché tali colori se l'hanno molto per bene. Né tale ragionamento era fatto che per guardarsi dal perdere la luminosità propria di tali colori, mancando nozioni sul contrasto per le quali il pittore sapesse e potesse riparare e vincere anche. il difetto delle sostanze coloranti che adoperava all'infuori dell'unico noto artificio di accostarvi un colore più oscuro sino al nero, secondo l’opportunità del caso, cadendo così forzatamente in quella impressione che dal pittore d'allora, da tutta la sua epoca e da molte consecutive si diceva luminosa, ma che effettivamente era di oscurità, perché questi effetti di contrapposizione immediata di neri a lumi ‘vivi, è propria delle condizioni di luce limitata, come quella che possiamo ottenere anche di giorno, ma riducendo l'apertura di entrata della luce alla massima ristrettezza, cagione evidente, non di luce e di diffusione di luce, ma di senso di oscurità.

*

*  *

Oltre l'esame delle opere degli antichi luministi e del trattato che ne compendia i principî direttivi, rimane ancora l’analisi dei processi tecnici a dimostrare l'assenza di un effetto, nell’antica pittura, che i mezzi meccanici di adattamento del colore non potevano produrre.

Come sussidio ad alcuni speciali aspetti del vero, quali la [p. 153 modifica]trasparenza, oppure l'intensità colorante, non offerta dai colori della tavolozza presi per sé, gli antichi non usarono che l'impasto e la velatura, epperciò la velatura e l'impasto formano i due artificî di adattamento meccanico del colore, che si riscontrano invariabilmente usati nella pittura antica, giacché i tratti ed il macchiare interrotto ed anche il punteggio a colori diversi, tanto usato nella miniatura, anzi necessario a questo metodo di pittura, non sono che modalità concorrenti all'effetto dell'impasto, o fusione delle tinte, adoperati dagli antichi per quelle pitture che si dovevano vedere ad una distanza maggiore di quella che si dice il punto di veduta naturale per abbracciare collo sguardo tutto il dipinto. Modalità dalle quali deriva un effetto diverso da quello che effettivamente risulti dall'impasto propriamente detto, ma sulle quali non si era fissata menomamente l’attenzione dei pittori antichi per ricavarne vibrazioni luminose, meno poi per regolarne l'uso con speciali norme.

Allo stesso modo dunque che analizzando le sostanze coloranti, si è dimostrato non essere queste passibili di aumento di intensità luminosa pel fatto dei miscugli, dovremo riscontrare nel meccanismo dell’impasto e della velatura, la stessa impotenza a condurre i colori verso una luminosità superiore di quella che essi presentano nello stato di prodotto naturale o industriale, ossia come vengono posti sulla tavolozza, perché se dall’impasto e dalla velatura potesse mai venire alle sostanze coloranti quella vibrazione luminosa che l’artista cercò sempre di conferire ai suoi colori oltre quella insita dei bianchi, dei gialli, dei rossi, dei verdi, degli azzurri, ecc., coi quali si accingeva all'interpretazione delle luci vere, egli avrebbe con tali mezzi sciolto il suo problema senza dover ricorrere a quell'eccesso di nero che resterà sempre il difetto dei colori materiali a qualunque perfezione possa mai essere condotta [p. 154 modifica]l'arte di fabbricarli, e qualunque sia mai l'abilità posta a disposizione del loro impiego ad impasto od a velatura.

L’impasto e la derivata voce impastare il colore è termine tecnico, che serve tanto per distinguere l'atto del mescolare le varie sostanze coloranti per formare le tinte, sia in separati recipienti che sulla tavolozza, quanto per indicare la fusione dei colori operata dall'artista sul dipinto. Indica altresì il risultato stesso della fusione stando al giusto punto di veduta del dipinto. Nell’un caso o nell’altro l'impasto ha per risultato tanto la fusione dei singoli componenti del tono o tinta, che del meccanismo del pennello usato dal pittore per ottenere questa fusione.

L'impasto dei colori nel significato comune che si vuole qui analizzare, senza fare questione se si tratti di una piccola o di un'ampia superficie contenente molti toni fusi assieme, perché infine l'impasto conduce sempre ad un effetto unico che è quello di togliere la distinta percezione dei varî colori che hanno servito a comporre il tono, è appunto questo meccanismo di unione di due o più colori che dà luogo ad un colore diverso dai componenti, o che frammischiandoli, modella un oggetto, ma tale, come si è già detto, ed è caratteristico dell'impasto, da togliere all'occhio del riguardante il dipinto dal suo giusto punto di veduta, l'esatta distinzione dei colori e del meccanismo che hanno servito al miscuglio.

L’impasto sottintende, nella generalità dei casi, l’impiego dei colori che hanno corpo, ossia quelli dotati di tale facoltà coprente da non lasciare trasparire il fondo d'appoggio del colore stesso, per distinguere così nettamente l'impasto dalla velatura. Sebbene da quanto si è detto risulti abbastanza che cosa si intenda in pittura colla parola impasto è tuttavia necessario qualche schiarimento per togliere ogni incertezza sul [p. 155 modifica]mezzo tecnico che si dice impasto quando con tal voce si vuole indicare, come ne è qui il caso, il mezzo tecnico privo della proprietà di riprodurre gli effetti di addizioni delle luci e dei colori del vero.

Ed è importantissimo precisare in che consiste essenzialmente l'impasto dei colori, perché ad ottenerlo in pittura si possono percorrere diverse vie pure rimanendo inalterate le sue proprietà intrinseche e il significato che comunemente gli si attribuisce.

Infatti l’effetto dell’impasto si ottiene sia mescolando la quantità di colori occorrenti finché si veda risultare il tono voluto che tale si applica alla parte da dipingere, avendosi così un effetto che, tanto visto da lontano che da vicino, non presenta diversità interessante dal lato tecnico, sia pennelleggiando sul quadro coi colori componenti il tono, finché avviene la fusione in una tinta unita e senza traccia di meccanismo ma solo dal punto di veduta del dipinto. L'effetto di questi due modi meccanicamente differenti di pervenire al tono è identico, giacché l'importante da rilevare nell'impasto, non è il modo d'impiego materiale del pennello per sé, ma il risultato dal punto nel quale si gode completamente l’effetto.

Ora se il prodotto della mistione di due o più sostanze coloranti eseguita col pennello sulla tavolozza o sul quadro sospinge ciascuno dei componenti ad una diminuzione della intensità luminosa che gli era propria avanti di essere mescolato con altri colori, altrettanto avviene quando si opera la fusione di molti toni così composti, per mezzo della distanza, e perciò l'impasto, s'intenda con questo l'atto meccanico del mescolare i colori sulla tavolozza o quella fusione che la distanza ‘opera sui toni riuniti dal pittore nel suo dipinto, la conclusione è sempre una, essendo implicita nell'impasto stesso l’inettitudine, come mezzo pittorico, a [p. 156 modifica]rimediare al difetto intrinseco delie sostanze coloranti di assorbire luce, poiché, per le ragioni già dette, l’impasto non faccia che aumentare la perdita di intensità luminosa dei colori più che all'impasto si faccia ricorso.

Concretando un caso dei più comuni, si abbia da imitare dal naturale un verde, il cui colore più prossimo della tavolozza sia il verde smeraldo, senza che questo ne raggiunga né l'intensità colorante, né l'intensità luminosa. Non corrispondendo completamente questo verde al senso che il pittore riceve dal colore naturale, egli procederà tosto alle miscele che giudica opportune per modificarlo così da renderlo simile al verde del vero che si propone di imitare. Sarà un verde più scuro, o dell'azzurro, o del nero che potrà dare l'intensità colorante ricercata, ma questi colori lo potranno fare però soltanto a prezzo di allontanare vieppiù il verde risultante dalla intensità luminosa che aveva appena preso dalla tavolozza; dapprima, perché un colore. più è intenso e meno è luminoso, poi perché si sono fatti dei miscugli. Converrà dunque che il pittore ricorra al bianco, rappresentante, secondo la vecchia teorica, la luce disponibile del pittore. Ma per l'effetto dell'assorbimento, qualunque quantità di bianco potesse aggiungere il pittore al suo verde non potrà che sottrarre elementi di luce, e l'intensità luminosa di questo verde anziché aumentare verrà a decrescere, e la tinta in luogo di accostarsi al suo modello se ne allontanerà maggiormente, in causa dei miscugli, cioè delle sottrazioni di intensità luminosa che si è già dimostrato derivare fatalmente più che si mescolano sostanze coloranti a sostanze coloranti. Né il tentare di raggiungere l’imitazione con altri colori sarebbe partito da prendersi, perché aumentando le miscele, l'intensità luminosa della tinta non farebbe che peggiorare.

Colla pittura ad impasto o a velature per dare ad un [p. 157 modifica]colore un aumento di intensità luminosa, quando questo colore non si trova fra quelli che sono nella tavolozza non vi ha che un modo che è quello di aumentare il tono del fondo sul quale poggia il colore che si vuole modificare sino che, stabilito un certo rapporto per il contrasto, la luminosità cercata può dirsi sufficentemente raggiunta. Però l'impressione complessiva nel supposto caso del verde non sarà simile a quella risultante nel vero, giacché uno dei rapporti è stato alterato e la presenza sul dipinto di un tono più scuro di quelli esistenti nel vero non potrà che dare al dipinto un senso maggiore di oscurità passato dal verde al colore circostante, ma in ogni modo sempre coefficente di oscurità. Nell’impasto è dunque accertata l'inettitudine a costituire per sé un mezzo utile di aumento d’intensità luminosa della sostanza colorante, perché, l’impasto non sia che miscuglio dei colori, quel miscuglio che, ripetutamente si è dimostrato, conduce alla oscurità tutte le sostanze coloranti che ne sono fatte oggetto.

La velatura, invece, è quella disposizione dei colori per la quale tanto l’intensità colorante che l'intensità luminosa della tinta si ottengono dalla riflessione della luce operata da un fondo chiaro coperto da uno strato di colore trasparente.

Non tutte le sostanze coloranti si prestano ad essere adoperate in questo modo, specialmente allo stato secco, quantunque tutti i colori in strato sottilissimo siano trasparenti e su di un fondo resistente all’attrito sia sempre possibile distribuire una tenue superfice d'altro colore anche allo stato secco.

Ma, per il godimento di tutte le prerogative della trasparenza, il processo meccanico della velatura viene facilitato dallo sciogliere il colore che si vuole ridurre trasparente in un liquido adatto all’unità del processo di esecuzione [p. 158 modifica]del dipinto, per cui genericamente per velatura si intende sempre un colore applicato in strato più o meno denso coll’intervento di un liquido.

L'aspetto risultante da simile disposizione del colore è tutt’affatto diverso da quello dell'impasto e basta per dimostrarlo il caso più semplice della velatura su fondo bianco.

Distendendo, dunque, un leggero strato di colore liquido, sia, p. es., di lacca rossa, su di un fondo bianco, la materia colorante rossa, diradata così da non dare più campo a riflessione di luce bianca alla propria superfice, non è più visibile per sé, ma per quella luce che dal fondo, attraversando la sostanza della lacca, potrà pervenire a noi modificata in rosso, come se lo strato di lacca fosse un vetro rosso posto contro luce.

Essendo più denso lo strato della materia rossa soprapposta al fondo bianco, la colorazione si presenterà sempre più intensa, perché, permanendo la natura porosa della materia rossa ed essendo sempre nulla la riflessione di luce bianca della sostanza rossa istessa, la luce del fondo, quella sola che scorgiamo, mostrerà sempre meno il suo bianco, proporzionatamente alla densità della lacca.

Nella velatura dunque non avvengono addizioni di luce, come non succedono nell'impasto, ma l'assorbimento, causa di oscurità, è molto ridotto, non esercitandosi che quello del fondo, se invece di essere bianco è formato da una tinta composta.

Da modalità di effetti così diversi fra l'impasto e la velatura discende che l'un mezzo non può in nessun modo sostituirsi coll’altro, e quando scrostatasi in un dipinto una velatura si tentasse di completare tale guasto con una tinta a corpo, questa vi farebbe sempre macchia, non potendosi del resto concepire come si dovessero confondere due corpi costituiti intimamente in maniera così differente. [p. 159 modifica]

La proprietà principale della velatura essendo dunque quella di eliminare la luce bianca riflessa dallo strato più superficiale del colore, quella quantità di luce bianca che essendo inevitabilmente compagna del colore compatto impedisce che il colore a corpo possa mai raggiungere una saturazione completa, né destare l'idea di ombra che è significazione di assenza di luce, rende giovevole la velatura nelle ombre ed è noto l’uso grandissimo che se ne fece in tale senso dagli antichi pittori, per escludere che essa potesse mai venire considerata come un mezzo per ottenere della intensità luminosa, comprovandosi così che anche nei meccanismi tecnici più usitati dell’arte antica mancava l'elemento tecnico idoneo a trasfondere nel dipinto quella vibrazione luminosa che per necessità di cognizioni, di esempi e di metodi non si seppe ricavare che dal contrasto del bianco e del nero, incontrandosi così l'inevitabile impressione di oscurità nelle opere dove più accentuato fu l'uso di questo artificio, che doveva necessariamente mostrarsi prevalente nei ricercatori di luce vibrata.

Ora è facile comprendere come tutta la teorica di Leonardo da Vinci insegni ad evitare gli effetti di irradiazione della luce dell’aperto preferendo sempre la copia del vero quando le nubi attenuano la chiarezza delle luci, e l'ombre si decidono in masse più grandi e morbide quali permettono di applicare, senza grave urto all'effetto d'insieme, gli studi di chiaroscuro elaborati nei luoghi racchiusi. Così Leonardo stima la migliore delle luci quella inclinata di 45 gradi, e migliore il rapporto di un quarto d'ombra sull'intero dei corpi illuminati, onde la scelta dell’effetto luminoso dei vecchi dipinti si viene a ridurre in una sola formula, com'è veramente, né poteva essere altrimenti, per tutte le ragioni dette.

Anzi, ciò che forma il merito ed insieme il carattere [p. 160 modifica]dell’arte antica, fu questo contenere il proprio obbiettivo nella estensione dei mezzi tecnici noti. Preoccupato l'antico artista della forma e dell’espressione, svolse queste nelle condizioni di luce più favorevoli per l’impiego dei colori della tavolozza, secondo le cognizioni del tempo, onde l'arte antica non si risente mai degli stridori e degli eccessi di biacche e giallolini di quei pittori moderni che si sono volti alle grandi vibrazioni luminose dell’aperto senza la conveniente preparazione tecnica.

E di fronte ad una ricerca così spiegata per la forma e l'espressione, quale rimarrà forse insuperata nella storia dell’arte, si spiega come l’effetto luminoso potesse rimanere in considerazione secondaria e potesse bastare un puro accenno convenzionale dei lumi ad eccitare l'idea di una realtà viva e palpitante, come si vede nei disegni antichi stessi, nei quali per solito i segni del gesso essendo affievoliti o scomparsi, noi non proviamo meno la suggestione di vitalità possente e vissuta di quegli atti, di quelle forme, di quei sentimenti, pur espressi con tanta proprietà di mezzi da rendere dimentichi dell'esistenza di ogni altra realtà fuori di quella in cui sa trattenerci la potenza dell'artista.

Nell'arte antica mai il soggetto è concepito in modo che separandolo dall'effetto luminoso non possa interessare per il carattere delle forme accentuate o per il sentimento o la bellezza delle linee e sul quale l'effetto luminoso non compia che un puro riempitivo di decorazione pittorica, e ciò anche fra il numero relativamente ristretto dei luministi.

Le aurore, i meriggi, i tramonti, nessun momento del variabile corso della luce nel giorno, nella stagione, distaccò l’attenzione dell'antico pittore dal suo ideale estetico, e per quanto noi possiamo dolerci di questa unilaterale considerazione [p. 161 modifica]della natura, mancheremmo della condizione prima per un sereno giudizio dell’arte mettendoci da un punto di vista diverso da quello scelto dall'artista, giudicandolo per quello che non ha voluto darci, rilevando, oltre la giusta importanza, il difetto di modalità tecniche per raggiungere la vibrazione luminosa, che le opere, i concetti teorici ed i meccanismi d'impiego del colore provano quasi assente dalla pittura antica.

Ma allorché si considera il nesso che ha il mezzo tecnico coll’effetto da raggiungere, e l'obbiettivo particolare che si propone il pittore moderno, la necessità di dimostrare le proprietà reali della tecnica dell'antica pittura non poteva essere più evidente, appunto perché gli intuiti meravigliosi dei grandi maestri e l'indefessa loro osservazione del vero e l’apice di gloria al quale condussero l’arte non potessero far credere che tutte le risorse immaginabili della tavolozza, tutti gli adattamenti meccanici del colore si fossero esauriti nel multiforme impiego del materiale tecnico che abbraccia la pittura antica.



  1. Epiteto col quale si designarono dai seguaci del cavaliere D’Arpino i ricercatori di effetti di chiaroscuro.
  2. G. Venturi, op. cit., pag. 113.
  3. L. B. Alberti, Della Pittura, Milano, 1804, lib. I, pag. 16.
  4. Lomazzo, Trattato della Pittura, Roma, 1844, vol. I, pag. 325.
  5. R. Mengs, Opere, Bassano, 1783, vol. II, pag. 160.
  6. Algarotti, Opere, Edizione dei Classici Italiani, vol. II, p. 243.