I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Gli schiavi gialli

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Gli schiavi gialli

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L'isola di fuoco Il cimitero galleggiante

GLI SCHIAVI GIALLI


Soppressa dalle nazioni d'Europa la schiavitù che rapiva all'Africa, ogni anno, centinaia di migliaia di negri che si vendevano sui mercati d'America, come se fossero bestie, anziché esseri umani, e che si mandavano poi a lavorare nelle piantagioni di zucchero o di caffè a colpi di bastone o di sferza, i trafficanti di carne umana pensarono di surrogare gli africani coi cinesi.

Le navi che prima caricavano sulle coste del Continente Nero, furono dunque inviate nei porti della Cina per imbarcare lavoranti dalla pelle gialla.

Non s'imbarcavano veramente come schiavi, non consentendolo il governo cinese. Si facevano firmare a quei disgraziati dei contratti di cinque o dieci anni, poi si trasportavano in America o nelle isole di Giava o di Sumatra, dove s'impiegavano come coltivatori.

Quali orrori dovevano però subire quei poveri cinesi, prima di giungere nelle piantagioni cui erano destinati! E fossero almeno terminati colà i loro tormenti!

Si chiudevano nelle stive delle navi come belve feroci, accumulandoli alla rinfusa, nutrendoli così scarsamente da farli diventare scheletri, negando una boccata d'aria pura, sicché non di rado scoppiavano malattie, che facevano vere stragi, e sovente su ottocento cinesi, imbarcati a Canton o al Macao o a Shanghai, a malapena quattrocento giungevano vivi.

Tutti gli altri finivano in mare o meglio nelle bocche dei pescicani, i quali non mancavano mai di seguire quelle navi, certi di fare abbondanti scorpacciate di cadaveri umani.

Vi voglio ora narrare una tragica avventura, toccata ad uno di quegl'inumani capitani, che si era dedicato al trasporto dei cinesi.

Si chiamava John Taylor ed era famoso fra i caricatori di carne umana. Aveva fatto dapprima il negriero, trasportando in America parecchie migliaia di negri; soppressa la schiavitù, come tanti altri della sua risma, si era dedicato al trasporto dei coltivatori cinesi.

Cuore non ne aveva nemmeno un briciolo e considerava gli uomini che trasportava come montoni, anzi peggio.

Se fossero stati animali ne avrebbe forse avuto maggior cura.

Appena imbarcatili, li faceva chiudere nella stiva, cercando di metterne più che poteva per guadagnare maggior danaro e non li rimetteva in libertà se non quando, dopo una lunga traversata, giungeva nel posto destinato.

Se scoppiava fra i cinesi qualche malattia contagiosa, John Taylor non se ne preoccupava affatto. Li lasciava crepare senza somministrare medicine e faceva gettare i morti in bocca ai pescicani, come avrebbe gettato loro un osso spolpato.

Di viveri, poi, faceva una tale economia, che quando i superstiti sbarcavano, sembravano più scheletri che corpi umani; ma arricchiva ed a lui questo bastava.

Aveva già fatto parecchi viaggi, quando un giorno gli fu proposto d'imbarcare a Canton ottocento cinesi, che erano attesi da un ricco coltivatore di Giava.

Come di solito, John li fece salire a bordo alla sua nave e li rinchiuse nella stiva, non ostante le proteste dei cinesi, che si trovavano così stretti da non avere nemmanco il posto necessario per sdraiarsi durante la notte.

Il capo degli arruolati, un cinese pieno di energia, che un giorno aveva occupato nel suo paese un'alta posizione, prese le difese dei suoi compatrioti, facendo osservare all'inumano trafficante di carne umana che erano uomini e non già cani.

La risposta fu un tremendo ceffone unito ad un calcio poderoso, che mandò il disgraziato cinese a ruzzolare sulla tolda.

– Sei peggio d'un cane! – aveva urlato il capitano furioso, e che sapeva di essere spalleggiato dalla ciurma.

Wang-koa – tale era il nome del capo degli emigranti – si era rialzato col viso sconvolto da una collera impossibile a descriversi, poi, improvvisamente calmatosi, aveva risposto al capitano:

– Siete il più forte, avete ragione. Io sono un cane.

Ed aveva ripreso la sua solita impassibilità, come se nulla fosse accaduto. Il vendicativo cinese, però, aveva già giurato in cuor suo di far pagare ben cara al capitano quell'ingiusta correzione.

Wang-koa non era al suo primo viaggio.

Un giorno, rapito su una barca peschereccia, aveva anch'egli varcato l'Oceano Pacifico, chiuso in una fetida stiva, in compagnia di altri settecento suoi compatrioti, come lui venduti ai piantatori americani del Perù.

Durante quel primo viaggio maledetto, aveva veduto più d'uno dei suoi compagni di schiavitù morire sotto i colpi di bastone della ciurma spietata.

Aveva sofferto la fame e la sete, aveva per lunghi mesi respirato l'afa opprimente ed ammorbante della stiva, ove giacevano, vanamente imprecando, i suoi fratelli di servaggio, desiderando in cuor suo la morte come un supremo bene.

Poi un giorno era stato trasportato a terra, nelle piantagioni, e là sotto l'ardente sole tropicale, sotto le frequenti nerbate dei guardiani, per otto lunghi anni aveva maneggiato la zappa, curvo sulle zolle brune, che inondava di lagrime e di sudore.

Più volte aveva veduto i suoi compagni di sventura cadere rifiniti dallo stento, o uccisi dalla vampa solare precipitare nei solchi da cui venivano tratti per essere gettati, come bestie immonde, in pasto ai caimani.

E più volte si era sentito prendere da una rabbia folle di precipitare nel fiume o nelle paludi quegli efferati guardiani, quei petulanti agenti dei piantatori, chiedenti alle estenuate braccia dei poveri cinesi lavoro e sempre lavoro e quindi a sua volta uccidersi, e gli era stato freno la speranza d'una futura vendetta.

Spirati gli otto anni del duro servaggio, Wang-koa aveva ritraversato l'oceano, aveva riveduto il suo paese, ma non vi si era soffermato, quantunque entrato schiavo giovane e pieno di vigore, ne fosse uscito invecchiato, curvo, ma pertinace nel suo odio contro i trafficanti di carne umana che avevano prostrato per sempre la sua fibra.

Aveva assunto l'incarico d'interprete a bordo della nave di John Taylor, l'uomo che lo aveva trasportato in America e che passava per uno dei più inumani, pensando che un giorno o l'altro avrebbe vendicato su quel miserabile tutti i patimenti inenarrabili, inflitti ai suoi compatrioti.

L'Alabama – tale era la nave dell'americano – era così partita pei mari del Sud, col suo carico.

Wang-koa, dopo la scena successa, non aveva più osato muovere rimostranza al capitano. Conosceva ormai abbastanza la sua brutalità e lo sapeva capace di non indietreggiare dinanzi ad alcun delitto.

Già, un cinese, per quell'uomo, non valeva più d'un cane.

Le sofferenze erano cominciate pei poveri cinesi rinchiusi nella stiva come le aringhe in un barile.

Viveri scarsi e pessimi, acqua misurata, nerbate a chi alzava la voce per protestare, ferri ai ricalcitranti, pulizia nessuna e anche l'aria perfino misurata.

D'altronde, che cosa poteva temere John Taylor?

La sala d'armi era ben fornita di fucili e di sciabole; i marinari di guardia avevano nella loro guaina il coltello e alla cintura la rivoltella; a poppa e a prora due cannoncini carichi a mitraglia, con la bocca volta verso la tolda, erano pronti a spazzare in un baleno la coperta.

Giù nella stiva non vi era nulla che potesse offrir arme alcuna alla disperazione, perché ogni cinese, scendendo, era stato spogliato e visitato diligentemente; perfino le tradizionali code, decoro d'ogni testa cinese, erano state palpate dalle ruvide mani dei marinari, per tema che nascondessero qualche zolfanello. John Taylor poteva quindi dormire tranquillo fra due guanciali.

Quattordici giorni erano trascorsi da che l'Alabama, che era un pessimo veliero, aveva lasciato Canton, quando una violenta epidemia scoppiò fra i cinesi ammucchiati nella stiva.

Un morbo crudele decimava quei miseri e non passava giorno senza che qualche ventina di cadaveri finisse nelle bocche di pescicani che seguivano la nave, come se avessero fiutato prede abbondanti.

Il capitano, alle osservazioni di Wang, per indurlo a somministrare agli ammalati delle medicine e permettere agli altri di salire in coperta affinché potessero respirare un po' d'aria pura, aveva risposto, scrollando le spalle:

– M'hanno pagato il trasporto e non m'importa nulla giungere a Giava con ottocento o con duecento. Non sono stato già io che ho fatto scoppiare il morbo. Se la cavino come possono; io ho ben altro da fare che d'occuparmi dei tuoi compatrioti.

A quella crudele risposta, una fiamma d'ira era balenata negli occhi obliqui del cinese.

– È la vostra ultima risposta? – chiese coi denti stretti.

– Che cosa vorresti dire con ciò? È una minaccia, forse? Mio caro, ho due cannoni e quaranta marinari che non hanno mai conosciuto la paura.

– Siete crudele! – disse il cinese.

– Sono un onesto trafficante e nulla più – rispose il capitano.

– Sono uomini quelli che muoiono e che soffrono nella stiva.

– Vattene all'inferno e non seccarmi.

E gli aveva voltato le spalle, facendo un gesto di stizza!

Il viaggio continuava ed il contagio invece di scemare aumentava spaventosamente. Per poco che fosse durato, nessun cinese sarebbe certamente giunto nelle piantagioni giavanesi.

Wang, disperato, assisteva impotente a quella strage. L'odio che già nutriva contro l'inumano capitano era giunto a tal punto, che più d'una volta aveva afferrato una scure per ammazzarlo.

L'Alabama era già giunta nei paraggi di Borneo, quando il tempo che fino allora si era mantenuto calmo, improvvisamente si guastò.

Venti impetuosi soffiavano dal nord e ondate immense percorrevano il mare di Solù, battendo poderosamente la nave, la quale faticava non poco a tenere testa agli scatenati elementi.

Il capitano cominciava a impensierirsi, essendo il mare di Solù pericolosissimo per la quantità immensa d'isolette basse e di banchi coralliferi.

Anche i suoi marinari, quantunque tutti scelti ed a prova d'acqua e di fuoco, veri avventurieri, avevano perduto la loro tranquillità; giacché non era solo dalle onde che dovevano guardarsi, bensì anche dai cinesi, che da parecchi giorni si agitavano, minacciando una sommossa.

Wang era forse il solo che era lieto di quelle burrasche che si rovesciavano senza posa sulla nave. Vedeva in quei venti ed in quelle onde due preziosi alleati per la sua vendetta.

La terza notte di tempesta era calata e le tenebre avevano avvolto il mare, il quale muggiva cupamente attorno alla nave, facendola ballare furiosamente.

Un vento impetuoso soffiava, ululando sinistramente, fra le mille corde e le vele, sollevando sempre nuove ondate.

I cinesi, che durante la giornata non avevano cessato d'imprecare e di minacciare, si erano finalmente calmati e dormivano uno addosso all'altro, semiasfissiati dalle pestifere esalazioni che regnavano nella stiva.

Sulla tolda quattordici marinari vegliavano e manovravano col primo nostromo e col secondo ufficiale, cercando di discernere qualche cosa fra quella profonda oscurità, giacché temevano che la tempesta avesse spinto la nave fuori di rotta, portandola verso le temute isole di Solù.

Wang, rannicchiato dietro l'abitacolo di poppa, guardava biecamente il timoniere. Se qualcuno lo avesse ben osservato, gli avrebbe scorto un lampo feroce negli occhi.

Egli pensava certo al momento in cui avrebbe fatto levare a sommossa quella turba venduta e scannati quei prepotenti bianchi, quei diavoli d'occidente, che avevano violato la libertà dei suoi fratelli, e che li portavano ora a morire lontano dal paese natìo.

E l'occasione gli si offriva. La notte era sempre scura e la nave, sempre fieramente sbattuta, rullava faticosamente ed il timoniere era solo e pareva che non facesse caso al cinese.

Padrone del timone, Wang sarebbe diventato padrone della nave.

Ad un tratto un'onda si rovescia in coperta, investe il marinaro e lo sbatte contro la murata.

Un lampo sinistro brilla negli occhi del cinese. Gira intorno ratto uno sguardo felino e, accortosi che nessuno si trova sul cassero, afferra fra le braccia vigorose il timoniere ancora stordito e lo precipita fra le onde.

Il disgraziato manda un urlo.

Si ode un tonfo, poi un grido disperato:

– Aiuto! Aiuto!

Dei marinari accorrono da prora, gridando:

– Un uomo in mare!

– Un salvagente in mare! – comanda il secondo ufficiale. – Sulla tolda la guardia!

Anelli di sughero, pontoni di legno vengono gettati in acqua, mentre un marinaro di vedetta sale fino alla coffa dell'albero di maestra, sebbene, in causa dell'oscurità, vi sia ben poca speranza di scorgere il naufrago.

Ah! Se il caduto fosse stato un cinese, l'Alabama avrebbe continuato tranquillamente la sua rotta, senza punto curarsi del naufrago; ma quel naufrago era un marinaro bianco e trentasei altri erano là, vivi e sani a reclamare imperiosamente con la loro presenza l'assistenza immediata del compagno pericolante.

Mentre i marinari della guardia franca, usciti di corsa, imbrogliavano le vele basse, Wang, legato il timone al rovescio, scivolava silenziosamente lungo le murate. Attendeva la confusione inevitabile, in simili avvenimenti, per scatenare i suoi compatrioti.

E la confusione si era manifestata sulla nave.

I marinari, spaventati dalle stramazzate impetuose che subiva l'Alabama in causa del timone legato a rovescio contro la murata e dalle onde che saltavano sulla tolda e preoccupati dal salvataggio del loro compagno, avevano perduto il sangue freddo e correvano di qua, di là, gridando, tutti comandando e nessuno obbedendo.

Era il momento atteso da Wang.

Si fece rapidamente al boccaporto centrale.

Con una sbarra di ferro, fatta leva sulla catena che univa lo sportello infisso sulla tolda, la spezzò, poi si lasciò cadere nella stiva, mandando un sibilo acuto.

Mentre sulla tolda la confusione era al colmo, entro i fianchi della nave era un agitarsi insolito.

A tre, a cinque, a dieci, a venti i cinesi sbucano tumultuosamente sulla tolda con la frenesia di un branco di lupi uscenti dalle gabbie.

Un urlo terribile echeggia fra le tenebre:

Qwai sai! Qwai sai!1

I cinesi si scagliano a prora ed a poppa, molti inciampano e cadono uno sull'altro, ma altri ne sbucano dalla stiva, imprecando e, sitibondi del sangue dei marinari, spietati strumenti dell'infame traffico, li rincorrono sulla coperta, sotto coperta, sulle sartie, mentre fra i muggiti delle onde ed i fischi del vento si perdeva il grido di:

– Tradimento! Tradimento!

Non muoiono però invendicati, sebbene colti alla sprovvista, quei duri figli del mare.

Il coltello ha buon giuoco in tanto affollarsi di ribelli ed i colpi non cadono invano.

Un lampo abbagliante illumina la tolda della nave: è il cannone di prora che spezza in un attimo dinanzi alla sua bocca fumante schiavi e custodi.

Ma altri cinesi sopraggiungono, incalzano rabbiosamente i temerari, li afferrano, li sgozzano e li buttano in mare, mentre l'Alabama che rolla sempre sotto l'assalto delle onde, versa dai canali di sfogo confuso il sangue dell'oppresso e dell'oppressore.

Ridotti i marinari a difendersi sulle coffe, vengono presi a fucilate dai cinesi che si sono impadroniti delle armi dei morti.

Alcuni tra i colpiti precipitano giù ed altri, intricati nei cordami, penzolano cadaveri come trofei della vittoria sanguinosa.

A prezzo di sangue, i cinesi hanno finalmente conquistato la libertà: del temuto equipaggio più non rimangono che cinque uomini, ai quali con le armi alla gola intimano di guidare la nave in un punto qualunque dell'isola di Borneo, con la malfida promessa della libertà.

Un marinaro viene trascinato al timone, gli altri, a furia di spinte, sono costretti a orientare le vele e uno stuolo di pescatori cinesi, poc'anzi schiavi, accorre alle manovre confusamente, gesticolando, gridando e senz'ordine alcuno.

Le vele sono finalmente spiegate e la nave, quasi obbedendo a malincuore a quell'equipaggio poco pratico e tumultuante, si ripone in cammino, abbandonando quelle acque tinte di tanto sangue.

Sul cassero sovrasta ai ribelli la torva figura di Wang.

Ma mentre i cinesi tripudiano per la libertà acquistata, un uomo, poc'anzi padrone di quei ribelli cenciosi, esce da un nascondiglio della sottocoperta in cui s'era appiattato, e si trascina penosamente verso la santabarbara dove si trova il deposito delle polveri.

È il capitano dell'Alabama, che – più vendicativo del cinese – tenta con un atto disperato, che gli costerà la vita, di far pagare ben cara la vittoria delle sue vittime.

Geme il miserabile dinanzi così baldanzoso e prepotente e versa sangue da un'orrenda ferita che gli ha spaccato la fronte.

A tentoni s'inoltra fra l'oscurità della sottocoperta e dalle sue labbra escono parole rotte di minaccia e di vendetta. S'avanza, tastando con le mani le cose a cui s'appoggia, come chi è cieco e giunge finalmente ad un barile che scoperchia a fatica e vi caccia dentro la mano e palpa la polvere di cui è pieno.

Ma ecco un rumore di passi frettolosi ed alcune torce resinose illuminare l'angusto ripostiglio.

Dei cinesi, insospettiti di non aver trovato fra i cadaveri dell'equipaggio il corpo del capitano, lo cercano.

John Taylor non esita più e scarica nel barile la sua pistola.

Un rombo tremendo, assordante echeggia e una vampa s'alza dalle profondità della stiva, illuminando il mare tempestoso.

L'Alabama è saltata all'aria e cola rapidamente a picco fra un ammasso di cadaveri che le onde trastullano nel gorgo.


* * *


Il domani quattordici cinesi su settecento erano ancora vivi.

Quei disgraziati, scaraventati in mare dall'esplosione, chi sa per quale miracolo, erano riusciti a salvarsi su alcuni rottami del ponte ed a formare alla meglio una zattera, non ostante l'impeto furioso delle onde.

Per un caso straordinario, Wang si trovava fra loro. Quell'uomo, dotato d'un'energia suprema, era riuscito ad aggrapparsi ad un pennone ed a trarsi dal vortice aperto dalla nave affondante.

Raccolti i superstiti sfuggiti allo scoppio, era riuscito a raccogliere altri rottami ed a formare quella zattera.

Mancavano d'acqua e di viveri, ma sapevano di non essere lontani dalle isole di Solù che l'equipaggio dell'Alabama si aspettava d'incontrare da un momento all'altro sulla sua rotta.

Wang non si perde d'animo.

Incoraggia i suoi compatrioti, promettendo loro una prossima salvezza, improvvisa con un pennone un lungo remo che potrà servire da timone, fa innalzare un albero e spiegare una vela trovata ancora appesa ad un troncone d'albero che le onde spingevano a casaccio attraverso il mare di Solù e cerca dirigersi verso oriente.

Ahimè! La terra doveva essere ancora ben lontana! Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre e pel fosco orizzonte non si delinea ancora alcuna scogliera.

La disperazione invade quei miseri. La fame, e soprattutto la sete, strazia atrocemente le loro viscere.

Essi pensano che sarebbe stato meglio morire fra lo scoppio tremendo delle polveri che sopravvivere per soffrire ancora.

Solo Wang non dispera ancora ed interroga per ore ed ore l'orizzonte.

Già il quarto giorno sta per passare e già alcuni, più affamati, fanno la proposta d'estrarre a sorte chi dovrà essere mangiato pel primo, quando un urlo echeggia a prora:

– Una vela! Una vela!

Un punto bianco è comparso là dove il mare e l'orizzonte si confondono e quel punto ingrandisce rapidamente.

Sì, dev'essere una nave.

La speranza di venire finalmente raccolti rianima tutti. Si strappano di dosso i cenci che li coprono e l'inalberano al disopra della vela e mandano urla formidabili, che si espandono lungi sul mare diventato ormai calmo.

La nave segnalata si avvicina. È un gran veliero a tre alberi che porta sull'albero di maestra il lungo nastro rosso delle navi da guerra.

Il suo equipaggio ha già scorto la zattera e forza le vele per raggiungerla senza indugio, immaginandosi, forse, che gli uomini che la montano siano già alle prese con la fame.

Due ore dopo i superstiti dell'Alabama si trovavano sulla tolda d'una nave da guerra giapponese, che tornava dalle isole della Sonda, diretta verso le coste cinesi e sette giorni più tardi Wang ed i suoi compatrioti rivedevano Canton, la loro città natale.

La tragica fine dell'Alabama e degli emigranti cinesi aveva prodotto un profondo effetto sui membri del governo cinese.

Da quel momento il traffico di carne gialla fu severamente proibito in tutti i porti cinesi, sottraendo da certa morte migliaia e migliaia di esseri umani, e gl'inumani capitani furono senz'altro respinti con minaccia di sequestrare le loro navi e di arrestare gli equipaggi se avessero osato ripresentarsi.

Così l'infame tratta ebbe termine. Oggi anche i cinesi possono espatriare; ma non sono più considerati come schiavi.

La tratta dei negri è finita e quella dei gialli pure, e speriamo che non ritorni più mai a rifiorire pel decoro dell'umanità.


Note

  1. Maledetti stranieri!