I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il re degli antropofaghi

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Il re degli antropofaghi

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Le valanghe degli Urali Nel paese dei diamanti

IL RE DEGLI ANTROPOFAGHI


Avete udito parlare dell'Oceano Pacifico? Un mare immenso, il più vasto di tutti quelli che si vedono sul nostro globo, che bagna contemporaneamente le coste di tre continenti: l'asiatico, l'americano e l'australiano, ricco di miriadi d'isole d'ogni dimensione: ecco l'Oceano Pacifico.

L'hanno chiamato Pacifico perché Magellano, navigatore portoghese ai servizi della Spagna, percorrendolo per la prima volta, non ebbe mai ad incontrare burrasche.

Non crediate però che sia veramente sempre tranquillo! Al pari degli altri oceani ha le sue tempeste e forse queste sono più violente che altrove.

Come vi ho detto, questo mare sconfinato contiene nel suo seno un numero infinito d'isole, formate per la maggior parte di rocce costruite dai coralli e dalle madrepore, ricche d'ogni specie di piante.

Vi sono alberi del cocco; alberi del pane che vi forniscono una polpa migliore delle nostre pagnotte perché ha il gusto dei carciofi; alberi del sagù che contengono nel tronco una farina molto nutritiva, eccellente per fare delle zuppe; dei banani gustosissimi che nascono senza coltura e delle patate dolci di dimensioni mai vedute nei nostri climi perché pesano talvolta perfino cinquanta libbre.

Si può dire che su quelle terre benedette dalla natura, la vita costa nulla. Basta entrare in una foresta per aver pane, frutta e anche vino a sazietà, ricavandosi anche questo da certe specie di palme chiamate appunto vinifere.

Eppure con tanta abbondanza, gli abitanti sono d'una ferocità incredibile e, orribile a dirsi, vanno matti per la carne umana.

Tutti i prigionieri che cadono nelle loro mani, durante le loro sanguinose guerre, senz'altro vengono messi allo spiedo e divorati come fossero, né più né meno dei conigli o dei quarti di vitello.

Se poi una nave ha la disgrazia di naufragare sulle loro terre, i marinai vengono inesorabilmente uccisi e mangiati. Solo rarissime volte concedono la vita a qualcuno e quel qualcuno sovente, invece di finire su di un braciere... viene nominato re!...

Ora state a udire come un marinaio, che più tardi ho conosciuto in una città della California, da semplice mozzo fosse diventato anche lui re di un'isola d'antropofaghi.

È un'avventura veramente straordinaria ma nessuno di voi certamente avrebbe voluto subirla sia pure per diventare un monarca vestito con un mantello di piume di colombo selvatico e con una corona di piume di pappagallo rosso.

Questo fortunato mortale, poco da invidiarsi però, e ne saprete poi il perché, si chiamava John Toddy.

Erasi imbarcato mozzo a dodici anni, su di un bastimento americano che faceva i viaggi dal Messico all'Australia.

Bruttissimo, piccolo, un po' gobbo, con un naso da pappagallo e le labbra grosse come quelle dei negri, non doveva fare che una bella figura fra i mangiatori d'uomini che in fatto di bruttezza nulla avevano di certo da invidiargli.

La sua carriera era stata ben dura, ragazzi miei! Nannerello – lo avevano soprannominato così – aveva provato fin da principio quanto era duro a guadagnarsi il pane.

Era stato, il poveretto, lo zimbello di tutti.

Marinai e ufficiali lo avevano deriso pei suoi brutti occhi, pel suo naso, per la sua gobba, per la sua statura, regalandogli scapaccioni in abbondanza quando tentava di rivoltarsi.

Quante volte il disgraziato aveva pianto ed aveva maledetto il momento in cui si era allontanato dal paesello natìo, per correre l'avventura sui mari.

Il destino doveva però dargli la rivincita, perché al brutto mozzo deriso erano serbati alti destini.

Un triste giorno la nave che montava, mentre si trovava in mezzo all'Oceano Pacifico, sorpresa da un terribile uragano, va a sfasciarsi contro alcune scogliere.

I marinai, vedendo che non vi era più mezzo per renderla ancora navigabile, s'imbarcarono nelle scialuppe, pigiandosi come le aringhe, senza curarsi del povero Nannerello.

Il disgraziato piangeva, supplicava di condurlo con loro, ma invano.

Quegli inumani invece lo deridevano augurandogli ironicamente di guidare la nave fino ai porti d'Australia.

– Ti aspetteremo laggiù!

Questo era stato l'ultimo saluto, poi le scialuppe si erano allontanate senza altro occuparsi del misero naufrago.

Nannerello non aveva allora che sedici anni e tuttavia in quel corpiciattolo gobbo batteva l'anima d'un vero marinaio.

Invece di piangere sulla sua triste sorte, il mozzo pensò subito al mezzo per trarsi d'impiccio.

Qualunque altro, trovandosi solo su quella nave naufragata, perduto sull'immenso oceano e colla prospettiva di finire allo spiedo, si sarebbe disperato a lungo; Nannerello no.

Aveva una cieca fiducia nel suo destino.

– Non sono ancora morto – si era detto. – Giacché quegli inumani mi hanno abbandonato, cercherò di salvarmi come meglio potrò.

La burrasca era cessata e attorno alla nave si vedevano numerosi rottami: casse, barili, tavole, pezzi di murata.

Prende una scure e delle corde e dopo un lungo e faticoso lavoro si costruisce una piccola zattera capace di sopportare la sua personcina.

Quando però volle approvvigionarla, s'accorse con indicibile terrore che l'acqua aveva invasa la dispensa, distruggendo ogni cosa.

Fu dopo lunghissime ricerche che poté trovare tre biscotti dimenticati da un marinaio nella sua cassa e un pezzo di lardo non più grosso d'un pugno.

Nannerello con quegli scarsi viveri s'imbarca sulla zattera, affidandosi alle onde ed ai venti.

Ove andava? Non era in grado di saperlo non avendo trovata nessuna bussola.

Si lasciò quindi trasportare dal caso.

L'immenso oceano era diventato liscio come un cristallo e nessun soffio d'aria mitigava il calore intenso, essendo il naufragio avvenuto sotto l'Equatore.

Non vi era alcuna terra in vista, eccettuata la scogliera contro la quale erasi infranta la nave, però Nannerello aveva udito dai marinai che più al nord ed anche all'est dovevano trovarsi delle isole, quindi non disperava di potervi giungere.

Ahimè! Dovevano essere ben lontane terre! La giornata era trascorsa e non ne era comparsa alcuna sulla linea dell'orizzonte.

Alla sera il povero mozzo sgretolò uno dei suoi biscotti, si bagnò le labbra con una fiaschetta di acqua mescolata ad alcune gocce di rhum che aveva pure trovato nella cassa del marinaio, mormorò una preghiera e s'addormentò fra le tavole della sua zattera.

Malgrado tante apprensioni, Nannerello dormì come un ghiro e quando aprì gli occhi il sole era già alto e versava sull'oceano i suoi raggi infuocati.

Scrutò subito l'orizzonte sperando di vedere qualche isola o qualche punto bianco che indicasse la presenza d'un veliero: nulla, ancora nulla! L'immensità sola lo circondava.

Durante la notte, la zattera doveva aver percorso un lungo cammino, trascinata forse da qualche corrente, perché la scogliera oramai non era più visibile.

Essa era scomparsa assieme agli avanzi della nave.

– È finita – disse il povero mozzo. – Fra un paio di giorni sarò alle prese colla fame e morrò solo, perduto su questo mare sconfinato.

Anche il secondo giorno trascorse in una vana aspettativa, poi il terzo.

Alla mattina del quarto Nannerello non aveva più né un sorso d'acqua, né una crosta di pane e la fame lo straziava.

Sfinito si distese sulle tavole ardenti della zattera e si mise a singhiozzare, poi cadde in un profondo torpore.

Delle grida strane, rauche, lo destarono d'improvviso.

Aprì gli occhi e si vide circondato da quattro brutti selvaggi, quasi interamente nudi, con un anello infilato nel naso e colla pelle colore cioccolato.

Avevano i capelli crespi ed abbondanti, il viso tatuato e alle braccia e alle caviglie dei piedi delle collane formate da denti di cinghiale.

Erano scesi da un canotto scavato nel tronco d'un albero, dove vi erano pure altri selvaggi armati di lance e di certe mazze di legno molto pesanti, adorne di scagliette di tartaruga.

Nannerello vedendosi presso quei brutti selvaggi, aveva mandato un grido di terrore.

Si riteneva perduto e già gli pareva di vedersi infilzato in uno spiedo gigantesco e messo sui carboni ad arrostire.

– Non uccidetemi! – gridò, piangendo. – Sono un povero naufrago e non ho mai fatto male ad alcuno.

I selvaggi, almeno pel momento, non manifestavano intenzioni ostili.

Guardavano con stupore il mozzo, ridendo a crepapelle e gli grattavano di quando in quando il viso come per persuadersi che la sua pelle non era pitturata di bianco.

Poi tornavano a scoppiare in risate clamorose e si contorcevano come scimmie, manifestando una gioia straordinaria.

Nannerello lasciava fare, anzi per ingraziarsi quei mangiatori di carne umana, rideva anche lui non ostante gli strazi della fame.

Dopo d'aver riso a lungo, sollevarono delicatamente il mozzo e lo portarono nella loro scialuppa, deponendolo su una bella stuoia dipinta a vari colori.

Il capo della barca, un selvaggio alto quasi due metri, che aveva i fianchi stretti da una specie di sottanino di scorza di albero e la testa adorna da un diadema di penne rosse, si appressò al mozzo e gli fece un lungo discorso, affatto incomprensibile, poi gli mise indosso un mantello fatto di leggerissimi vimini intrecciati.

– Invece del mantello datemi da mangiare – disse Nannerello. – Sono due giorni che soffro la fame.

I selvaggi udendo la sua voce si guardarono l'un l'altro con stupore, poi interpretando a loro modo quelle parole, tolsero al capo il diadema di piume e glielo misero in testa.

Nannerello, quantunque così giovane, capì vagamente che quei selvaggi con quell'atto volevano insignirlo di qualche grado elevato e siccome non era uno sciocco, volle approfittare subito della sua nuova posizione.

– Pare che mi abbiano incoronato – disse. – Giacché sono diventato un re od un capo, ordiniamo ai miei sudditi di darmi da mangiare.

Invano però si sfiatò; i selvaggi non comprendevano una sillaba dei suoi comandi.

Riusciti inutili i suoi sforzi, si appressò alla prora dove aveva veduto dei banani e ne prese alcuni, divorandoli avidamente.

Tosto tutti i selvaggi gli furono attorno offrendogli chi dei pani di sagù, chi delle noci di cocco già aperte e chi dei crostacei che avevano pescato poco prima.

Tutti andavano a gara per mostrarsi premurosi e ad ogni boccone che Nannerello inghiottiva mandavano grida di gioia contorcendosi in mille modi.

Quando il mozzo fu sazio si distese sulla stuoia, si coprì col mantello e fece capire ai suoi sudditi che desiderava dormire.

Il capo fece stendere sopra di lui un tendalino di fibre di cocco abilmente intrecciate, onde ripararlo dai cocenti raggi del sole, poi quando lo vide addormentato fece cenno ai suoi uomini di riprendere il viaggio.

Dopo tre ore di rapida navigazione, la canoa giungeva dinanzi ad un'isola verdeggiante, colle rive coperte di graziosi palmizi, di cocchi, di mori papiriferi, di foltissimi banani dalle foglie lunghe parecchi metri e di splendidi artocarpi, ossia alberi del pane.

Miriadi di uccelli, gli uni più superbi degli altri, svolazzavano cantando e cicalando.

Vi erano delle kakatue bianchissime con un ciuffo di piume gialle sulla testa; dei piccini colle penne a riflessi d'oro due volte più grossi dei nostri; pappagalli di tutte le tinte e di tutte le dimensioni e anche non pochi di quei meravigliosi uccelli del paradiso, i più belli di tutti perché hanno mille colori sparsi sulle loro penne.

Nannerello, svegliato dal capo, era rimasto incantato nel vedere quella terra così ricca di piante.

– Che questo sia il mio regno od il luogo dove questi isolani mi metteranno allo spiedo?

La scialuppa intanto si era inoltrata in una piccola baia, sulle cui rive si vedevano numerose capanne seminascoste fra i cocchi ed i banani e del più grazioso aspetto.

Il capo, presa una grossa conca marina, aveva mandato alcune note acutissime e subito sulla spiaggia si erano radunati gli abitanti della borgata.

Vi erano dei guerrieri armati di lance, di mazze e di archi, donne appena vestite ed invece molto tatuate e bambini nudi affatto, sgambettanti come scimmie.

Quando Nannerello, molto spaventato, discese sulla riva scortato dall'equipaggio della scialuppa, con suo grande stupore vide tutta quella gente gettarsi a terra e rotolarsi nella polvere.

– Che mi credano qualche divinità marina? – si domandò. – Dato il colore della mia pelle che deve essere straordinario per questi uomini color cioccolato, non sarebbe da stupirsi. Facciamo la nostra parte di monarca.

Il mozzo, quantunque stentasse a credere a tanta fortuna, prese una posa eroicomica e indirizzò ai suoi sudditi un discorsetto che non fu certamente compreso ma che pure fece andare in visibilio tutti quei selvaggi.

Quand'ebbe terminato, il capo della scialuppa, che doveva essere il personaggio più importante dell'isola, fece avanzare una specie di palanchino formato di tronchi di albero ed invitò il mozzo a salirvi.

Quindi tutta la popolazione si mise in marcia dietro al novello re, preceduto da quattro suonatori i quali percuotevano furiosamente dei tronchi d'albero scavati e coperti di pelli di pescecane.

Giunti dinanzi ad una spaziosa capanna, ombreggiata da un banano gigantesco, Nannerello fu fatto entrare facendogli capire, a furia di gesti, che quella era la sua dimora.

Quattro uomini, probabilmente degli schiavi, furono lasciati con lui per servirlo.

In quella capanna vi erano molti viveri, per lo più frutta, pesce secco, mucchi di pane di sagù, poi un comodo letto formato da parecchi mantelli fatti con penne di vari uccelli ed un gran numero di vasi di dimensioni mostruose che Nannerello non poteva certamente sapere a cosa servissero.

Il povero mozzo, raccolto morente di fame sul Grand'Oceano, era stato veramente nominato re dell'isola.

Quei selvaggi, che mai avevano veduto, prima d'allora, nessun uomo bianco, l'avevano creduto di provenienza celeste e senza tanti preamboli lo avevano innalzato a quella carica.

Il re precedente d'altronde, non esisteva più. Ferito in una ribellione scoppiata fra i suoi sudditi, era stato finito con un colpo di mazza e poi... messo allo spiedo.

Fortunatamente quei particolari interessantissimi non erano stati subito conosciuti dal mozzo. Diversamente avrebbe forse rinunciato subito al suo trono.

Dobbiamo però dire che i sudditi, fino dai primi giorni, si erano mostrati addirittura entusiasti del loro nuovo re.

Ogni mattina i personaggi più importanti dell'isola andavano a visitarlo, portandogli doni di ogni specie.

I porci selvatici, i più bei pesci, le frutta più gustose, le patate più dolci, entravano a carichi nella capanna reale. Nannerello non si era mai trovato in mezzo a tanta abbondanza.

Però una cosa turbava la sua felicità: il desiderio di conoscere a che cosa servissero quei sette od otto vasi allineati lungo le pareti della dimora reale.

Quei recipienti, destinati a non contenere nulla, almeno pel momento, gli davano dei gravi pensieri e per venire al chiaro della faccenda, si affaticava accanitamente per imparare la lingua degli isolani.

Erano trascorsi tre mesi, quando un giorno, credendosi abbastanza forte nella lingua del paese, chiamò il capo della canoa, nominato suo primo ministro, per avere una spiegazione circa l'uso di quei vasi.

– Posso almeno sapere a che cosa servono? – gli chiese. – Forse che un tempo si riempivano d'olio di noce di cocco e di vino di palma?

Il ministro, udendo quella domanda, non nascose una certa sorpresa.

Pareva che fosse scandalizzato della fenomenale ignoranza del giovane re.

– Vostra Maestà lo ignora? – chiese.

– Non lo avrei chiesto a te, mio fedele ministro – rispose Nannerello.

– Ecco qui: in questo primo vaso, che è il più grosso, è stato cucinato Liki Liki I. Era il monarca più grasso, e dopo di lui non ne abbiamo mai mangiato uno più delizioso.

Nannerello fu ad un pelo per svenire, ma si fece animo per non mostrarsi vile dinanzi al suo primo ministro.

– In questo è stato invece cucinato Liki Liki II – continuò il selvaggio. – Era un po' magro quantunque avesse sempre mangiato per due, tuttavia vi posso dire, Maestà, che la sua testa valeva meglio del suo predecessore. Io che l'ho rosicchiata posso dirvi qualche cosa. Nel terzo invece è stato cucinato Kalabua I, capostipite della seconda dinastia. L'avevano messo in salsa verde con patate dolci. Che zuppa, Maestà! Non ne avevo mai assaggiata una migliore...

– Basta, conosco l'istoria degli altri – disse Nannerello che si sentiva venire meno. – Vorrei solamente sapere come cucineranno il re bianco.

– Se a voi non rincresce vi metteranno allo spiedo con erbe aromatiche.

– Sì, allo spiedo – balbettò il disgraziato mozzo. – Allo spiedo! Allo spiedo!

– Avete però del tempo – osservò il fedele ministro. – Siete ancora troppo magro.

– Cercherò d'ingrassare – mormorò Nannerello, frenando a mala pena la sua rabbia.

Il regno era finito pel povero monarca. La fuga era diventata la sua ossessione.

Fuggire! Non era cosa facile. Quel diabolico ministro, quasicché avesse indovinato i pensieri del monarca, da quel giorno aveva raddoppiate le sentinelle dinanzi la porta della capanna reale.

Eppure Nannerello non voleva finire come i suoi predecessori. Giorno e notte pensava al modo d'ingannare i selvaggi per andarsene.

Sapeva che vi erano molte canoe nella baia e che alla notte tutti gli abitanti dell'isola dormivano.

Se avesse potuto uscire inosservato dalla capanna, non lo avrebbero di certo più riveduto. Ne aveva abbastanza di quel popolo di antropofaghi.

Ahimè! I suoi pensieri non approdavano a nulla ed i giorni passavano avvicinandolo sempre più al giorno terribile.

I dignitari dell'isola dopo attento e scrupoloso esame, l'avevano giudicato abbastanza grasso per fare ottima figura nel banchetto nazionale.

Si trattava solamente di aromatizzarlo per alcune settimane, onde le sue carni diventassero più squisite. È per questo che tutti i cibi che comparivano alla tavola del disgraziato monarca erano conditi con certe erbe molto aromatiche.

Nannerello si struggeva dal dolore e passava le notti piangendo. La paura lo aveva preso e non era più capace di chiudere gli occhi.

Ad ogni rumore che udiva balzava giù dal letto, coi capelli irti e cogli occhi strambuzzati, credendo di veder comparire quel birbante di primo ministro con un coltellaccio in mano.

Se vinto finalmente dalla stanchezza chiudeva per alcuni istanti gli occhi, gli pareva subito di sentirsi passare uno spiedo attraverso al corpo e si svegliava mandando urla terribili con grande spavento degli schiavi e anche delle sentinelle.

Già non mancavano che poche settimane al giorno fatale ed i preparativi pel gigantesco banchetto erano cominciati, quando Nannerello, mentre stava passeggiando sulla veranda della dimora reale, agli ultimi bagliori del tramonto, vide apparire in lontananza una nave.

Credette per un momento che il cuore gli si spezzasse, tanta fu la sua emozione.

– Se non mi salvo questa volta, non mi salverò più – disse.

Guardò attentamente dove dirigevasi quel bastimento e vide che cercava un ancoraggio sulle coste meridionali dell'isola.

Forse era una nave da guerra incaricata di esplorare quei paraggi e di rilevare le spiagge di quelle isole e le scogliere.

Nannerello, certo ormai di ritrovarla se avesse potuto prendere il largo, cenò alla lesta, poi congedò gli schiavi, dicendo a loro di lasciarlo dormire fino ad ora tarda.

Si sdraiò infatti sul suo letto, coprendosi per bene coi mantelli di piume di colombo selvatico, poi spense il ramo resinoso che gli serviva da torcia.

Due ore dopo, non udendo più alcun rumore, si alzava silenziosamente affacciandosi ai pertugi che gli servivano da finestre.

Le quattro sentinelle messe dal primo ministro, vegliavano dinanzi alla porta, presso un palo fiammeggiante, quindi per di là la fuga era assolutamente impossibile.

– Facciamo un buco nel tetto – disse il monarca. – Non sarà dignitosa questa fuga, ma io rinuncio volentieri al trono.

Aveva portata con sé, per tutti i casi, una scure di pietra ed il suo coltello da marinaio, che aveva conservato gelosamente.

Sempre senza far rumore intaccò il tetto della dimora reale, formato di leggeri travicelli e di foglie di banano e in poco tempo s'aprì un passaggio sufficiente pel proprio corpo.

Assicuratosi che gli schiavi dormivano, Nannerello salì facilmente sul tetto, fece il giro della cupola conica e giunto dalla parte opposta si lasciò cadere al suolo, nel bel mezzo d'un cespuglio di nocciuoli.

Credeva di averla fatta franca, quando udì le sentinelle a dare l'allarmi e poco dopo gli schiavi a urlare a squarciagola:

– Il re è fuggito!

Nannerello non ne volle sapere di più. Impugnò la scure di pietra e si slanciò nel vicino bosco, correndo come un cervo.

Si era orizzontato colle stelle ed era certo di giungere nella piccola baia dove erasi ancorata la nave.

Intanto tutta la popolazione dell'isola si era precipitata sulla traccia del fuggiasco monarca.

L'allarme era stato dato dappertutto e guerrieri, ministri, donne, ragazzi si erano messi in caccia decisi a riprendere l'arrosto che fuggiva prima di arrosolarsi sul fuoco.

Nannerello però aveva le gambe leste ed il vantaggio di aver presa una direzione esatta.

Attraversata la foresta, giunse finalmente sulle rive del mare proprio di fronte alla nave che aveva scorta alla sera.

– Aiuto! – gridò con quanta voce aveva nei polmoni. – Sono un naufrago inseguito dagli antropofaghi.

Gli uomini di quarto che vegliavano sulla nave, udendo quelle parole pronunziate in inglese, non indugiarono un solo istante a mettere in acqua una scialuppa.

Nel momento in cui giungeva a terra, i selvaggi, guidati dal primo ministro, comparivano agitando le loro mazze e le loro lance.

Nannerello era però ormai salvo. Con un salto si precipitò nella scialuppa mentre i marinai salutavano gli antropofaghi con una scarica di fucili uccidendone parecchi, fra i quali il primo ministro.

Nannerello non si era ingannato. Quella nave era un vascello da guerra americano, incaricato di esplorare quei paraggi.

Il mozzo fu ricevuto molto premurosamente dal capitano. Fu vestito e calzato e quando lo sbarcarono a San Francisco di California ebbe anche un discreto gruzzolo di denaro per ricompensarlo della perdita del suo regno.

Devo ora aggiungere che tanta fu la paura provata, che da quel giorno Nannerello rinunciò per sempre alla vita marinaresca.