I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il re di Tikuno

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Il re di Tikuno

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IL RE DI TIKUNO


In Africa tutti i sultanetti o re – e ve ne sono delle migliaia sparsi in quell'immenso continente – prima di essere saliti agli onori del trono, chi più chi meno sono stati ladri o briganti di carovane.

Lo stesso Mirambo, che era il più potente Sultano dell'Africa orientale, che aveva estesi i suoi domini su tutte le rive dell'immenso lago Tanganika e che venne chiamato il Napoleone africano per le sue fortunate conquiste, aveva cominciata la sua carriera facendo il ladro.

Semplice servo prima, poi portatore di carichi ai servigi di un ricco arabo che conduceva dalla costa ai grandi laghi dell'interno delle caverne, un bel giorno s'impadronisce delle merci affidategli e si getta nelle infinite boscaglie dell'interno, dove raduna, mercé le ricchezze depredate al padrone, una banda di briganti.

In breve quell'uomo che era del resto intelligentissimo e coraggioso, diventa il terrore delle carovane che saccheggia senza misericordia; poi il terrore dei piccoli sultani, finalmente di quelli più potenti che non osano resistere ai banditi dell'antico servo.

A poco a poco sottomette gli uni e gli altri ed eccolo un giorno monarca assoluto di milioni di sudditi.

Così si fa in Africa per diventare re o sultani: saccheggi, stragi, sangue a profusione e soprattutto terrore.

Il re di Tikuno era salito agli onori del trono imitando Mirambo.

Nel 1860 non era che un minuscolo capo senza alcun potere, perché non comandava che a una mezza dozzina di villaggi sparsi nell'alto Senegal; ma aveva pure una sete irrefrenabile di potere e una ambizione immensa.

Era soprattutto poi un buon guerriero, ma sanguinario quanto una tigre, ché calcolava la vita umana meno di quella d'un pollo.

Un giorno, sorta una questione con alcuni sudditi del Sultano di Segu, sovrano allora potentissimo, Tikuno spinto dal suo temperamento crudele, li fa prendere, fustigare a sangue e quindi decapitare, e tutto ciò perché quei disgraziati si erano rifiutati di pagare alcune tazze di latte che una donna aveva loro somministrate.

Il delitto era grave ed il Sultano di Segu non lo avrebbe certo lasciato impunito, se Tikuno non avesse alzate le piante più che in fretta, riparandosi nelle foreste del Shari.

Un mese dopo si sparge la voce che una banda di briganti capitanata da un uomo ferocissimo, devasta tutte le regioni vicine allo Shari, che è un fiume importantissimo dell'alto Senegal. I villaggi sono saccheggiati ed incendiati, gli abitanti vengono trucidati o venduti schiavi, i campi devastati. Tutta la regione è a ferro ed a fuoco.

Quel terribile bandito era Tikuno.

In capo a tre mesi il piccolo capo senza potere era diventato così formidabile da sfidare perfino le forze del Sultano di Segu.

Ne invade il regno alla testa di numerose orde di banditi coraggiosi e sanguinari come lui, disperde le forze del Sultano, prende d'assalto la capitale, decapita il povero monarca e dopo d'aver passato a fil di spada tre quarti della popolazione si fa proclamare re di tutta quella immensa regione.

Invece di mostrarsi soddisfatto, la sua ambizione sfrenata scoppia più violenta che mai e i più mostruosi delitti vengono commessi per suo ordine.

Tutti i capi dei villaggi, anche i più piccoli, vengono uccisi, i grandi del Sultano precedente subiscono l'egual sorte, onde più nessuno possa dargli ombra, e s'impadronisce di tutte le ricchezze del regno, piombando nella più squallida miseria milioni d'abitanti.

Tanto sangue non aveva però calmata quella tigre esecrata da tutti, anzi ecco che un giorno egli immagina degli spettacoli mostruosi per svegliare i suoi sensi inebetiti dall'azione stupefacente del potere assoluto.

Un orribile pregiudizio che aveva la sua sorgente in antiche credenze religiose e che dura ancora nell'alto Senegal voleva che ogni bastione, per essere imprendibile avesse le sue fondamenta cementate con sangue umano.

Fino allora però quella barbara usanza non era costata per ogni città novella che il sacrificio d'un giovane o d'una giovane ai quali si univa una coppia di buoi o di capre.

Un mattino il re di Tikuno fa chiamare il suo primo ministro e gli dice senza preamboli:

– La scorsa notte ho pensato che nel mio regno non esiste ancora una città che porti il mio nome.

– È vero, possente monarca – rispose il ministro inchinandosi.

– Voglio dunque che sorga una grande città onde eterni il mio nome e che rammenti ai pronipoti del mio popolo che la potenza del regno la dovranno interamente a me.

– Ogni tuo desiderio è un ordine, e la città sorgerà.

Pochi giorni dopo migliaia e migliaia di schiavi lavoravano da mane a sera a fondare la città di Tikuno e tre mesi più tardi era finita. Non mancava che di circondarla di muraglie e di bastioni cementati con sangue umano, ma Tikuno voleva sorpassare in barbarie tutto ciò che avevano fatto gli antichi sultani del regno.

Il giorno precedente la fondazione dei bastioni migliaia di araldi si spargono per le vie delle città e per le campagne, gridando a piena gola:

– Domani, quando i primi fuochi del giorno si specchieranno nelle acque dei fiumi e dei laghi, riunitevi intorno alla capitale del nostro regno e vedrete una cosa di cui mai avete veduto l'uguale e che rimarrà lungamente impressa nei vostri cervelli.

All'indomani, prima ancora che il sole fosse sorto, una moltitudine infinita circondava la nuova capitale che era stata innalzata su una pianura sconfinata.

Tutti quei curiosi si domandavano senza una certa ansietà – perché ormai conoscevano troppo bene la crudeltà del re – che cosa potesse fare quel potente che non fosse stato fatto prima di lui da alcun monarca.

Fino allora tutti i sultani che si erano succeduti non avevano fatto che del male: tutti avevano ucciso, bruciato, rubato, e migliaia di schiavi avevano dato la loro vita per soddisfare i loro criminosi capricci.

Tikuno li aveva tutti superati per vendetta, per ambizione, per sete di potere. Che cosa voleva fare ancora e di più?

I suoni dei flauti di guerra, fatti con tibie umane di celebri guerrieri, delle marimba formate da zucche vuote, dei campanelli e dei corni d'avorio annunciano ben presto l'avvicinarsi del temuto monarca e della sua corte.

Egli si avanza nella sua gloria, montando un superbo cavallo bianco, il suo cavallo di battaglia, tutto coperto di piastrine d'oro e d'argento.

La testa del monarca è cinta da una corona d'oro che aveva appartenuto per secoli e secoli ai sultani di Segu; il suo corpo scompare fra una ampia camicia di seta rossa ricamata in argento e nelle sue mani brilla un fucile incrostato di perle e di pietre preziose.

Tutti i nobili del regno, i ministri, i pochi capi sfuggiti fino allora miracolosamente alla morte, lo accompagnano e trecento massis, che sono le guardie del corpo scelte fra gli schiavi più belli e vigorosi, caracollano intorno al corteo.

Quando il re di Tikuno ebbe preso posto nel padiglione reale, tutto di seta trapunto in oro con una poltrona di argento massiccio tempestato di smeraldi d'un valore inestimabile, fece sfilare dinanzi a sé tutti gli schiavi di sua proprietà che ammontavano a parecchie diecine di migliaia fra uomini e donne.

Ad ognuno faceva dispensare qualche metro di cotonina rigata colla quale dovevano bendarsi gli occhi poi sotto la scorta dei soldati, venivano condotti intorno alla città collocandoli dinanzi ad un profondo fossato entro cui dovevansi piantare le basi dei bastioni.

Un profondo silenzio regnava fra la moltitudine poiché il re aveva fatto gridare dai suoi araldi che chi si fosse lasciato sfuggire un solo grido, fosse plebeo o nobile o guerriero o capo, sarebbe stato immediatamente ucciso.

Il silenzio quindi era così assoluto che si avrebbe potuto udir volare una mosca.

Quando tutti gli schiavi furono a posto, disposti in file immense sull'orlo del fossato che circondava la città, parecchie migliaia di soldati armati di sciabole s'avviarono in silenzio ai ranghi dei bendati.

Allora mentre un terrore istintivo gonfiava le vene degli schiavi e della moltitudine di spettatori, il re fece dare fiato a corni d'avorio mentre gli araldi gridavano agli schiavi che nessuno si muovesse, tale essendo l'ordine del loro signore.

Ad un tratto gli spettatori videro un gran movimento presso il fossato della città, un movimento d'uomini, di terra, di pietre, poi udirono un fragor di ghiaia precipitante.

Intravidero poscia fra una nube immensa di polvere delle migliaia e migliaia di sciabole e di scuri brillare e passare come lampi, e lunghi getti di sangue scorrere come una pioggia di uragano, poi fra quel tumulto udirono dei rumori strani, dei sordi mormorìi, dei lamenti e dei rantoli soffocati.

Quando quel polverone si dileguò, le fondamenta dei bastioni e delle muraglie della nuova città sorgevano a livello del suolo e le loro basi si posavano sopra migliaia e migliaia di cadaveri di schiavi.

Molti altri erano stati designati a completare la spaventevole ecatombe, ma erano stati risparmiati perché i carnefici non avevano avuto più la forza di alzare le spade e le mazze.

Quando fu permesso a quegli sventurati di togliersi le bende, un grido d'orrore sfuggì dalle loro labbra.

– Perché quei vuoti immensi nei loro ranghi? – si domandavano tutti.

Una voce formidabile, uscita non si sa da quale bocca, aveva gridato:

– Vendetta, vendetta!

L'uomo che aveva lanciato quel grido, che era giunto anche agli orecchi del re, fu cercato dai soldati ma invano.

Se fossero riusciti a scoprirlo certo non avrebbero risparmiato quell'audace che aveva osato insorgere contro la crudeltà del potente monarca.

Eppure numerosi schiavi l'avevano veduto e udito lanciare quel grido, ed un nome era uscito dalle loro labbra:

– Tembo!

Si erano però guardati dal denunciarlo, anzi una speranza era balenata nelle loro anime angosciate: cioè che quell'uomo un giorno potesse vendicare quell'atroce ecatombe.

E Tembo era uomo da mantenere la parola, giacché nutriva un odio inestinguibile verso quel tiranno che decimava così a sangue freddo la popolazione del regno.

Capo d'un grosso villaggio e suddito fedele del precedente Sultano, era stato l'unico ad opporre una lunga e fiera resistenza alle orde di Tikuno.

Guerriero valoroso e d'animo forte, aveva osato un dì rimproverare all'usurpatore della Sultanìa di Segu, a voce alta, le sue crudeltà.

Il re di Tikuno non aveva perdonata tanta audacia. Aveva fatto incendiare il villaggio del temerario, venduti gli abitanti come schiavi, compresa la moglie ed i figli del capo, poi, non ancora soddisfatto, aveva proclamato la decadenza del prode guerriero conducendolo schiavo alla capitale.

Tembo per due anni aveva roso la rabbia che lo divorava, giurando però che un giorno avrebbe vendicato il suo popolo, la moglie ed i figli.

Era stato già condannato a subire la miseranda sorte di quegli infelici che avevano bagnato col sangue il fossato, ma per un caso miracoloso era sfuggito al pari di tanti altri.

Quando gli schiavi vennero condotti nelle tettoie a loro destinate e che facevano parte del recinto reale, Tembo radunò a sé gli schiavi più valorosi, tutti antichi guerrieri del Sultano di Segu e gettò le basi d'una associazione che doveva avere per iscopo la caduta del tiranno e la sua punizione.

Erano quarantamila gli schiavi che risiedevano ancora nella città. La cospirazione, malgrado l'assidua vigilanza delle guardie reali, si sviluppò silenziosamente, conquistando non solo quei miseri, bensì anche la popolazione.

Il re di Tikuno, sicuro della sua potenza, reso ricco dal suo sconfinato potere, non si era accorto della bufera che ruggiva attorno al suo malfermo trono fondato su tante stragi.

Ed in fatti chi avrebbe osato sfidare un simile colosso?

Ma ecco che un giorno, quando la città si trovava poco guernita di truppe fedeli al re, essendo le altre occupate a guerreggiare ai confini del reame per procurarsi schiavi da immolare nei sacrifici umani, ecco che un fragor d'armi risuona per le vie della città.

I quarantamila schiavi, spalleggiati dalla popolazione, troppo stanca di soffrire i capricci crudeli di quel mostro, erano insorti come un sol uomo e accorrevano, assetati d'odio, all'assalto del palazzo reale.

Le guardie del corpo, radunatesi in fretta, tentano di opporre una lunga resistenza ed invece vengono sopraffatte e le loro teste, infisse nelle picche, sono portate in trionfo.

Il re di Tikuno, semiubriaco, prendeva il suo solito bagno in una stanza interna del palazzo e non si era nemmeno accorto di nulla.

Immaginatevi però quale fu il suo stupore ed il suo spavento, quando vide spalancarsi la porta della stanza ed entrare Tembo armato d'una scure da guerra grondante sangue e seguìto da un gran numero di schiavi pure armati.

L'uomo che aveva giurato di vendicare l'ecatombe, si appressò al re terrorizzato e gli disse:

– Potente monarca! Tu sei il più forte di tutti i re del Senegal; hai soggiogato mille volte dei corsieri indomabili; hai vinto molte battaglie e decapitato il Sultano di Segu che era un giorno possente; sei o meglio ti si crede il più coraggioso guerriero del paese.

«Nessun monarca è più ricco di te, nessun altro possiede un numero maggiore di schiavi, di animali e di gioielli preziosi.

«Le tue mogli sono le più belle, i tuoi figli sono forti come il loro padre, coraggiosi al pari di lui.

«Quando hai fatto innalzare i bastioni della città che porta il tuo nome, hai mostrato tutta l'estensione della tua potenza e ci hai provato che simile al nostro Dio potevi compiere dei prodigi strabilianti.

«Re di Tikuno, noi siamo umili schiavi soggetti ai nostri padroni, zelanti nel servirli e premurosi di piacere a loro, ma noi pure vogliamo mostrarti delle cose che non hai mai vedute...»

Ad un suo cenno la porta si riaperse e comparvero le mogli ed i figli del re, colle mani legate dietro il dorso e la catena al collo.

Il re, atterrito, cercò di balzare fuori dal bagno e cercò di chiamare aiuto, ma non vide attorno a sé che volti animati dall'odio più profondo e delle braccia vigorose che lo costrinsero a rimanere immobile.

– Che cosa vuoi farne dei miei figli e delle mie mogli? – chiese con voce tremante.

– Che cosa hai fatto tu dei miei e della mia? – chiese l'implacabile Tembo.

Il re chinò la testa senza rispondere.

– Tu li hai venduti schiavi e schiavi saranno i figli del possente monarca di Tikuno! – gridò Tembo dopo un lungo silenzio.

Poi fece un altro gesto.

La stanza metteva su una vasta terrazza, la quale a sua volta prospettava su un vasto cortile.

Tembo fece alzare le tende di seta azzurra che difendevano la terrazza dai raggi del sole, e poi disse:

– Possente monarca, non ti pare che manchi un ornamento a questo superbo cortile che occupa il centro della tua città? Tu hai impiegato sole dieci ore per fondare, coi corpi dei tuoi schiavi, i bastioni della nuova città, e non occorrerà minor tempo per innalzare in mezzo ai tuoi palazzi una cosa che tu non hai mai veduta.

– Cosa vuoi fare? – chiese lo sciagurato coi denti stretti, mentre un brivido di terrore gli correva per le ossa.

– Guarda!

Lo prese fra le braccia e lo portò sulla terrazza.

Un gran numero di schiavi stavano scavando il terreno proprio in mezzo al cortile mentre altri portavano pali e travi in così grande quantità che gran parte dello spazio racchiuso fra i palazzi ne era tutto ingombro.

– Ecco che il lavoro comincia, possente monarca – disse Tembo con un sorriso crudele. – Vedrai coi tuoi occhi.

E coi suoi occhi lo sciagurato re vide ruzzolare prima nella fossa i cadaveri dei suoi ministri e delle sue guardie del corpo, poi massi e pietre quindi piantare travi che venivano incrociati in forma di castello.

Una torre s'elevava rapidamente sotto il lavoro febbrile di centinaia d'uomini, superando prima le terrazze poi i tetti dei palazzi.

Il re di Tikuno, trattenuto da mani ferree, colla testa volta verso il cortile, guardava senza gettare un lamento. La sua gola contratta non aveva un grido, i suoi occhi, dilatati dal terrore, non avevano una lagrima ma un sudore gelato gli colava dalla fronte e gli inondava le gote.

A mezzodì la torre era finita e s'innalzava per sessanta metri superando tutte le costruzioni più alte della città.

– Possente monarca, – disse allora Tembo – la torre è stata finita in minor tempo di quello che tu hai impiegato a costruire i bastioni della tua città e come vedi è più alta ma non è tutto.

– Cosa vuoi mostrarmi ancora – chiese il re di Tikuno con voce soffocata. – L'incendio della mia città?

– Noi, umili schiavi, non desideriamo distruggere nulla né danneggiare il popolo che ha preso parte alla congiura e che ha combattuto con noi.

– Allora tu vuoi la mia morte. Lo leggo nei tuoi occhi.

– No, noi abbiamo bisogno di conoscere quale è il vento migliore per seminare le nostre terre e sotto quale soffio fortunato si gonfiano e maturano le spighe dei nostri grani.

«Abbiamo bisogno di sapere prima quando il vento caldo del grande deserto soffierà l'ardente polvere sui nostri seminati e sulle nostre borgate.

«I tuoi forzieri che racchiudono tanto oro che tu hai rubato violentemente al tuo popolo, ci forniranno un piuolo che sarà d'oro e poi noi penseremo ad attaccarvi una bella bandiera che giri ai soffi del vento.»

– La mia?

– Non dura molto la seta e dopo pochi mesi la torre ne sarebbe priva. Come faremmo noi allora a conoscere la direzione dei venti?

Nel pronunciare quelle parole il viso di Tembo aveva preso una tale espressione di collera, che il re ne fremette.

Lo sciagurato vide entrare degli schiavi che portavano un aguzzo palo d'oro massiccio lungo parecchi metri, poi dei chiodi pure d'oro ed una lunga tavola di legno del ferro, il legno più duro che esista e che è incorruttibile.

Allora delle mani robuste lo afferrarono, lo adagiarono sulla tavola e gli inchiodarono rapidamente le membra.

– Ora, possente monarca, sarai contento – proseguì Tembo. – I tuoi sguardi non si fisseranno più su questi miserabili schiavi, oggetti del tuo disprezzo: saranno ormai rivolti verso il cielo e non avrai altri rivali in potenza che le aquile dalle unghie di ferro che battono l'aria colle loro immense ali.

Il piuolo d'oro fu unito alla tavola, poi il misero monarca che mandava urla di belva fu portato nel cortile e quindi innalzato sulla cima della torre mentre gli schiavi e la popolazione intera della città gli urlava contro insulti sanguinosi.

Compiuta quella giustizia africana, i congiurati e la popolazione per consenso unanime innalzarono alla dignità del trono Tembo.

L'ex schiavo, soldato energico e vero uomo di stato e soprattutto scrupoloso osservatore della giustizia, non fu acciecato da quella insperata fortuna.

Fu il re migliore dell'alto Senegal e quando morì, il reame era uno dei più floridi e dei più felici di tutta quella immensa regione.

In quanto alla bandiera, su cui era stato inchiodato il crudele Tikuno, sventola anche oggidì sulla cima della torre e segna ai coltivatori da qual parte soffia il vento ardente del vicino deserto di Sahara.