I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Un'avventura nel Gange

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Un'avventura nel Gange

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I pirati del Riff Perduta fra le solitudini dell'Amazzoni

UN'AVVENTURA NEL GANGE


Come già voi sapete, lettori miei, il Gange è il più grande e anche il più celebrato fiume della penisola indiana.

Le più opulenti città dell'India settentrionale si trovano sulle rive di questo gigantesco corso d'acqua e presso la sua foce si erge la capitale di tutta quella ricchissima colonia inglese, la ricca Calcutta, chiamata pure la regina del golfo del Bengala.

Quantunque il Gange sia frequentato da un numero immenso di navi d'ogni dimensione, che lo salgono e lo scendono, e quantunque le sue rive siano così popolate, pure è uno dei fiumi più pericolosi da percorrersi specialmente nel suo corso inferiore, al di sotto di Calcutta.

E sapete chi sono che lo rendono pericoloso? Le tigri!

Presso la foce, questo fiume forma un numero infinito d'isole e d'isolette, coperte da fitte piantagioni di bambù, dove si celano in gran numero tigri, serpenti e coccodrilli d'incredibile lunghezza.

Nessuno osa porre il piede su queste terre fangose, anche perché le febbri ed il cholera vi regnano quasi tutto l'anno.

Le navi che vengono dal golfo del Bengala e che devono recarsi a Calcutta, sono costrette a costeggiare le isole del delta, esponendosi sovente al pericolo di fare la conoscenza con quelle splendide e altrettanto feroci tigri.

Ed infatti più d'un marinaio è stato strappato, quasi al volo, dal cassero della sua nave, e trascinato in mezzo alle jungle spinose a servire di pranzo a qualche famiglia di tigrotti.

Un caso simile è successo ad una nave americana, che io ho visitata poi a Calcutta, qualche settimana dopo l'avvenimento che sto per narrarvi.

Quel veliero si chiamava l'Harris ed era partito dall'Australia con destinazione a Calcutta, nella quale città doveva imbarcare del cotone per l'Europa.

Giunta dinanzi alle Sunderbunds, così si chiamano le isole che il Gange forma alla sua foce, la nave, ignorando i pericoli che la minacciavano, invece d'imboccare arditamente il fiume, si era ancorata a breve distanza da una di quelle terre, in attesa del pilota.

L'intera giornata trascorse in una vana attesa. Il pilota, trattenuto altrove per qualche motivo, non si era più fatto vedere, né a Port-Harbaur, né presso le isole.

Il capitano americano, non conoscendo il fiume, decise di passare la notte all'ancoraggio, persuaso che l'indomani il pilota si sarebbe fatto vedere.

Alla sera, dopo cenato, i marinari si ritirarono nelle loro amache, lasciando di guardia un loro compagno ed un mozzo appena quattordicenne, che avevano imbarcato poche settimane prima nel golfo di Martaban.

La notte era limpida: una vera notte indiana. Il cielo, anche quando manca la luna, ha una tale trasparenza, sotto quei climi, che si possono distinguere i più piccoli oggetti a distanze incredibili.

Il marinaio ed il mozzo, seduti sul cassero, stavano chiacchierando tranquillamente, quando verso la spiaggia, lontano circa sessanta metri, udirono alzare dei sordi brontolìi.

– Pare che vi sia qualche bestia in mezzo a quelle canne – disse il marinaio.

– Che sia qualche tigre? – chiese il mozzo, con accento spaventato.

– Può darsi; hai paura tu?

– Le tigri sanno nuotare – rispose il mozzo, il quale, essendo vissuto parecchi anni nella Birmania, ne sapeva più del marinaio in fatto d'animali feroci.

– Bah! – rispose l'americano. – Vorrei vederla arrampicarsi sulla nostra nave. Non ispaventarti per così poco, ragazzo; qui siamo al sicuro.

Il mozzo, rassicurato dalle parole del compagno, tornò a sdraiarsi sul cassero; ma poco dopo si rialzava di colpo, esclamando:

– Hai udito?

– Che cos'è? – domandò il marinaio.

– Qualcuno si è gettato nel fiume.

– Sarà stato qualche granchio.

– No, un animale.

Il marinaro cominciava a sua volta ad inquietarsi. Aveva anche lui udito a raccontare che delle tigri erano riuscite a slanciarsi a bordo di certe navi, che si erano ancorate presso le spiagge deserte; però fino allora non aveva prestato fede alcuna a quelle storie.

– Vediamo – diss'egli alzandosi ed impugnando una scure che si trovava a portata della sua mano.

Salì sulla murata e guardò attentamente verso la riva. Essendo la notte molto chiara, come fu detto, poteva distinguere perfettamente la riva.

In quel luogo però, s'alzavano delle gigantesche canne palustri, alte da dieci a quindici metri, e più oltre, sull'acqua, si estendevano delle larghe foglie, simili al loto che cresce sul Nilo. Poteva darsi perciò, che qualche animale avesse abbandonato la riva e che s'inoltrasse cautamente attraverso a quelle piante acquatiche.

– Io credo che tu abbia sognato, ragazzo! – disse il marinaio, dopo alcuni istanti. – Io non vedo assolutamente nulla e non odo nulla.

– Eppure io vedo le cime di quelle canne muoversi! – disse il mozzo.

– È la brezza che le scuote.

Stava per ritirarsi, quando tutto d'un tratto vide delle foglie avanzarsi verso la nave. Venivano spinte dalla corrente o qualcuno le conduceva da quella parte? Essendo molto larghe non si poteva, a primo colpo, sapere se sotto di esse si nascondeva qualche animale.

– Io comincio a credere che tu abbia ragione – disse al mozzo. – Va' a prendermi un fucile; voglio vedere chi muove quelle foglie.

Mentre il mozzo si recava nella camera di prora a prendere l'arma chiesta dal marinaio, le foglie s'erano avvicinate rapidamente.

Il marinaio, le cui inquietudini ormai aumentavano di momento in momento, si era ritirato verso il cassero onde essere più pronto ad avvertire il capitano, che dormiva nel quadro, assieme al secondo ufficiale.

D'improvviso una massa giallastra piombò sulla murata che il marinaio aveva poco prima abbandonato.

Un urlo rauco, spaventoso, risuonò dal ponte, rompendo bruscamente il silenzio che regnava sulla nave.

L'animale che si era scagliato sul ponte, era una superba tigre reale, una delle più grandi della specie. La fiera parve dapprima sorpresa di trovarsi in quel luogo e di non aver trovato sotto gli artigli l'uomo che aveva spiato, poi si volse rapidamente e in due slanci attraversò il ponte.

Aveva veduto il mozzo uscire dalla camera comune e gli piombava addosso con impeto irresistibile.

Il marinaio si era nascosto dietro l'abitacolo di poppa; vedendo però l'animale slanciarsi sul povero ragazzo, ebbe uno di quegli scatti generosi, che sorgono improvvisi dinanzi ai più gravi pericoli.

Afferrare la scure e scagliarsi addosso alla fiera nel momento in cui questa stava per atterrare e dilaniare il ragazzo, fu l'affare di un istante.

La tigre percossa furiosamente dalla scure di quell'audace, sentì mancarsi l'usuale ferocia e invece di rivoltarsi, con un salto immenso s'aggrappò alle griselle, salendo poi fino alla coffa dell'albero.

Alle grida di terrore del mozzo, erano usciti il capitano e parecchi marinai. Alcuni si erano armati di scure ed altri di rivoltella.

– Badate! – gridò il marinaio. – Vi è una tigre a bordo!

La fiera si era rannicchiata sulla coffa dell'albero maestro e mandava ruggiti spaventosi. Comprendeva di essere prigioniera, però non osava abbandonare il suo rifugio.

I marinai e lo stesso capitano, di primo colpo si erano rifugiati a prora ed a poppa credendo che l'animale si preparasse a slanciarsi in coperta.

Vedendo che non l'osava, cominciarono a prendere coraggio.

– Fuciliamola – disse il capitano.

Alcuni marinai scesero nel quadro di poppa e tornarono portando alcuni fucili.

La tigre come si fosse accorta che stavano per fucilarla, con un improvviso balzo si gettò sul ponte, cercando di guadagnare la murata e di precipitarsi nel fiume.

Volle il caso o la fatalità che nel suo slancio s'incontrasse col marinaio che aveva salvato il mozzo.

Il povero uomo fu travolto, poi preso e portato via, prima che i marinai, spaventati da quell'inaspettato assalto, avessero avuto il tempo di scaricare le armi.

La fiera con la preda in bocca riapparve ben presto a galla. Nuotava vigorosamente cercando però di tenersi nascosta fra le erbe acquatiche.

Il marinaio non era morto, forse non era stato nemmeno gravemente ferito, poiché lo si vedeva dibattersi disperatamente, cercando di tenere la testa fuori dell'acqua per non affogare.

– James! – gridò il capitano, slanciandosi verso la muratura col fucile in mano.

– Fate fuoco, signore! – rispose il povero marinaio con voce strozzata. – Fate fuoco!

– Preparate una scialuppa! – comandò il capitano.

Poi salì sul bordo per meglio vedere la tigre.

Questa si trovava allora a soli sessanta passi. Aveva raggiunto un banco di sabbia e si dirigeva sollecitamente verso la jungla trascinando sempre il marinaio, il quale continuava a gridare:

– Fuoco! Fuoco!

Il capitano esitava. Quantunque fosse un bravo tiratore, temeva di non avere un polso fermo e di uccidere il marinaio invece della fiera.

Nondimeno puntò il fucile, mirando con grande attenzione. Lo sparo fu seguìto da un urlo feroce.

La tigre, colpita certamente dal proiettile, fece un salto immenso e scomparve fra gli ammassi di bambù.

In lontananza si udì ancora la voce del marinaio, molta fioca però. Il disgraziato gridava ancora:

– Fuoco! Fuoco!

La scialuppa era stata calata in acqua e quattro rematori si tenevano pronti a manovrare i remi.

– Signor Vilson, – disse il capitano, volgendosi verso il primo ufficiale – volete seguirmi?

– Sono con voi, capitano.

– Andiamo a cercare quel povero marinaro o almeno a vendicarlo.

Scesero nella scialuppa, portando con loro le loro carabine e le munizioni, ed i quattro marinai diedero mano ai remi.

La traversata di quel braccio d'acqua fu compiuta in pochi minuti.

– Rimanete qui di guardia e se vedete la tigre a comparire fate fuoco – disse il capitano ai marinai.

Poi si slanciò animosamente sulla riva, seguito dal signor Vilson.

La jungla si estendeva dinanzi a loro fitta e tenebrosa. Chi non ha veduto quelle basse terre del Gange, non può farsi un'idea dello splendore della vegetazione.

Canne alte quindici e perfino diciotto metri, alcune grosse come la gamba d'un uomo, altre sottili e altre munite di spine acutissime, si ergono dovunque, agitando al vento i loro grandi mazzi bianchi o rosei. Formano un vero caos, entro cui l'uomo non pratico si smarrisce completamente.

Al di sopra di quel mare di verzura si alzano pochi grossi vegetali, dalle foglie smisurate, disposte ora a ventaglio ed ora ad ombrello. Sono palmizi di specie diverse: latanieri, tara e cocchi. Sotto quelle canne giganti strisciano serpenti in grande numero: il terribile cobra-capello o serpente dagli occhiali, il cui morso non perdona; il corallo piccolo, sottile come un portapenne, d'una bellissima tinta rossa eppur velenosissimo; il pitone tigrato, lungo sette e talvolta otto metri, grosso assai, difeso da scaglie durissime e dotato d'una forza prodigiosa.

Oltre i rettili vivono pure nascosti sotto la cupa ombra di quei grandi vegetali, bufali enormi d'umore intrattabile, ombrosi, battaglieri che affrontano qualsiasi cacciatore, rinoceronti giganteschi dalla pelle durissima a prova di palla e non meno brutali dei primi e tigri reali in gran numero.

Il capitano, già pratico di quelle regioni, appena si trovò dinanzi a quelle canne smisurate, si volse verso il signor Vilson dicendogli:

– Non abbandonate il grilletto del fucile, poiché qui regna la morte. Da un momento all'altro può piombarci addosso qualche tigre o qualche altro animale non meno pericoloso.

– E come faremo a dirigerci in mezzo a questi bambù? – chiese l'ufficiale, il quale si trovava molto a disagio fra quel caos di vegetali.

– Seguiremo la via tracciata dalla tigre e ritorneremo per la medesima – rispose il capitano. – Aprite gli occhi e badate di non far fuoco che a colpo sicuro.

La fiera, nel fuggire colla preda, aveva aperto fra le canne un largo solco, perfettamente visibile. Molti di quei vegetali anzi erano stati spezzati e giacevano al suolo.

Il capitano stette un momento immobile ascoltando con grande attenzione, poi s'avanzò su quella specie di sentiero con passo lento, gli occhi in guardia e il fucile imbracciato onde essere pronto a far fuoco.

Il signor Vilson lo aveva coraggiosamente seguìto, guardandosi però di frequente alle spalle, temendo una sorpresa.

Percorsi cinquanta o sessanta passi, i due cacciatori si erano arrestati di comune accordo.

– Avete udito? – aveva chiesto il capitano.

– Sì, – aveva risposto l'ufficiale, – mi parve un lamento.

– Che il nostro povero marinaio sia stato abbandonato in questi dintorni?

– Possibile che la tigre non lo abbia divorato?

– Questi animali sono molto astuti, signor Vilson. Forse la tigre si è accorta di essere inseguita ed ha lasciato la preda per essere libera.

– Badate! Forse ci spia e si prepara a piombarci addosso.

In quel momento, in mezzo alle piante, si udì un urlo acuto, straziante.

– È il nostro marinaio! – esclamò il capitano.

– Sì, è lui! – rispose l'ufficiale.

Dimenticando ogni prudenza si erano slanciati innanzi, rovesciando le canne che chiudevano loro il passo.

Dopo una corsa di dieci minuti giungevano dinanzi ad una piccola spianata erbosa, in mezzo alla quale s'alzava solitario un bellissimo palmizio tara dal folto fogliame.

Alla base dell'albero scorsero qualche cosa di biancastro e che subito non riuscirono a sapere che cosa fosse.

Il capitano si era arrestato puntando il fucile, mentre l'ufficiale si era voltato indietro credendo di veder sbucare la tigre.

– Che sia qualche animale? – si chiese il capitano, con una certa ansietà. – Cosa dite voi, signor Vilson?

L'ufficiale, non avendo veduto comparire la fiera, aveva pure fissato gli occhi su quell'ammasso biancastro.

– Non lo vedo muoversi – disse.

– Andiamo a vedere, signor Vilson.

– Siate prudente, capitano.

– Ho il fucile puntato. Voi rimanete qui e non staccate gli sguardi dalle canne che circondano la spianata.

– Che sia vicina la tigre?

– Lo temo, signor Vilson.

Il capitano, dopo d'aver guardato a destra ed a manca, si avanzò con precauzione verso l'albero, tenendo gli sguardi fissi sulla massa biancastra, la quale conservava una immobilità assoluta.

Ad un tratto, Vilson udì mandare un grido d'orrore...

– Il nostro marinaio!

Si erano precipitati tutti e due verso l'albero in preda ad una viva commozione.

Il povero James si trovava là, disteso sull'erba, senza vita. Aveva il petto squarciato da un tremendo colpo d'artiglio e la parte superiore del capo schiacciata.

Il capitano gli posò una mano sul cuore: non batteva più.

– È morto! – disse con voce strozzata.

– E la tigre? – chiese il signor Vilson.

– Sarà nascosta in questi dintorni; accortasi che noi la inseguivamo, ha abbandonato la preda dopo d'averla finita coi denti e cogli artigli. Signor Vilson, portiamo a bordo questo disgraziato e diamogli onorevole sepoltura.

– Sono pronto ad aiutarvi, capitano.

Avevano appena sollevato il cadavere, quando il silenzio che regnava sulla tenebrosa jungla, fu improvvisamente rotto da un urlo rauco, cavernoso. Era la tigre che protestava, vedendosi portar via la preda.

Il capitano e l'ufficiale avevano lasciato ricadere il cadavere ed avevano afferrato i fucili, indietreggiando fino al tronco del palmizio.

A cinquanta passi da loro, le alte cime delle canne si agitavano, come se qualche animale cercasse d'aprirsi un passaggio.

Per alcuni istanti udirono un lieve sussurrìo, poi ogni rumore cessò.

– Ci spia – disse il capitano, tergendosi alcune stille di sudore freddo.

– La vedete? – chiese Vilson.

– No, ma vi dico che ci spia. Non sentite questo odore di selvatico?

– Sì, capitano.

Si curvarono cercando di discernere qualche cosa attraverso la fitta massa dei vegetali senza però poter vedere nulla.

Ritornarono verso il cadavere e lo risollevarono. Il medesimo urlo rauco, più forte e più minaccioso, si fece udire in mezzo alle canne.

La tigre ci teneva alla sua preda e non intendeva di lasciarsela portar via; ma nemmeno i due ufficiali volevano lasciargliela.

– Andiamo a scovarla – disse il capitano. – Preferisco affrontarla qui, su questo terreno scoperto piuttosto di doverla combattere fra le canne. Cosa dite, signor Vilson?

– Sono del vostro parere.

– Allora venite.

L'urlo della fiera si era udito in mezzo ad un macchione di mussenda dalle foglie sanguigne. Doveva quindi trovarsi nascosta là sotto.

– Fate fuoco in mezzo a quelle foglie – disse il capitano. – Se la fiera sfugge alla palla, sosterrò io l'assalto.

Il signor Vilson mise un ginocchio a terra e colpì dove presumeva fosse la belva. Lo sparo non era ancora cessato, quando si vide la tigre balzare fuori dal cespuglio e slanciarsi verso il luogo ove giaceva il cadavere del marinaio.

Voleva ancora portarsi via la preda.

Il capitano però in due salti aveva raggiunto l'albero, puntando risolutamente il fucile.

L'uomo e la fiera stettero alcuni istanti immobili, guardandosi l'un l'altro. Il capitano mirava sempre, con grande calma; la tigre, raccolta su se stessa, pareva pronta a scagliarsi sull'audace che osava tagliarle la via.

Una detonazione rimbombò.

La belva aveva fatto un gran salto, mandando un urlo feroce. La si vide trascinarsi penosamente verso le canne, quindi stramazzare bruscamente al suolo.

Era morta.

I due ufficiali, temendo che non fosse sola, appena vistala cadere, afferrarono il cadavere del marinaio e si slanciarono verso il sentiero che avevano poco prima percorso, giungendo felicemente sulla riva del fiume.

L'indomani, dopo sorto il sole, ritornarono nella jungla con una numerosa scorta di marinai desiderando avere la pelle della terribile belva.

Non trovarono che poche ossa e pochi ciuffi di pelo. Durante la notte i coccodrilli l'avevano divorata.