Il Baretti - Anno II, n. 12/Riccardo Bacchelli

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Giuseppe Raimondi

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Ritorno di Leopardi Elogio delle formule

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RICCARDO BACCHELLI

J'ai été d'esprit depuis l'hiver de 1826, auparavant je me faisais par paresse...

Stendhal: Vie de H. Brulard.


I.

Se, come usava nei vecchi lunari, per ogni poeta d’un certo rispetto si dovesse scegliere il mese dell’anno che gli si adatta, credo che per Bacchelli si pensasse al giugno, mese dei caldi fieni e delle rose già cadute. In giugno pare il verde della vigna, ancora d’acerba età, farsi quasi grigio al sole, le strade provinciali cominciano a imbiancarsi per la polvere; sotto qualche viale, o all’attesa di un tram nell’angolo più consueto della città il profumo notturno dei tigli giunge recando col vento una lucciola incerta; onde vien fatto di pensare che la giovinezza non abbia, fra tanti, giorni più opportuni di codesti per sentirsi in tempo a vivere. C’è nella poesia di Bacchelli ricordo e senso della trasognata e torbida natura del principio d’estate, e il presagio di averla ben presto abbandonata che gli farebbe dire, con Baudelaire: «Adieu, vive clartè de nos étés trop courts». E le metafisiche stanchezze di cui si fa cenno nei suoi Poemi Lirici dubito che sian un poco quelle dei primi caldi, che illanguidiscono il corpo. Era fin d’allora, nè adolescente nè adulto, il suo vorace istinto di definire il mondo, il suo fisico e materiale modo di penetrar nelle cose, la sua salute espansiva che gli dava il senso del possesso, e lo metteva, per tanta naturale prosperità, in uno stato di attesa contemplativa. Le persone e le ore di tale contemplazione non potevano che realizzarsi letterariamente nel tema e nelle forme di un lento, patetico se pure contrastato e ragionativo idillio. Perchè non sarebbe idillico e sovrannaturale il tono dei dialoghi platonici? Applicata a temi narrativi, come nel «Lodovico Clò», o a temi moralistici e di riflessione storica come nelle «Memorie» o altrove, la sua natural vena di scrittore si placa e riposa volentieri nel rotto e filato andamento dell’idillio che è sempre un poco favoleggiante e meraviglioso. Esimio ed Aminta sarebbero i benigni patroni di codesta poesia. Dove la sua grazia figurativa tende a conchiudersi più patetica con l’ornata sentenza di un proverbio, par ritrovare l’incauto modesto e famigliare, e per questo più affettuoso, di quelle vecchie allegorie delle stagioni in cui anonimi pittori mettevan il fiore della loro paesana sensibilità. In Bacchelli e riconoscibile l’Emilia, questa antica e fertile regione italiana dove nascita, memorie troppe e affetti ci tengono legati. Non diversamente l’esperto agricoltore ritrova nel colore del grano o nella limpidezza del vino, le qualità native che li fanno propri delle nostre parti. Uscito per «le strade rettilinee del Bolognese» gli occhi e la fantasia gli son restati a quel sole, a quella bianca polvere, a quel verde scuro delle collinette verso la Romagna, alla freschezza immemore delle acque del Reno. E’ la civile ed operosa Emilia, che nei giorni di mercato sulle piazze acciottolate affluisce intorno ai portici e alle basi delle rozze torri, e fa sentire la voce della sua tranquilla ricchezza agreste. Indugi e raffinatezze che chiamerei dialettali, se mi s’intende, sono per l’appunto nella sua studiata lingua il segno delle radici ch’egli ha in questa terra. Il Pascoli più avveduto, quello di disegno più sobrio, in taluni quadretti e paesaggi dell’«Ultima passeggiata» vuol partecipare, pure con mezzi confusi e naturalmente enfatici, a questa eredità emiliana e tradizionale, dalla quale Bacchelli, per conto suo, ha già cavato il miglior frutto che era lecito cavarne. Dove passa, il suo temperamento gli suggerisce di portar via con sè qualcosa che io chiamerei l’anima del paesaggio, insieme con i più impercettibili dettagli realistici che si capisce come li tenga in serbo, non usandoli. Quello che fa la sua maniera, è la decisione che mette in quest’atto. Sapessi ripresentarmi alla memoria certe passeggiate domenicali per i dintorni di Bologna e altre per le strade più vecchie della città, e cercar di immaginarmi la sua vista in apparenza svagata e distratta sfiorare quella realtà che sapeva, in cuor suo, di poter maggiormente definire!

II.

Per alcuni anni, e precisamente negli ultimi della guerra e dopo, fin verso il 1920, lo stile di Bacchelli tende a rinchiudersi in se, come fa il [p. 51 modifica] verde guscio della noce intorno al gheriglio. Dava infatti il senso di una vegetale durezza. Erano le «Memorie del tempo presente», segno della sua scontrosa giovinezza, che sentendosi crudamente giudicata in cospetto di Dio e del Diavolo se la cavava dalle strette di una questione teologica con delle sottigliezze di stile e di lingua. O malinconico e maliziosissimo amore di queste asciutte pagine dove l’anima è in fondo quella di colui che è contento del proprio male! Da ogni parte son mucchietti di cenere che par spenta, ma non è fredda, e che l'uomo aduna con un gesto di melodiosa stanchezza. (Parlo di quelle parti anticipate dalla «Voce» di De Robertis). Sensi che toccati rispondono con una voce senza speranza. La pagina sa di arso, di bruciato. In caso, sarebbero vedute di foreste carbonizzate. Metaforicamente intendo, ma che tristi paesi! E’, per dirla in poche parole, il diario della sua stagione all’inferno: «Avrò come sempre ho avuto, impazienze e sopori in amore, trasporti e sussulti, viaggi fatali, torno a tacere quanto posso; io non sono più qui; ecc.» Lo stile più che melodioso non saprei come chiamarlo, e io ho sentito esprimevi melodiose e fluenti le ore di una morte. Lo avverto svolgersi e prender spazio nell’anima con i suoni vuoti e metallici di una musica ascoltata, un pomeriggio d’estate, stando dentro una camera dove l’ombra verde metteva un senso di mobile lontananza. A queste prime memorie seguirono altre che il lettore troverà nella «Ronda» romana, nelle quali vedrà che ad un riaccostamento più franco colla realtà naturale anche la scrittura riprende per così dire il bel colore della vita. Vi si discorre ancora di paesi e dell’Italia, con la particolare nostalgia del soldato, che va tutta in dettagli e minuzie di ricordi. E’ lo stesso sentimento che dà motivo alla drammatica scontentezza di «Spartaco», dove par vero che le scene e i paesaggi si fanno scenario e dialogo. Del resto, dall’idillio non fiorisce un dialogo? L’Aminta del Tasso, che ho citato più sopra, non a caso mi sarà venuta sotto la penna. In Spartaco, è chiaramente la nostalgia di un uomo di altri paesi per la nostra terra, che dalle Alpi ripensa alla pianura Padana, all’Etruria, e di qui alla estrema Calabria, seminata di castelli sul mare, ai polverosi deserti della Sicilia dove ci ricorda Verga che fiorisce la ginestra. Non diversa è la malinconia del principe Amleto, disperato della vita ma desideroso di ritrovare in un lungo viaggio i luoghi del mezzogiorno.

III.

Bocchelli ha usato giustamente del suo privilegio di poeta, riscrivendo il suo Amleto, e facendo in modo che lo rileggessimo dopo parecchi anni dal primo. Sono opere che sforzano l’immaginazione, la occupano, e impediscono alla memoria di spiegar la bellezza di esse, le quali continuano a tenerla nel dominio della cieca meraviglia. Il loro rapporto con i mezzi normali del nostro gusto critico son troppo inconsueti. Chi di noi, a quindici anni, avrebbe potuto dire perchè tanto ci piacessero le avventure dell’hidalgo Don Chisiotte o l’incanto della Santa Cecilia di Raffaello? Certo ci piacevano, ci rapivano in mute meraviglie, e ora possiamo spiegare perchè. Di Bacchelii non si potrà mai chiarire abbastanza quanto egli sia uno scrittore fantastico. La sua più naturale inclinazione par quella di chi si abbandona alla forza fluente della propria fantasia e che di suo non può far altro che regolarne il corso, rallentarlo appena, e concedergli di allungarsi e di riposare calmamente in larghi spazi. Forse per questo è maggiormente giusta l’immagine fluviale che di lui ha fatto Vincenzo Cardarelli. La piena della sua fantasia lo porta allo scrivere con una urgenza che è tanto più invincibile quanto più giunge di lontano. Sotto la sua penna affluiscono le immagini e rombano di vita, con un calore estivo, come quando vediamo fervere il lento e assiduo volo delle api intorno ai fiori del prato. E nel sentimento di questo pieno e infrenabile maturarsi, è un poco il gesto della sua malinconia, e nell’attimo che lo regge e governa l’atto e l’avvento del suo stile. Uno stile cui tastano solo le rive della favola del mito per riuscire veramente perfetto e intonato. Stanno a dimostrarlo, la favola di Amleto; quella di Spartaco con la narrazione dei costumi e della religione della defunta Etruria fatta dal sacerdote Aronte; e la tempestosa vicenda familiare di Andromaca; il mito dei mostri di mare nati dalle Cosmogonie, e tutta l’ironica e satirica epopea del tonno, di festosa memoria, a trovare il clima temperato della quale, forse. Bacchelli pensò fin da quando stendeva il commento della «Batrocomiomachia» leopardiana. Ma perchè non ricorderemo il «Diavolo e le Pentole», scritto in un estate e un autunno di burrascosi avvenimenti politici? Farsa aristofanesca, dialoghetti alla maniera di Luciano, l’autore ci conduceva per mano attraverso un festival di meraviglie, a udir l’arguto diavolo faustiano, a sentir la storia di un re negro, e Ravenna abbandonata dal mare, e Deucalione e Pirra tessere in versi la tela di un idillio classico. Io voglio tornare colla memoria a quella primavera dell’ultimo anno di guerra, quando andavo a trovar Bacchelii, ed egli, così per provarsi a scrivere un dramma, stava lavorando alle prime scene dell’Amleto. Nella sua rossa casa, dove le finestre delle belle camere guardavano in un giardino bolognese, si mostrava contento dell’idea di poter svolgere su d’un tema, così indovinato da parer personale, i suoi motivi lirici. Mi par di sentire la sua voce mentre ripeteva gli ammonimenti del vecchio Polonio alla figlia, e la musicale stanchezza dei monologhi di Amleto, di quel caratteristico modo di parlar da solo ad alta voce, o colla propria coscienza, che pure essendo di Shakespeare non è meno della natura moraleggiante e sofistica di Bacchetti. I motivi, dirci anzi, sono risvegliati instancabilmente dall’intima coscienza e il linguaggio che li esprime ha le asprezze, i trasalimenti e gli urti per cui il sangue umano diventa memoria ed anima. La vita d’Amleto! Noi crediamo sempre di conoscerla, e invece non la conosciamo a fondo. Grava su queste pagine, un triste fiato di carne mortale, e quando vi si parla di morte è con un accento di stupefatta realtà. Anche la noia vi ha la sua buona parte, e il languore di un corpo che s’intorbida nella salute fisica quanto deperisce quella del cuore, onde gli par d’invecchiare e che ogni ora sia veramente trascorsa senza rimedio: «Il mio peccato, se mai, è che per me ciò che passa non passa abbastanza in fretta». Oh questo principe danese che ha letto Nietzsche e Rimbaud! Sono dialoghi dove le parole hanno la lucidezza delle parole dette in sogno, alle quali non la vita, ma quell’immagine della morte che è il sonno, dà un timbro inimitabile. Dimostrare il significato della figura d’Amleto è compito d’altra critica, la mia e professione più modesta. Mi basta ricordare alcune sue stanche movenze ispirate ad un sinistro garbo. La sua voce è fatta solo di echi improvvisi, come ci accade di udir ritornare, in aperta valle, un richiamo lanciato per la campagna. E’ un’arte, è tutto un sistema di echi sconcertanti, che posson riuscir fino angosciosi. I suoi occhi vedono fisse immagini ed epoche, guardano con una immane pazienza orientale, o nordica, che è lo stesso. Oh incredibile lentezza! La sua luce è riflesso, è il guscio vuoto che la luce vitale lui già abbandonato. La nostra umana discrezione non ci consente di dire in che ora, di qual giorno avremmo il senso d’esserne stati gli inconsapevoli testimoni. Ma quando fu? Chi avrà la memoria tanto ferma da fissare una data? Certo, o amico Bacchelli è stato nei tempi della cara gioventù, ed è quindi perdonabile se ci illudiamo di aver partecipato a qualche confidenza di quel freddo personaggio, che è Amleto!

28 giugno 1925. Giuseppe Raimondi.