Il Baretti - Anno II, n. 2/I nostri maestri

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Francesco Bernardelli

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La pittura futurista

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I NOSTRI MAESTRI

Essere uomo, introdurre l’uomo alla vita poetica: ecco una nobile e commossa disciplina letteraria in espiazione delle soverchie delicatezze e sfumature di tutta una generazione d’artisti preziosi eruditissimi e femminei. Quando George Duhamel e Charles Vildrac, con il cuore tremante d’amore e di sofferenza, s’accorsero di non essere scribi cinesi in una torre d’avorio, ma uomini vivi in seno ad un’umanità viva, e, turbati stupiti riconoscenti, offersero alla poesia le parole nude dure sode e schiette della bontà e della speranza, parve che un intenerimento, uno struggimento nuovo, aspro e pietoso, torcesse improvvisamente il loro canto, come dal mosto generoso si spreme un vinetto arzillo chiaro famigliare, e confortatore.

Et j’ai la volonté candide des hosties... diceva l’uno, e l’altro faceva dono di sè al lettore, fantasticando pensoso di

Un homme dont la vie rayonne large et loin,

Qui ne s’écarte de personne ni de rien,

Et respire à son aise dans toutes les maisons.

Quest’arte poetica presumeva necessariamente due cose: aver assaporato tutta la tristezza umana con patetico entusiasmo, e possedere la virtù degli apostoli. Perchè far sentire alle creature ignote avvilite desolate, al nostro prossimo Innominato, che la vita più miserabile può essere colma dì poesia e degna d’essere vissuta, è compito del poeta, in quanto creatore d’anime e di intimità spirituali: ma è allora altresì urgente essere uomini tali da non dover arrossire di fronte agli eroi dei propri libri.

Cosi sotto gli auspici di Walt Whitman, americano per cui la vita spirituale esiste empiricamente, e quindi maestro di vita e poeta, fiorivano in terra di Francia, nell’anno oramai remoto 1910, due volumetti di liriche: Selon ma loi e Livre d’Amour.

Dei quali non si poteva neppur dire che fossero deliziosi, tanto mordente e turbatrice suonava in essi la voce del cuore e della coscienza, persuasiva realtà quotidiana e non oggetto di lusso.

Ma pensate al valore che quest’aggettivo: delizioso, aveva, al principio del secolo, acquistato nello scetticismo dei critici e nella sensibilità estetizzante dei lettori. I romanzi di Anatole France erano deliziosi, i drammi di Maeterlinck deliziosi, i versi di Samain deliziosi, i viaggi di Loti deliziosi... tutto era delizioso oramai nella letteratura francese: ahimè! giustamente.

Mi è sfuggito un ahimè! ma lungi dalle mie intenzioni sia qualunque moto di irriverenza o di fatua rinnegazione, e sacri rimangano alla nostra gratitudine i compiuti maestri del romanzo della critica della poesia dell’eruzione. Piuttosto io volevo denunciare un certo senso di sazietà che reagì candidamente a tutto un periodo di splendore letterario. Delizioso è appunto ciò che è perfetto, definitivo, senza scappatoie e senza ribellioni. E’ qualcosa che ci fascia, ci blandisce, ci seduce e ci snerva. E’ un’esperienza del mestiere consumata e astuta, ed una possibilità di dir bene qualunque cosa: è l’arte del giocoliere che rende ogni miracolo facile e dilettoso, ed annulla tutte le difficoltà dello spirito e dello stile. Quando uno scrittore sa tutto, comprende tutto, chiarifica tutto, risolve tutto con la stessa grazia maliziosa corretta impeccabile e désabusée, quando uno scrittore dipinge, fa della musica, analizza i suoi personaggi, s’intrufola nella storia, si sbizzarrisce misticamente sull’orlo delle più astruse teogonie, agita i problemi scientifici, solletica il mistero, civetta colla morale, discute predica motteggia con la stessa disinvolta abilità, con.la stessa sottigliezza di ricerche e di difetti, con la stessa felicità simulatrice, noi diciamo ch’egli è irresistibile e inarrivabile, noi diciamo ch’egli è delizioso: ma l’aria ci manca cd il respiro ci muore in gola. Perchè sentiamo che dopo quella letteratura cosi raffinata e completa, non resta più nulla: perchè sentiamo che una tradizione millenaria di coltura buon gusto e immaginazione si è venuta ad esaurire lì, e tutto il mondo è levigato sminuzzato ridotto a quelle mirabili forme e proporzioni, senz’altra possibilità di sfogo e di fantasia. Perchè sentiamo essenzialmente che tutta la vita è stata addomesticata ad un prodigioso artificio, ed in quell’artificio conclusa e risolta.

Ironico o bonario, pessimista o scherzevole, Anatole France, che ha argutissimamente conosciuto gli uomini attraverso i libri, e su l’esperienza d’innumerevoli libri vecchi composto nuovi libri ed incantevoli, è di tale perfezione l’esempio più scoraggiante e fascinatore.

In siffatti casi sarebbe bene ricominciare da capo. Ma non c facile: per quanto non sia poi difficile trovare chi, tutto rugiadoso della sua fresca e silvestre sensibilità, tutto ingenuo sbigottito e dolorante, si faccia avanti improvviso con un gran gesto umano, e nato poeta, oltre la letteratura agli uomini tenda le braccia ed alle cose, per stringersele al cuore e sentirle vive impensate rivelatrici in un verginale impeto di amore.

Ma come sanno far bene tutto ciò che fanno questi letterati francesi, ed anche tutto ciò che noi vorremmo fare! noi al di qua dell’Alpi che abbiamo la baldanzosa abitudine di scoprire regolarmente la nostra più urgente originalità letteraria nelle opere invecchiate di dieci anni sul mercato di Parigi.

E che antico e crudele destino della letteratura francese è mai questo di raggiungere con sorprendente facilità la perfezione e dissolvere cosi in un oceano di spirituali malizie ogni pericoloso impulso di poesia: dappoiché l’impulso poetico è troppo spesso irrimediabilmente fatale al politissimo e furbesco mestiere di letterato!

E per quanto inalbcita remota imprevista sia l’ispirazione, per quanto grossa e tumultuosa la foga del nuovo, e acuta la saporosa vivezza delle cose scoperte e subitamente amate, non passa poi gran che della stagion letteraria che tutto ciò si spiana chiarifica e sottilizza in mirabili gioielli di squisitissimo gusto e d’impercettibile ironia.

Shakespeare non ha mai attecchito in terra di Francia: da Voltaire a Maeterlinck ed oltre, la più cara e caratteristica interpretazione gauloise (tutta finezza e sentimento) del grande Will è forse quella di Paul Fort:

-- rêves des fées, combats des hommes, feuillages, gouffres étoilés, et les oreilles de Bottom. - Puck rit et rit!

E la barbarie di Claudel è una cosa curiosa con quella bruschezza e tracotanza selvaggia rifatta di sui greci (i classici, oh guarda caso!) e la bizzarria d’un’immaginazione all’americana che dalle più comuni, e sfacciate visioni ha il coraggio dì trarre tutte le conseguenze (metafore grattacielo) e quell’estetica deliquescenza cattolica che rasenta ad ogni piè sospinto, solletichio gradevole, la cavillosa ambiguità dell’eresia: dosatura cosi abile che tu non sai se più ammirarvi il dono di poesia o l’intelligenza simulatrice e arguta.

Orbene quel culto dell’uomo, che Vildrac e Duhamel inauguravano per proprio conto in tono minore ma con sì fraterna e sensitiva sincerità, sì esalta tosto in un umanesimo di più ampio e rumoroso respiro: l’unanimismo di Jules Romains, che sarebbe la religione dell’umanità in quanto gruppo folla città, divinità transitoria e misteriosa, in cui gli esseri umani posti a contatto si fondono creando un organismo nuovo trasfigurato e sublime. La sociologia di Tarde o Durkheim si volatilizza nel Manuel de Déification, e gli Dei sociali, coppia famiglia strada villaggio e via via, nascono ad ogni istante per rinascere fantasiosa suggestione della Vie unanime.

Il culto dell’uomo, dalla sua nuda semplice e quasi arida asprezza e pietà, si elabora in una abilisima complicanza di misticismo ideologico (concetto di solidarietà, antiiudividualismo, vaghezza internazionalista) e d’intellettualismi quasi scientifici e d’immaginosa vivacità stilistica.

Così sì complicano e si risolvono poi in una comoda elegante lucida e raffinatissima esperienza libresca tutte le possibilità poetiche e psicologiche della letteratura francese. Non vi è argomento o stato d’animo per quanto eccezionale lontano e diverso che un letterato francese non possa trattare con garbo e penetrazione e perizia mirabili: non vi è allusione spirituale che un letterato francese non possa convertire almeno in una fugace fioritura di rose, ed in una dilettosa sorpresa di stile di fantasia e di emozione.

E’ una tradizione: ve n’è di grandi di mediocri e di superflui, ma tutti i letterati francesi sono più o meno cosi, tutti hanno nel sangue una secolare eredità di finezza di spirito di arguzia sensitiva e di scetticismo appassionato, tutti hanno tra’ mani un mezzo d’espressione, uno strumento letterario prodigioso di souplesse di varietà e di nervosa efficacia: la lingua francese d’oggi, che, attraverso il lavorio incessante d‘innumerevoli generazioni di scrittori, è divenuta qualcosa di fluido e incisivo ad un tempo, di raro fascinoso e famigliare come la capricciosa irrequietezza dell’attività creatrice stessa, ora dialetticamente tagliente, ora abbandonata e sognante. Tesoro linguistico che dopo aver sofferto le violenze romantiche di un Victor Hugo e l’angelizzazione preziosa di un Mallarmé, è capace di dire tutto ciò che sì vuole, di accendersi nei lussuosi simbolismi di Henry de Regnier, di umiliarsi grigio e sommesso nei versetti di Vildrac, di sottilizzare robusto trasparente profondo nella prosa di Gide: di reggere infine ad ogni nuova e grottesca combinazione di sonorità, ad ogni maquillage, burlesco o fantaisiste, ed a tutti gli argots a tutte le imposture a tutti i dadaismi: al cubismo di Apollinaire come al brio di Carco: sempre garbato soigné chiacchierino delizioso, trattenuto sull’orlo della decomposizione da una sua interior misura e saggezza che potremmo dire istintivamente classica.

Ma l’intelligenza vigile e penetrante, l’intelligenza che analizza irresistibile ed è insieme un modo d’intuizione cosciente ironica ed evocatrice, l’intelligenza critica e costruttiva, dissociazione d’idee e creazione di rapporti e sensazioni inaspettate, è pur sempre quella che tiene tutti i fili palesi od invisibili della letteratura francese.

Nulla di veramente oscuro qui: neppur l’ombra di quel torbido brancolare a tentoni nei caotici abissi dello spirito che in Russia è religiosità cristianeggiante, ed a Parigi, convertito in filosofica galanteria, si sbizzarrisce sulla psicanalisi del Prof. Freud nonché sulle piacevoli e pepate dottrine dei refoulements alla moda e della sessualità onnipresente e scherzosa. Poeti come Hebbel, Ibsen o Yeats saranno qui sempre inafferrabilmente stranieri. André Gide ha attirato sì, sull’orizzonte poetico francese un po’ tutte le costellazioni europee: ha invocato Nietzsche Browning Tagore e William Blake, ha divulgato le Mariage du Ciel et de l’Enfer tempestoso conflitto di sacre e profane visioni in una mistica regione spirituale, ed ha glossato Baudelaire e Stendhal in opere di una sensibilità emozionante, stillanti esotismo inquietudine e mistero da ogni loro parola: ma quando poi si pone a parlare di Dostoievski noi dobbiamo riconoscere che non si potrebbe è vero essere più comprensivi ed illuminatori ed abili anatomisti di così, ma che appunto per questo la più ondeggiante e turbatrice e ineffabile irrazionalità psichica del romanziere russo sfugge anche una volta, o meglio si frantuma nell’arguta incisività dell’autore di Prétextes, noi dobbiamo riconoscere che l’ansietà morale dell’immoralista Gide è tuttavia cosi vasto e pacato e tollerante ritmo da permettere ogni lusso dell’immaginazione e della coscienza, e che l’intelligenza e la sensibilità francesi sono pur sempre eccellenti e dilettosi sfogatoi spirituali.

Barres Maurras e Julien Benda si schieravano contro ogni déracinements e già temevano che l’intelligenza francese, minata da follia romantica, stesse per essere definitivamente disfatta dal bergsonismo, dalla religione dell’istinto puro e dell’indistinta intuizione creatrice. Non c’è di che. L’intelligenza francese è sempre al centro di tutte le opere d’arte francesi. La coltura, la perizia artistica l’attività raziocinante non fanno che arricchire continuamente la letteratura francese di tutte le derivazioni gli artifici le immaginose parafrasi che da un primitivo germe spirituale si possono logicamente trarre, ed impoverirla ad un tempo, in questa chiarificazione in questo prodigioso sfruttamento, d’infinite possibilità poetiche.

Quel culto dell’uomo di cui si parlava è oramai il culto della personalità umana, con le sue malattie alterazioni e stravaganze, e, auspici Meredith e Proust, agilissima fonte, nelle ultime opere di un Drieu de la Rochelle di un Maurois e via dicendo, delle più sottili ed arbitrarie divagazioni.

Così il gusto dell’avventura dell’ignoto del fantastico ha trovato in Valery Larbaud in Pierre Mac Orlan in Morand in Giraudoux dei divulgatori ora preziosi ora liricheggianti ora monelleschi ma sempre confortevoli misurati, a tu per tu col lettore.

Cosi a ben vedere tutto è irresistibilmente chiaro nella letteratura francese. Anche Mallarmé, l’enigmatico ed irreale Mallarmé, che mai altro fece se non coscienziosamente esaltare in un fittizio mistero una instancabile passione intellettuale? Sì, l’intelligenza francese intacca l’ispirazione poetica nel suo stesso aggrovigliato addensarsi, e ad ogni poesia dà fondo con una freddezza che rasenta a volte lo scetticismo a volte la perversità.

Per questo l’incontro di un Duhamel o di un Vildrac nella loro prima ingenuità lirica è infinitamente caro e raro, per questo sono rarissimi in Francia i poeti rozzi ciclopici irti e paurosi che comprimono in un solo versetto oscuro e splendido più mondi che l’intelligenza umana non sappia poi enumerare.

Francesco Bernardelli.