Il Giorno/Il Mezzogiorno

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Il Mezzogiorno

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Il Mattino Il Mattino seconda edizione

Il Mezzogiorno


Ardirò ancor tra i desinari illustri
sul meriggio innoltrarmi umil cantore,
poiché troppa di te cura mi punge,
signor, ch’io spero un di veder maestro
e dittator di graziosi modi5
all’alma gioventú che Italia onora.
     Tal, fra le tazze e i coronati vini,
onde all’ospite suo fe’ lieta pompa
la punica regina, i canti alzava
Jopa crinito: e la regina intanto10
da’ begli occhi stranieri iva beendo
l’oblivion del misero Sicheo.
E tale, allor che l’orba Itaca in vano
chiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio s’udia co’ versi e con la cetra15
la facil mensa rallegrar de’ Proci,
cui dell’errante Ulisse i pingui agnelli
e i petrosi licori e la consorte
invitavano al pranzo. Amici or piega,
giovin signore, al mio cantar gli orecchi,20
or che tra nuove Elise e novi Proci,
e tra fedeli ancor Penelopee,
ti guidano a la mensa i versi miei.
     Giá dal meriggio ardente il sol fuggendo
verge all’occaso: e i piccioli mortali25
dominati dal tempo escon di novo
a popolar le vie ch’all’oriente
volgon ombra giá grande: a te null’altro
dominator fuor che te stesso è dato.
     Alfin di consigliarsi al fido speglio30
la tua dama cessò. Quante uopo è volte
chiedette e rimandò novelli ornati;
quante convien de le agitate ognora
damigelle, or con vezzi or con garriti,
rovesciò la fortuna; a sé medesma35
quante volte convien piacque e dispiacque;
e quante volte è d’uopo a sé ragione
fece e a’ suoi lodatori. I mille intorno
dispersi arnesi alfin raccolse in uno
la consapevol del suo cor ministra:40
alfin velata d’un leggier zendado
è l’ara tutelar di sua beltate;
e la seggiola sacra, un po’ rimossa,
languidetta l’accoglie. Intorno ad essa
pochi giovani eroi van rimembrando45
i cari lacci altrui, mentre da lungi
ad altra intorno i cari lacci vostri
pochi giovani eroi van rimembrando.
     Il marito gentil queto sorride
a le lor celie; o, s’ei si cruccia alquanto,50
del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
oggi, o signore, e s’egli a par del vulgo
prostrò l’anima imbelle, e non sdegnosse
di chiamarsi marito, a par del vulgo55
senta la fame esercitargl’in petto
lo stimol fier degli oziosi sughi
avidi d’ésca: o s’a un marito alcuna
d’anima generosa orma rimane,
ad altra mensa il piè rivolga, e d’altra60
dama al fianco s’assida, il cui marito
pranzi altrove lontan, d’un’altra a lato
ch’abbia lungi lo sposo: e cosí nuove
anella intrecci alla catena immensa
onde, alternando, Amor l’anime annoda.65
     Ma sia che vuol; tu baldanzoso innoltra
ne le stanze piú interne. Ecco, precorre
per annunciarti al gabinetto estremo
il noto stropiccio de’ piedi tuoi.
Giá lo sposo t’incontra. In un baleno70
sfugge dall’altrui man l’accorta mano
de la tua dama: e il suo bel labbro intanto
t’apparecchia un sorriso. Ognun s’arretra,
che conosce i tuoi dritti, e si conforta
con le adulte speranze, a te lasciando75
libero e scarco il piú beato seggio.
Tal, colá dove infra gelose mura
Bizanzio ed Ispaán guardano il fiore
de la beltá che il popolato Egeo
manda e l’armeno e il tartaro e il circasso80
per delizia d’un solo, a bear entra
l’ardente sposa il grave munsulmano.
Tra ’l maestoso passeggiar gli ondeggiano
le late spalle, e sopra l’alta testa
le avvolte fasce: dall’arcato ciglio85
ei volge intorno imperioso il guardo;
e vede al su’ apparire umil chinarsi
e il piè ritrar l’effeminata, occhiuta
turba, che sorridendo egli dispregia.
     Ora imponi, o signor, che tutte a schiera90
si dispongan tue grazie; e a la tua dama,
quanto elegante esser piú puoi, ti mostra.
Tengasi al fianco la sinistra mano
sotto il breve giubbon celata; e l’altra
sul finissimo Un posi, e s’asconda95
vicino al cor: sublime alzisi ’l petto;
sorgali gli omeri entrambi, e verso lei
piega il duttile collo; ai lati stringi
le labbra un poco; vèr lo mezzo acute
rendile alquanto, e da la bocca poi,100
compendiata in guisa tal, sen esca
un non inteso mormorio. La destra
ella intanto ti porga: e molle caschi
sopra i tiepidi avori un doppio bacio.
Siedi tu poscia; e d’una man trascina105
piú presso a lei la seggioletta. Ognuno
tacciasi; ma tu sol, curvato alquanto,
seco susurra ignoti detti a cui
concordili vicendevoli sorrisi
e sfavillar di cupidette luci,110
che amor dimostri, o che lo finga almeno.
     Ma rimembra, o signor, che troppo nuoce
negli amorosi cor lunga e ostinata
tranquillitá. Su l’oceáno ancora
perigliosa è la calma: 0I1 quante volte115
dall’immobile prora il buon nocchiere
invocò la tempesta! e si crudele
soccorso ancor gli fu negato; e giacque
affamato, assetato, estenuato,
dal velenoso aere stagnante oppresso,120
tra l’inutile ciurma al suol languendo.
Però ti giovi de la scorsa notte
ricordar le vicende; e con obliqui
motti pungerl’alquanto: o se, nel volto
paga piú che non suole, accòr fu vista125
il novello straniere; e co’ bei labbri
semiaperti aspettar, quasi marina
conca, la soavissima rugiada
de’ novi accenti: o se cupida troppo
col guardo accompagnò di loggia in loggia130
il seguace di Marte, idol vegliarne
de’ feminili voti, a la cui chioma
col lauro trionfal s’avvolgon mille
e mille frondi dell’idalio mirto.
     Colpevole o innocente, allor la bella135
dama improvviso adombrerá la fronte
d’un nuvoletto di verace sdegno
o simulato; e la nevosa spalla
scoterá un poco; e premerá col dente
l’infimo labbro: e volgeransi alfine140
gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors’anco rintuzzar di tue querele
saprá l’agrezza; e sovvenir faratti
le visite furtive ai tetti, ai cocchi
ed a le logge de le mogli illustri145
di ricchi cittadini, a cui sovente,
per calle che il piacer mostra, piegarsi
la maestá di cavalier non sdegna.
     Felice te, se mesta e disdegnosa,
la conduci a la mensa; e s’ivi puoi150
solo piegarla a comportar de’ cibi
la nausea universal! Sorridan pure
a le vostre dolcissime querele
i convitati; e l’un l’altro percota
col gomito maligno: ah nondimeno155
come fremon lor alme; e quanta invidia
ti portan, te veggendo unico scopo
di si bell’ire! Al solo sposo è dato
nodrir nel cor magnanima quiete,
mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto160
docil fidanza ne le innocue luci.
     O tre fiate avventurosi e quattro,
voi del nostro buon secolo mariti,
quanto diversi da’ vostr’avi! Un tempo
uscia d’Averno con viperei crini,165
con torbid’occhi irrequieti e fredde
tenaci branche, un indomabil mostro,
che ansando e anelando intorno giva
ai nuziali letti; e tutto enipiea
di sospetto e di fremito e di sangue.170
Allor gli antri domestici, le selve,
Tonde, le rupi, alto ulular s’udiéno
di feminili strida: allor le belle
dame, con mani incrocicchiate e luci
pavide al ciel, tremando, lagrimando,175
tra la pompa feral de le lugubri
sale, vedean dal truce sposo offrirsi
le tazze attossiccate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! il tuo furor medesmo
oltre l’Alpi, oltre ’l mar destò le risa
presso agli emoli tuoi, che di gelosa
titol ti diéro; e t’è serbato ancora
ingiustamente. Non di cieco amore
vicendevol desire, alterno impulso,
non di costume simiglianza or guida
gl’incauti sposi al talamo bramato;
ma la Prudenza coi canuti padri
siede, librando il molt’oro e i divini
antiquissimi sangui: e allor che l’uno
bene all’altro risponde, ecco Imeneo
scoter sua face; e unirsi al freddo sposo,
di lui non giá, ma delle nozze amante,
la freddissima vergine, che in core
giá volge i riti del bel mondo; e lieta
l’indifferenza maritale affronta.
Cosí non fien de la crudel Megera
piú temuti gli sdegni. Oltre Pirene
contenda or pur le desiate porte
ai gravi amanti; e di feminee risse
turbi Oriente: Italia oggi si ride
di quello ond’era giá derisa; tanto
puote una sola etá volger le menti!
     Ma giá rimbomba d’una in altra sala
il tuo nome, o signor; di giá l’udiro
l’ime officine, ove al volubil tatto
degl’ingenui palati arduo s’appresta
solletico che molle i nervi scota,
e varia seco voluttá conduca
fino al core dell’alma. In bianche spoglie
s’affrettano a compir la nobil opra
prodi ministri: e lor sue leggi détta
una gran mente, del paese uscita
ove Colbert e Richelieu fúr chiari.
Forse con tanta maestade in fronte,
presso a le navi ond’Uio arse e cadéo,
per gli ospiti famosi il grande Achille
disegnava la cena: e seco intanto
le vivande cocean sui lenti fochi
Pátroclo fido e il guidator di carri
Automedonte. O tu, sagace mastro
di lusinghe al palato, udrai fra poco
sonar le lodi tue dall’alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar pur macchia
nel tuo lavoro? Il tuo signor farassi
campion de le tue glorie; e male a quanti
cercator di conviti oseran motto
pronunciar contro te; ché sul cocente
meriggio andran peregrinando poi
miseri e stanchi, e non avran cui piaccia
piú popolar con le lor bocche i pranzi.
     Imbandita è la mensa. In piè d’un salto
alzati, e porgi, almo signor, la mano
a la tua dama; e lei, dolce cadente
sopra di te, col tuo valor sostieni,
e al pranzo l’accompagna. I convitati
vengan dopo di voi; quindi ’l marito
ultimo segua. O prole alta di numi,
non vergognate di donar voi anco
pochi momenti al cibo: in voi non fia
vil opra il pasto; a quei soltanto è vile
che il duro, irresistibile bisogno
stimola e caccia. All’impeto di quello
cedan l’orso, la tigre, il falco, il nibbio,
l’orca, il delfino e quant’altri mortali
vivon quaggiú; ma voi con rosee labbra
la sola Voluttade inviti al pasto,
la sola Voluttá, che le celesti
mense imbandisce, e al nettare convita
i viventi per sé dèi sempiterni.
     Forse vero non è; ma un giorno è fama
che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi
fur plebe e nobiltade. Al cibo, al bere,
al l’accoppi arsi d’ambo i sessi, al sonno
un istinto medesmo, un’egual forza
sospingeva gli umani: e niun consiglio,
niuna scelta d’obbietti o lochi o tempi
era lor conceduta. A un rivo stesso,
a un medesimo frutto, a una stess’ombra
convenivano insieme i primi padri
dei tuo sangue, o signore, e i primi padri
de la plebe spregiata. I medesm’antri
il medesimo suolo oflrieno loro
il riposo e l’albergo; e a le lor membra
i medesmi animai le irsute vesti.
Sol’una cura a tutti era comune
di sfuggire il dolore, e ignota cosa
era il desire agli uraan petti ancora.
     L’uniforme degli uomini sembianza
spiacque a’ celesti; e a variar la terra
fu spedito il Piacer. Quale giá i numi
d’ilio su i campi, tal l’amico genio,
lieve lieve per l’aere labendo,
s’avvicina a la terra; e questa ride
di riso ancor non conosciuto. Ei move,
e l’aura estiva del cadente rivo
e dei clivi odorosi a lui blandisce
le vaghe membra, e lenemente sdrucciola
sul tondeggiar dei muscoli gentile.
Gli s’aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi,
e come ambrosia le lusinghe scorrongli
da le fraghe del labbro: e da le luci
socchiuse, languidette, umide fuori
di tremulo fulgore escon scintille,
ond’arde l’aere che scendendo ei varca.
     Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra,
sua prim’orma stamparsi; e tosto un lento
fremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell’arsa state il tuono s’ode
che di lontano mormorando viene;
e col profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle e la foresta intorno
mugon del fragoroso alto rimbombo,
finché poi cade la feconda pioggia
che gli uomini e le fere e i fiori e l’erbe
ravviva, riconforta, allegra e abbella.
     Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo
viventi, a cui con miglior man Titano
formò gli organi illustri, e meglio tese,
e di fluido agilissimo inondolli!
Voi l’ignoto solletico sentiste
del celeste motore. In voi ben tosto
le voglie fermentar, nacque il desio.
Voi primieri scopriste il buono, il meglio;
e con foga dolcissima correste
a possederli. Allor quel de’ due sessi,
che necessario in prima era soltanto,
d’amabile e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride voi deste
il primo esempio: tra feminei volti
a distinguer s’apprese; e voi sentiste
primamente le grazie. A voi tra mille
sapor fur noti i piú soavi: allora
fu il vin preposto all’onda; e il vin s’elesse
figlio de’ tralci piú riarsi e posti
a piú fervido sol, ne’ piú sublimi
colli dove piú zolfo il suolo impingua.
Cosí l’uom si divise: e fu il signore
dai volgari distinto, a cui nel seno
troppo languir l’ebeti fibre, inette
a rimbalzar sotto i soavi colpi
de la nova cagione onde fur tocche:
e quasi bovi, al suol curvati, ancora
dinanzi al pungol del bisogno andáro;
e tra la servitude e la viltade
e’l travaglio e l’inopia a viver nati,
ebber nome di plebe. Or tu, signore,
che feltrato per mille invitte reni
sangue racchiudi, poiché in altra etade
arte, forza o fortuna i padri tuoi
grandi rendette, poiché il tempo alfine
lor divisi tesori in te raccolse,
del tuo senso gioisci, a te dai numi
concessa parte: e l’umil vulgo intanto,
dell’industria donato, ora ministri
a te i piaceri tuoi, nato a recarli
su la mensa reai, non a gioirne.
     Ecco, la dama tua s’asside al desco:
tu la man le abbandona; e mentre il servo,
la seggiola avanzando, all’agil fianco
la sottopon, si che lontana troppo
ella non sia, né da vicin col petto
prema troppo la mensa, un picciol salto
spicca, e chino raccogli a lei del lembo
il diffuso volume. A lato poscia
di lei tu siedi: a cavalier gentile
il fianco abbandonar de la sua dama
non fia lecito mai, se giá non sorge
strana cagione a meritar ch’egli usi
tanta licenza. Un nume ebber gli antichi
immobil sempre, e ch’alio stesso padre
degli dèi non cedette, allor ch’ei venne
il Campidoglio ad abitar, sebbene
e Giuno e Febo e Venere e Gradivo
e tutti gli altri dèi da le lor sedi
per riverenza del Tonante uscirò.
     Indistinto ad ognaltro il loco sia
presso al nobile desco: e s’alcun arde
ambizioso di brillar fra gli altri,
brilli altramente. O come i vari ingegni
la libertá del genial convito
desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
maliziosetto svolazzando intorno,
reca su l’ali fuggitive ed agita
ora i raccolti da la fama errori
de le belle lontane, ora d’amante
o di marito i semplici costumi:
e gode di mirare il queto sposo
rider primiero, e di crucciar con lievi
minacce in cor de la sua fida sposa
i timidi segreti. Ivi abbracciata
co’ festivi Racconti intorno gira
l’elegante Licenza: or nuda appare
come le Grazie; or con leggiadro velo
solletica vie meglio; e s’affatica
di richiamar de le matrone al volto
quella rosa gentil che fu giá un tempo
onor di belle donne, all’Amor cara
e cara ail’Onestade; ora ne’ campi
cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
a le rozze villane il viso adorna.
     Giá s’avanza la mensa. In mille guise
e di mille sapor, di color mille
la variata ereditá degli avi
scherza ne’ piatti; e giust’ordine serba.
Forse a la dama di sua man le dapi
piacerá ministrar, che novo pregio
acquisteran da lei. Veloce il ferro,
che forbito ti attende al destro lato,
nudo fuor esca; e come quel di Marte,
scintillando lampeggi; indi la punta
fra due dita ne stringi, e chino a lei
tu il presenta, o signore. Or si vedranno
de la candida mano, all’opra intenta,
i muscoli giocar soavi e molli:
e le grazie, piegandosi dintorno,
vestiran nuove forme, or da le dita
fuggevoli scorrendo, ora su l’alto
de’ bei nodi insensibili aleggiando,
et or de le pozzette in sen cadendo
che dei nodi al confin v’impresse Amore.
Mille baci, di freno impazienti,
ecco sorgon dal labbro ai convitati;
giá s’arrischian, giá volano, giá un guardo
sfugge dagli occhi tuoi, che i vanni audaci
fulmina et arde, e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa, a cui se’ caro,
il tranquillo marito immoto siede:
e nulla impressimi l’agita e scuote
di brama o di timor; però che Imene
da capo a piè fatollo. Imene or porta
non piú serti di rose avvolti al crine,
ma stupido papavero, grondante
di crassa onda letea: Imene e il Sonno
oggi han pari le insegne. Oh come spesso
la dama dilicata invoca il Sonno,
die al talamo presieda, e seco invece
trova Imeneo; e stupida rimane,
quasi al meriggio stanca villanella
che tra l’erbe innocenti adagia il fianco
queta e sicura; e d’improvviso vede
un serpe; e balza in piedi inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il gomito, e l’anelito sospende;
e immota e muta e con le labbra aperte
obliquamente il guarda! Oh come spesso
incauto amante a la sua lunga pena
cercò sollievo: et invocar credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di fredda oblivion l’alma gli asperse:
e d’invincibil noia e di torpente
indifferenza gli ricinse il core.
     Ma se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu stesso
il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui
piú brillerá cosí l’enorme gemma,
do’.c’esca agli usurai, che quella osáro
a le promesse di signor preporre
villanamente; ed osservati fièno
i manichetti, la piú nobil opra
che tessesse giammai anglica Aracne.
Invidieran tua dilicata mano
i convitati; inarcheran le ciglia
sul diffidi lavoro, e d’oggi in poi
ti fia ceduto il trinciator coltello
che al cadetto guerrier serban le mense.
     Teco son io, signor; giá intendo e veggo,
felice osservatore, i detti e i moti
de’ semidei che coronando stanno,
e con vario costume ornan la mensa.
Or chi è quell’eroe che tanta parte
colá ingombra di loco, e mangia e fiuta
e guata, e, de le altrui cure ridendo,
si superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
mamme del suo palato! oh da’ mortali
invidiabil anima, che siede
tra la mirabil lor testura, e quindi
l’ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi piú saggio di lui penètra e intende
la natura migliore? o chi piú industrie
converte a suo piacer l’aria, la terra,
e ’l ferace di mostri ondoso abisso?
Qualor s’accosta al desco altrui, paventano
suo gusto inesorabile le smilze
ombre de’ padri, che per l’aria lievi
s’aggirano, vegliando ancora intorno
ai ceduti tesori; e piangon, lasse!
le mal spese vigilie, i sobri pasti,
le in preda all’aquilon case, le antique
digiune rozze, gli scommessi cocchi,
forte assordanti per stridente ferro
le piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl’invan nudati rustici, le fami
mal desiate, e de le sacre toghe
l’armata in vano autoritá sul vulgo.
     Chi siede a lui vicin? Per certo il caso
congiunse accorto i due leggiadri estremi,
perché doppio spettacolo campeggi;
e l’un dell’altro al par piú lustri e splenda.
Falcato dio degli orti, a cui la greca
Lámsaco d’asinelli offrir solea
vittima degna, al giovine seguace
del sapiente di Samo i doni tuoi
reca sul desco: egli ozioso siede,
dispregiando le carni; e le narici
schifo raggrinza, in nauseanti rughe
ripiega i labbri, e poco pane intanto
rumina lentamente. Altro giammai
a la squallida fame eroe non seppe
durar si forte: né lassezza il vinse
né deliquio giammai né febbre ardente;
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel Bel Mondo
onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar la sua pietade
all’uom riserbi; e facile ribrezzo
déstino in lei del suo simile i danni,
i bisogni e le piaghe. Il cor di lui
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a piú lontano limite sospinge.
— Péra colui che prima osò la mano
armata alzar su l’innocente agnella
e sul placido bue: né il truculento
cor gli piegáro i teneri belati,
né i pietosi mugiti, né le molli
lingue, lambenti tortuosamente
la man che il loro fato, ahimè! stringea. —
Tal ei parla, o signore; e sorge intanto,
al suo pietoso favellar, dagli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta,
pari a le stille tremule, brillanti,
che a la nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco, entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l’eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi, i gemiti alzando: Aita, aita,
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l’impietosita Eco rispose:
e dagl’infimi chiostri i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide, tremanti,
precipitare. Accorse ognuno; il volto
fu spruzzato d’essenze a la tua dama;
ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore
l’agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,
vergine cuccia de le Grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udí la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d’arcani ufici; in van per lui
fu pregato e promesso; ei nudo andonne,
dell’assisa spogliato ond’era un giorno
venerabile al vulgo. In van novello
signor sperò; che le pietose dame
inorridirò, e del misfatto atroce
odiar Fautore. 11 misero si giacque,
con la squallida prole e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu, vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
     Fia tua cura, o signore, or che piú ferve
la mensa, di vegliar su i cibi; e pronto
scoprir qual d’essi a la tua dama ò caro:
o qual di raro augel, di stranio pesce
parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
anatomico renda, Amor, che tutte
degli animali noverar le membra
puote, e discerner sa qual abbian tutte
uso e natura. Piú d’ognaltra cosa
però ti caglia rammentar mai sempre
qual piú cibo le nuoca, o qual piú giovi
e l’un rapisci a lei, l’altro concedi,
come d’uopo ti par. Serbala, oh dio!
serbala ai cari figli. Essi dal giorno
che le alleviáro il dilicato fianco,
non la rivider piú: d’ignobil petto
esaurirono i vasi, e la ricolma
nitidezza serbáro al sen materno.
Sgridala, se a te par ch’avida troppo
agogni al cibo; e le ricorda i mali,
che forse avranno altra cagione, e ch’ella
al cibo imputerá nel di venturo.
Xé al cucinier perdona, a cui non calse
tanta salute. A te sui servi altrui580
ragion donossi in quel felice istante
che la noia o l’amor vi strinser ambo
in dolce nodo, e dièr ordini e leggi.
Per te sgravato d’odioso incarco,
ti fia grato colui che dritto vanta
d’impor novo cognome a la tua dama;
e pinte trascinar su gli aurei cocchi,
giunte a quelle di lei, le proprie insegne:
dritto illustre per lui, e ch’altri seco
audace non tentò divider mai.
     Ma non sempre, o signor, tue cure fieno
a la dama rivolte: anco talora
ti fia lecito aver qualche riposo;
e de la quercia trionfale all’ombra,
te de la polve olimpica tergendo,
al vario ragionar degli altri eroi
porgere orecchio, e il tuo sermone ai loro
ozioso mischiar. Giá scote un d’essi
le architettate del bel crine anella
su l’orecchio ondeggianti; e, ad ogni scossa,
de’ convitati a le narici manda
vezzoso nembo d’arabi profumi.
Allo spirto di lui l’alma Natura
fu prodiga cosí, che piú non seppe
di che il volto abbellirgli; e all’Arte disse:650
— Compisci il mio lavoro; — e l’Arte suda
sollecita d’intorno all’opra illustre.
Molli tinture, preziose linfe,
polvi, pastiglie, dilicati unguenti,
tutto arrischia per lui. Quanto di novo
e mostruoso piú sa tesser spola,
o bulino intagliar francese ecl anglo,
a lui primo concede. Oh lui beato
che primo può di non piú viste forme
tabacchiera mostrar! L’etica invidia
i grandi, eguali a lui, lacera e mangia;
ed ei, pago di sé, superbamente
crudo fa loro balenar su gli occhi
l’ultima gloria onde Parigi ornollo.
Forse altera cosí, d’Egitto in faccia,
vaga prole di Semele, apparisti,
i giocondi rubini alto levando
del grappolo primiero: c tal tu forse,
tessalico garzon, mostrasti a Jolco
Lauree lane rapite al fero drago.625
     Vedi, o signor, quanto magnanim’ira
nell’eroe che vicino all’altro siede
a quel novo spettacolo si desta:
vedi come s’affanna, e sembra il cibo
obliar declamando! Al certo, al certo.
il nemico è a le porte: ohimè! i Penati
tremano, e in forse è la ci vii salute.
Ah no; piú grave a lui, piú preziosa
cura lo infiamma: — O depravati ingegni
degli artefici nostri! In van si spera
dall’inerte lor man lavoro industre,
felice invenzion d’uom nobil degna.
Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio
a nobile calzar? chi tesser drappo
soffribil tanto, che d’ornar presuma
le membra di signor che un lustro a pena
di feudo conti? In van s’adopra e stanca
chi ’l genio lor bituminoso e crasso
osa destar. Di lá dall’Alpi è forza
ricercar l’eleganza. E chi giammai,
fuor che il genio di Francia, osato avrebbe
su i menomi lavori i grechi ornati
recar felicemente? Andò romito
il Bongusto finora, spaziando
su le auguste cornici e su gli eccelsi
timpani de le moli al nume sacre
e agli uomini scettrati; oggi ne scende,
vago alfin di condurre i gravi fregi
infra le man di cavalieri e dame:
tosto forse il vedrem trascinar anco
su molli veli e nuziali doni
le greche travi; e docile trastullo
fien de la Moda le colonne e gli archi
ove sedeano i secoli canuti. —
     — Commercio! — alto gridar; gridar: — commercio! —660
all’altro lato de la mensa or odi
con fanatica voce: e tra ’l fragore
d’un peregrino d’eloquenza fiume,
di bella novitá stampate al conio
le forme apprendi, onde assai meglio poi
brillantati i pensier picchin la mente.
Tu pur grida: Commercio! e la tua dama
anco un motto ne dica. Empiono, è vero,
il nostro suol di Cerere i favori,
che tra i folti di biade immensi campi
move sublime; e fuor ne mostra a pena
tra le spighe confuso il crin dorato:
Bacco e Vertunno i lieti poggi intorno
ne coronan di poma: e Pale amica
latte ne preme a larga mano, e tonde
candidi velli, e per li prati pasce
mille al palato uman vittime sacre:
cresce fecondo il lin, soave cura
del verno rusticale; e d’infinita
serie ne cinge le campagne il tanto
per la morte di Tisbe arbor famoso.
Che vale or ciò? Su le natie lor balze
rodan le capre: ruminando il bue
lungo i prati natii vada; e la plebe,
non dissimile a lor, si nutra e vesta
de le fatiche sue; ma a le grand’al me,
di troppo agevol ben schife, Cillenio
il comodo presenti a cui le miglia
pregio acquistino e l’oro: e d’ogn’intorno:
commercio, risonar s’oda, commercio.
Tale dai letti de la molle rosa
Sibari ancor gridar soleva; i lumi
disdegnando volgea dai campi aviti,
troppo per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin, dura a le fatiche, e Tiro,
pericolando per l’immenso sale,
con l’oro altrui le voluttá cambiava,
Sibari si volgea sull’altro lato;
e non premute ancor rose cercando,
pur di commercio novellava e d’arti,
     Né senza i miei precetti e senza scorta
inerudito andrai, signor, qualora
il perverso destin dal fianco amato
t’allontani a la mensa. Avvien sovente,
che un grande illustre or l’Alpi, or l’oceano
varca e scende in Ausonia, orribil ceffo
per natura o per arte, a cui Ciprigna
róse le nari; e sale impuro e crudo
snudò i denti ineguali. Ora il distingue
risibil gobba, or furiosi sguardi,
obliqui o loschi; or rantoloso avvolge
tra le tumide fauci ampio volume
di voce che gorgoglia, ed esce alfine
come da inverso fiasco onda che goccia.
Or d’avi, or di cavalli, ora di Friní
instancabile parla, or de’ celesti
le folgori deride. Aurei monili
e gemme e nastri, gloriose pompe,
l’ingombran tutto; e gran titolo suona
dinanzi a lui. Qual piú tra noi risplende
inclita stirpe, ch’onorar non voglia
d’un ospite si degno i lari suoi?
Ei però sederá de la tua dama
al fianco ancora: e tu, lontan da Giuno,
tra i silvani capripedi n’andrai
presso al marito; e pranzerai negletto
col popol folto degli dèi minori.
     Ma negletto non giá dagli occhi andrai
de la dama gentil, che, a te rivolti,
incontreranno i tuoi. L’aere a quell’urto
arderá di faville: e Amor con l’ali
l’agiterá. Nel fortunato incontro
i messaggier pacifici dell’alma
cambieran lor novelle, e alternamente
spinti, rifluiranno a voi con dolce
delizioso tremito sui cori.
Tu le ubbidisci allora, o se t’invita
le vivande a gustar che a lei vicine
l’ordin dispose, o se a te chiede in vece
quella che innanzi a te sue voglie punge
non col soave odor, ma con le nove
leggiadre forme onde abbellir la seppe
dell’ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono gli dèi
sopra le nubi del brillante Olimpo:
e le labbra immortali irrita e move
non la materia, ma il divin lavoro.
     Né intento meno ad ubbidir sarai
i cenni del bel guardo, allor che quella
di licor peregrino ai labbri accosta750
colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
serpe dorata striscia, o a cui vermiglia
cera la base impronta, e par che dica:
— Lungi, o labbra profane: al labbro solo
de la diva che qui soggiorna e regna
il castissimo calice si serbi:
né cavalier con l’alito maschile
osi appannarne il nitido cristallo,
né dama convitata unqua presuma
di porvi i labbri; e sien pur casti e puri,
e quant’esser si può cari all’amore.
Nessun’altra è di lei piú pura cosa;
chi macchiarla oserá? Le ninfe invano,
da le arenose loro urne versando
cento limpidi rivi, al candor primo
tornar vorrieno il profanato vaso,
e degno farlo di salir di novo
a le labbra celesti, a cui non lice
inviolate approssimarsi ai vasi
che convitati cavalieri e dame
convitate macchiar coi labbri loro. —
Tu ai cenni del bel guardo, e de la mano
che reggendo il bicchier sospesa ondeggia,
affettuoso attendi. I guardi tuoi,
sfavillando di gioia, accolgan lieti
il brindisi segreto; e tu ti accingi
in simil modo a tacita risposta.
     Immortal come voi, la nostra Musa
brindisi grida all’uno e all’altro amante;
all’altrui fida sposa a cui se’ caro,
e a te, signor, sua dolce cura e nostra.
Come annoso licor Lieo vi mesce,
tale Amore a voi mesca eterna gioia,
non gustata al marito, e da coloro
invidiata che gustata l’hanno.
Veli con l’ali sue sagace oblio
le alterne infedeltá che un cor dall’altro
potrieno un giorno separar per sempre;
e sole agli occhi vostri Amor discopra
le alterne infedeltá che in ambo i cori
ventilar possan le cedenti fiamme.
Un sempiterno, indissolubil nodo
áuguri ai vostri cor volgar cantore;
nostra nobile Musa a voi desia
sol fin che piace a voi durevol nodo.
Duri fin che a voi piace; e non si sciolga
senza che Fama sopra l’ali immense
tolga l’alta novella, e grande n’empia,
col reboato dell’aperta tromba,
l’ampia cittade e dell’Enotria i monti800
e le piagge sonanti, e, s’esser puote,
la bianca Teti e Guadiana e Tuie.
Il mattutino gabinetto, il corso,
il teatro, la mensa, in vario stile
ne ragionin gran tempo: ognun ne chieda
il dolente marito; ed ei dall’alto
la lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solea
l’ombre tinte di sangue Argo piagnente,
squallido messo al palpitante coro
narrava come furiando Edipo
al talamo corresse incestuoso;
come le porte rovescionne, e come
al subito spettacolo risté,
quando vicina del nefando letto
vide in un corpo solo e sposa e madre
pender strozzata; e del fatale uncino
le mani armossi; e con le proprie mani
a sé le care luci da la testa,
con le man proprie, misero! strapposse.
     Ecco, volge al suo fine il pranzo illustre.
Giá Como e Dionisio al desco intorno
rapidissimamente in danza girano
con la libera Gioia: ella saltando,
or questo or quel dei convitati lieve
tocca col dito; e al suo toccar scoppiettano
brillanti vivacissime scintille
ch’altre ne destan poi. Sonan le risa;
e il clamoroso disputar s’accende.
La nobil vanitá punge le menti;
e l’Amor di sé sol, baldo scorrendo,
porge un scettro a ciascuno, e dice: — Regna. —
Onesti i concili di Bellona, e quegli
penetra i tempii de la Pace. Un guida
i condottieri: ai consiglier consiglio
l’altro dona, e divide e capovolge
con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Fallacie Parti e de le Muse
giudica e libra: qual ne scopre acuto
l’alte cagioni, e i gran principi abbatte
cui creò la natura, e che tiranni
sopra il senso degli uomini regnáro
gran tempo in Grecia; e ne la tosca terra
rinacquer poi piú poderosi e forti.
     Cotanto adunque di sapere è dato
a nobil mente? Oh letto, oh specchio, oh mensa,
oh corso, oh scena, oh feudi, oh sangue, oh avi,
che per voi non s’apprende? Or tu, signore,
col volo ardito del felice ingegno
t’ergi sopra d’ognaltro. Il campo è questo850
ove splender piú dèi: nulla scienza,
sia quant’esser si vuole arcana e grande,
ti spaventi giammai. Se cosa udisti
o leggesti al mattino, onde tu possa
gloria sperar, qual cacciator che segue
circuendo la fera, e si la guida
e volge di lontan, che a poco a poco
s’avvicina a le insidie e dentro piomba,
tal tu il sermone altrui volgi sagace
finché lá cada ove spiegar ti giovi
il tuo novo tesor. Se nova forma
del parlare apprendesti, allor ti piaccia
materia espor che, favellando, ammetta
la nova gemma: e poi che il punto hai còlto,
ratto la scopri, e sfolgorando abbaglia
qual altra è mente che superba andasse
di squisita eloquenza ai gran convivi.
In simil guisa il favoloso amante
dell’animosa vergin di Dordona
ai cavalier che l’assalien superbi
usar lasciava ogni lor possa ed arte;
poi nel miglior de la terribil pugna
svelava il don dell’amoroso mago:
e quei, sorpresi dall’immensa luce,
cadeano ciechi e soggiogati a terra.
Se alcun di Zoroastro e d’Archimede
discepol sederá teco a la mensa,
a lui ti volgi: seco lui ragiona;
suo linguaggio ne apprendi, e quello poi,
quas’innato a te fosse, alto ripeti:
Né paventar quel che l’antica fama
narrò de’ suoi compagni. Oggi la diva
Urania il crin compose: e gl’irti alunni
smarriti, vergognosi, balbettanti,
trasse da le lor cave, ove pur dianzi,
col profondo silenzio e con la notte
tenea consiglio: indi le serve braccia
fornien di leve onnipotenti, ond’alto
salisser poi piramidi, obelischi,
ad eternar de’ popoli superbi
i gravi casi: oppur con feri dicchi
stavan contro i gran letti; o di pignone
audace armati spaventosamente
cozzavan con la piena, e giú a traverso
spezzate, dissipate rovesciavano
le tetre corna, decima fatica
d’Èrcole invitto. Ora i selvaggi amici
Urania incivili: baldi e leggiadri
nel gran mondo li guida, o tra ’l clamore
de’ frequenti convivi, oppur tra i vezzi900
de’ gabinetti, ove a la docil dama
e al saggio cavalier mostran qual via
Venere tenga, e in quante forme o quali
suo volto lucidissimo si cambi.
     Né del poeta temerai, che beffi
con satira indiscreta i detti tuoi;
né che a maligne risa esponer osi
tuo talento immortal. Voi l’innalzaste
all’alta mensa; e tra la vostra luce
beato 1 ’avvolgeste; e de le Muse
a dispetto e d’Apollo, al sacro coro
l’ascriveste de’ vati. Egli ’l suo Pindo
feo de la mensa: e guai a lui, se quinci
le dèe sdegnate giú precipitando
con le forchette il cacciano! Meschino!
Piú non potria su le dolenti membra
del suo infermo signor chiedere aita
da la buona Salute; o con alate
odi ringraziar, né tesser inni
al barbato figliuol di Febo intonso:
piú del giorno natale i chiari albori
salutar non potrebbe, e l’auree frecce
nomi-sempiternanti all’arco imporre:
non piú gli urti festevoli, o sul naso,
l’elegante scoccar d’illustri dita
fòra dato sperare. A lui tu dunque
non isdegna, o signor, volger talvolta
tu’ amabil voce: a lui declama i versi
del dilicato cortigian d’Augusto,
o di quel che tra Venere e Lieo
pinse Trimalcion. La Moda impone
Ch’Arbitro o Fiacco a un bello spirto ingombri
spesso le tasche. Il vostro amico vate
t’udrá, maravigliando, il sermon prisco
or sciogliere, or frenar, qual piú ti piace:
e per la sua faretra, e per li cento
destrier focosi che in Arcadia pasce,
ti giurerá che di Donato al paro
il diffidi sermone intendi e gusti.
     Cotesto ancor di rammentar fia tempo
i novi sofi che la Gallia e l’Alpe,
esecrando, persegue; e dir qual arse
de’ volumi infelici e andò macchiato
d’infame nota: e quale asilo appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e qual ne appresti al novo
Diogene, dell’auro spregiatore
e della opinione de’ mortali.
Lor volumi famosi a te verranno,
da le fiamme fuggendo a gran giornate,
per calle obliquo e compri a gran tesoro:
o, da cortese man prestati, fièno
lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi.
Poiché scorsi gli avrai pochi momenti,
specchiandoti e a la man garrendo indotta
del parrucchier; poiché t’avran la sera
conciliato il facil sonno, allora
a la toilette passeran di quella
che comuni ha con te studi e liceo,
ove togato in cattedra elegante
siede interprete Amor. Ma fui la mensa
il favorevol loco, ove al sol esca
de’ brevi studi il glorioso frutto.
     Qui ti segnalerai co’ novi sofi,
schernendo il fren che i creduli maggiori
atto solo stimar l’impeto folle
a vincer de’ mortali, a stringer forte
nodo fra questi, e a sollevar lor speme
con penne oltre natura alto volanti.
Chi por freno oserá d’almo signore
a la mente od al cor? Paventi il vulgo
oltre natura: il debole prudente
rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo
titol di saggio, mediti romito
il ver celato; e alfin cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma il mio signor, com’aquila sublime,
dietro ai sofi novelli il volo spieghi.
Perché piú generoso il volo sia,
voli senz’ale ancor; né degni ’l tergo
affaticar con penne. Applauda intanto
tutta la mensa al tuo poggiare ardito.
Te con lo sguardo e con l’orecchio beva
la dama dalle tue labbra rapita:
con cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente: e il «calcolo» e la «massa»
e l’«inversa ragion» sonino ancora
su la bocca amorosa. Or piú non odia
delle scole il sermone Amor maestro;
ma l’accademia e i portici passeggia
de’ filosofi al fianco, e con la molle
mano accarezza le cadenti barbe.
     Ma guardati, o signor, guardati, oh Dio!
dal tossico mortai che fuora esala
dai volumi famosi; e occulto poi
sa, per le luci penetrato all’alma,
gir serpendo nei cori; e con fallace
lusinghevole stil corromper tenta
il generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli,1000
che ciascun de’ mortali all’altro è pari;
che caro a la natura e caro al cielo
è non meno di te colui che regge
i tuoi destrieri e quei ch’ara i tuoi campi;
e che la tua pietade e il tuo rispetto
dovrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni d’infermo! Intatti lascia
cosí strani consigli; e sol ne apprendi
quel che la dolce voluttá rinfranca,
io io quel che scioglie i desiri, e quel che nutre
la libertá magnanima. Tu questo
reca solo a la mensa: e sol da questo
cerca plausi ed onor. Cosí dell’api
l’industrioso popolo, ronzando,
gira di fiore in fior, di prato in prato;
e i dissimili sughi raccogliendo,
tesoreggia nell’arnie: un giorno poi
ne van colme le pátere dorate
sopra l’ara de’numi; e d’ogn’intorno
ribocca la fragrante alma dolcezza.
     Or versa pur dall’odorato grembo
i tuoi doni, o Pomona; e l’ampie colma
tazze, che d’oro e di color diversi
fregiò il sassone industre; il fine è giunto
de la mensa divina. E tu dai greggi,
rustica Pale, coronata vieni
di melissa olezzante e di ginebro;
e co’ lavori tuoi di presso latte
vergognando t’accosta a chi ti chiede;
ma deporli non osa. In su la mensa
potrien, deposti, le celesti nari
commover troppo, e con volgare olezzo
gli stomachi agitar. Torreggili solo
su’ ripiegati lini in varie forme
i latti tuoi, cui di serbato verno
rassodarono i sali, e reser atti
a dilettar con súbito rigore
di convitato cavalier le labbra.
     Tu, signor, che farai poi che fie posto
line a la mensa, e che, lieve puntando,
la tua dama gentil fatto avrá cenno
che di sorger è tempo? In piè d’un salto
balza prima di tutti; a lei t’accosta,
la seggiola rimovi, la man porgi;
guidala in altra stanza, e piú non soffri
che lo stagnante de le dapi odore
il cèlabro le offenda. Ivi con gli altri
gratissimo vapor t’invita, ond’empie
l’aria il caffè che preparato fuma
in tavola minor, cui vela ed orna
indica tela. Ridolente gomma
quinci arde intanto; e va lustrando e purga
l’aere profano, e fuor caccia del cibo
le volanti reliquie. Egri mortali,
cui la miseria e la fidanza un giorno
sul meriggio guidáro a queste porte,
tumultuosa, ignuda, atroce folla
di tronche membra e di squallide facce
e di bare e di grucce, ora da lungi
vi confortate, e per le aperte nari
del divin pranzo il nèttare beete
che favorevol aura a voi conduce;
ma non osate i limitari illustri
assediar, fastidioso offrendo
spettacolo di mali a chi ci regna.
     Or la piccola tazza a te conviene
apprestare, o signor, che i lenti sorsi
ministri poi de la tua dama ai labbri;
or memore avvertir s’ella piú goda,
o sobria, o liberal, temprar col dolce
la bollente bevanda; o se piú forse
l’ami cosí, come sorbir la suole
barbara sposa, allor che, molle assisa
su’ broccati di Persia, al suo signore
con le dita pieghevoli ’l selvoso
mento vezzeggia, e, la svelata fronte
alzando, il guarda; e quelli sguardi han possa
di far che a poco a poco di man cada
al suo signore la fumante canna.
     Mentre il labbro e la man v’occupa e scalda
l’odorosa bevanda, altere cose
macchinerá tua infaticabil mente.
Qual coppia di destrieri oggi de’ il carro
guidar de la tua dama; o l’alte moli
che su le fredde piagge educa il cimbro,
o quei che abbeverò la Orava, o quelli
che a le vigili guardie un di fuggirò
da la stirpe campana. Oggi qual meglio
si convenga ornamento ai dorsi alteri:
se semplici e negletti; o se pomposi
di ricche nappe e variate stringhe
andran su l’alto collo i crin volando;
e sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie
ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
vi porterá: se quel cui l’oro copre;
o quel su le cui tavole pesanti
saggio pennello i dilicati finse
studi dell’ago, onde si fregia il capo
e il bel sen la tua dama; e pieni vetri1100
di freschissima linfa e di fior vari
gli diede a trascinar. Cotanta mole
di cose a un tempo sol nell’alta mente
rivolgerai: poi col supremo auriga
arduo consiglio ne terrai, non senza
qualche lieve garrir con la tua dama.
Servi le leggi tue l’auriga: e intanto
altre v’occupin cure. Il gioco puote
ora il tempo ingannare: ed altri ancora
forse ingannar potrá. Tu il gioco eleggi
che due soltanto a un tavoliere ammetta;
tale Amor ti consiglia. Occulto ardea
giá di ninfa gentil misero amante,
cui null’altra eloquenza usar con lei,
fuor che quella degli occhi era concesso;
poiché il rozzo marito, ad Argo eguale,
vigilava mai sempre; e, quasi biscia,
ora piegando, or allungando il collo,
ad ogni verbo con gli orecchi acuti
era presente. Oimè! come con cenni,
o con notata tavola giammai,
o con servi sedotti, a la sua ninfa
chieder pace ed aita? Ogni d’Amore
stratagemma finissimo vinceva
la gelosia del rustico marito.
Che piú lice sperare? Al tempio ei corre
dei nume accorto che le serpi intreccia
all’aurea verga, e il capo e le calcagna
d’ali fornisce. A lui si prostra umile,
e in questa guisa, lagrimando, il prega:
— O propizio agli amanti, o buon figliuolo
de la candida Maia, o tu che d’Argo
deludesti i cent’occhi, e a lui rapisti
la guardata giovenca, i preghi accetta
d’un amante infelice; e a me concedi,
se non gli occhi ingannar, gli orecchi almeno
d’un marito importuno. — Ecco si scote
il divin simulacro, a lui si china,
con la verga pacifica la fronte
gli percote tre volte: e il lieto amante
sente dettarsi ne la mente un gioco
che i mariti assordisce. A lui diresti
che l’ali del suo piè concesse ancora
il supplicato dio; cotanto ei vola
velocissimamente a la sua donna!
Lá bipartita tavola prepara,
ov’ebano ed avorio intarsiati
regnan sul piano; e partono alternando
in dodici magioni ambe le sponde.
° Quindici nere d’ebano girelle
e d’avorio bianchissimo altrettante
stan divise in due parti; e moto e norma
da due dadi gittati attendon, pronte
ad occupar le case, e quinci e quindi
pugnar contrarie. Oh cara a la Fortuna
quella che corre innanzi all’altre, e seco
ha la compagna, onde il nemico assalto
forte sostenga! Oh giocator felice
chi pria l’estrema casa occupa; e l’altro
de le proprie magioni ordin riempie
con doppio segno, e quindi poi securo
da la falange il suo rivai combatte,
e in proprio ben rivolge i colpi ostili!
Al tavolier s’assidono ambidue,
l’amante cupidissimo e la ninfa:
quella occupa una sponda, e questi l’altra.
il marito col gomito s’appoggia
all’un de’ lati: ambi gli orecchi tende;
e sotto al tavolier di quando in quando
guata con gli occhi. Or l’agitar dei dadi
entro ai sonanti bossoli comincia;
ora il picchiar de’ bossoli sul piano;
ora il vibrar, lo sparpagliar, l’urtare,
il cozzar de’ due dadi; or de le mosse
pedine il martellar. Torcesi e freme
sbalordito il geloso: a fuggir pensa;
ma riattienlo il sospetto. Il romor cresce,
il rombazzo, il frastono, il rovinio.
Ei piú regger non puote; in piedi balza,
il S0 e con ambe le man tura gli orecchi.
Tu vincesti, o Mercurio: il cauto amante
poco disse, e la bella intese assai.
     Tal ne la ferrea etá, quando gli sposi
folle superstizion chiamava all’armi,
giocato fu. Ma poi che l’aureo fulse1185
secol di novo, e che del prisco errore
si spogliáro i mariti, al sol diletto
la dama e il cavaiier volsero il gioco
che la necessitá scoperto avea.
ityo Fu superfluo il romor: di molle panno
la tavola vestissi e de’ patenti
bossoli ’l sen: lo schiamazzio molesto
tal rintuzzossi; e durò al gioco il nome
che ancor l’antico strepito dinota.


Fonte: Poesie vol. 1 : Giuseppe Parini