Il Leone di Damasco/VI. La sfida

Da Wikisource.
VI. La sfida

../V. Il grande ammiraglio ottomano ../VII. Il tradimento IncludiIntestazione 17 novembre 2020 75% Da definire

V. Il grande ammiraglio ottomano VII. Il tradimento

VI.

La sfida


Nel momento in cui il messo di Haradja lanciava la sfida, sul terrazzo d’una torre avanzata, che già aveva sopportate non poche cannonate, si trovavano insieme il Leone di Damasco e la duchessa d’Eboli che, come abbiamo detto, si erano lasciati assediare in Candia.

Lui era un bell’uomo di forse appena trent’anni, di statura piuttosto alta, la pelle bianca, i baffi e i capelli brunissimi, gli occhi vivi, ardenti, che tradivano l’impetuosità del vero soldato mussulmano, che nasce nell’Asia turca e non già in quella europea.

Lei era una bellissima donna, molto più giovane del turco, di forme snelle ed eleganti, con occhi nerissimi, che parevano carbonchi, una bocca adorabile, abbellita da due file di dentini splendenti come perle, e la pelle leggermente bruna che tradiva il tipo meridionale.

Così il marito come la moglie indossavano un’armatura completa di vero acciaio, arabescato, e portavano in testa elmetti adorni di splendide penne di struzzo. Nell’udire la sfida lanciata dal turco, la cui voce poderosa era giunta fino sul terrazzo del torrione, i due sposi si erano guardati l’un l’altro con profondo stupore, non esente da una viva inquietudine.

— Si viene a sfidare una donna cristiana!... — aveva esclamato la duchessa, portando istintivamente la destra sulla guardia della spada. — Quale donna? Io forse? Ci capisci qualche cosa tu, Muley?

Il Leone di Damasco, occupato a guardare il cavaliere turco, che per la seconda volta, e con voce più potente, lanciava la sfida, subito non aveva risposto. Era diventato però un po’ pallido.

— Che cosa vuoi che ti dica, Eleonora? — disse finalmente. — Io sono stupito non meno di te. Si sfida una donna cristiana che si batterà contro una turca ed un capitano... Da quando le mussulmane, abituate solamente a vivere negli harem, fra il fumo dei narghilek ed i profumi, si sono dedicate alle armi? Per me è un mistero. Eppure, Eleonora, ecco che per la terza volta si grida che sarà una donna turca che combatterà con la cristiana.

— Ma chi potrà essere? — chiese la duchessa, levandosi l’elmetto e gettando indietro, colle mani, i suoi lunghi capelli neri.

Il Leone di Damasco aveva guardato intensamente sua moglie.

— Vedo nei tuoi occhi bellissimi, o mia Eleonora, scintillare una vampa.

— Che cosa ti dice?

— Che tu vorresti provarti con quella misteriosa donna turca che viene a sfidare la cristiana.

— Hai indovinato, Muley.

— E tu vorresti esporti, quantunque nessuna donna possa tener testa a te, che sei riuscita a ferirmi e disarcionarmi?

— Sì, Muley, e sai il perché?

— Non saprei indovinarlo.

— Perché sospetto che quella turca sia Haradja.

Il Leone di Damasco aveva fatto un vero balzo.

— La crudele nipote di Ali Bascià?

— La tua ex fidanzata — disse Eleonora, ridendo. — Se t’avesse sposato avrebbe fatto di te, che sei sempre stato cavalleresco, chissà quale massacratore di cristiani.

— Fortunatamente i tuoi occhi e la tua bellezza mi hanno fermato a tempo — disse Muley.

— E sei rimasto gentiluomo.

— Lo credi, Eleonora?

— Sì, Muley.

Fra loro successe un breve silenzio, interrotto solo da qualche colpo di colubrina, poiché mancata la sfida, l’assedio era stato ripreso, poi il Leone di Damasco, dopo essersi passata più volte una mano sulla fronte che appariva madida di sudore, disse:

— Se si trattasse veramente di Haradja, non t’impedirei di accettare la sfida e di combattere al mio fianco, giacché si domanda anche un capitano cristiano.

— Il cuore mi dice che è lei — disse Eleonora. — Tu che l’hai conosciuta meglio di me puoi dirmi quanto vale come spadaccina.

— Si diceva che fosse forte, avendo avuto per maestro quel Metiub che i tuoi marinai avevano mezzo accoppato quando combattevate terribilmente dentro quella casa disabitata.

— Sono trascorsi quattro anni, Muley.

— Vorresti dire che potrebbe essere diventata una grande spadaccina?

— Oh!... Non ho paura di quella tigre in gonnella. Il suo capitano d’armi, che l’ha istruita, non valeva un dito di mio padre.

— Che possa essere lui che viene a combattere a fianco di Haradja?

— Ne ho il sospetto.

— Nemmeno io avrò paura di lui — disse il Leone di Damasco. — Tu mi hai insegnato troppe belle stoccate che nessun turco ha certamente conosciute.

— Saresti deciso?

— Se si tratta di Haradja sì, perché almeno potremo poi vivere più tranquilli. Gli sgherri che hanno tentato di assassinarci a Venezia ed a Napoli, erano tutti turchi camuffati da cristiani, e solo la nipote del Bascià poteva averli lanciati contro di noi.

La duchessa si avvicinò alla gradinata che metteva nell’interno del torrione e chiamò:

— Mico!... Mico!...

Pochi istanti dopo un uomo saliva sul terrazzo. Era un albanese, alto e vigoroso, di forse quarant’anni, e che indossava il pittoresco costume di quei bellicosi montanari. Gli albanesi che non erano ancora diventati mussulmani, e per sfuggire a quel pericolo, dopo d’aver difese eroicamente le loro montagne contro i seguaci della Mezzaluna, erano emigrati in buon numero in Dalmazia, ove venivano arruolati, sotto il nome di schiavoni, e condotti a Venezia, la quale aveva sempre estremo bisogno di soldati per difendere le sue colonie situate nel Mediterraneo orientale e sempre minacciate dai sultani di Costantinopoli. La duchessa, perduto El-Kadur, l’arabo fedele, morto per salvarla dall’ultima pistolettata dell’avventuriero polacco, aveva preso ai suoi servigi quell’albanese, sapendo bene di prendere un valoroso, sempre pronto a snudare la scimitarra od il kamgiar.

— Che cosa vuoi, padrona? — chiese.

— Che tu abbia gran cura dei nostri cavalli perché domani ne avremo bisogno.

— Sì, padrona.

— Preparaci gli sproni e lo scudo.

— Null’altro?

— Sì, andrai poi dal capitano generale di Candia e gli dirai che se domani il cavaliere turco, che ha portata la sfida, ritornasse, faccia alzare il ponte levatoio del bastione di Malamocco.

— Vuoi batterti?

— È probabile.

— Verrò anch’io? Sai, padrona, quanto odio i turchi dopo che hanno decimato il mio popolo e distrutti migliaia di villaggi.

— Lo so, ma non uscirò che col padrone. Puoi andare, Mico.

L’albanese scomparve, mentre la duchessa tornava verso il Leone di Damasco, il quale, coi gomiti appoggiati al coronamento del torrione, presso un merlo atterrato da qualche palla, osservava i tiri degli assediami e degli assediati.

— Sei deciso, Muley? — gli chiese.

— Sì, Eleonora, perché sono ormai anch’io fermamente convinto che si tratti di Haradja. Ah!... La tigre!... Potesse cadere sotto uno dei tuoi colpi.

— Cadrà, non temere. Vieni, le palle cominciano a cadere anche qui e sarà meglio rifugiarci nella nostra casamatta.

Ed infatti cominciava a diventare assai pericoloso rimanere esposti sui bastioni e sulle piattaforme delle torri, poiché le artiglierie turche, forti di più di ottocento bocche da fuoco, fra bombarde e colubrine, senza contare i pezzi della flotta, avevano ricominciato a tirare con grande animazione, per proteggere gli uomini incaricati di scavare le trincee e le parallele. Facevano soprattutto grande uso gli assedianti di palle di pietra, pesanti ciascuna non meno d’un mezzo quintale, che venivano lanciate da bocche da fuoco speciali. Tendevano innanzi tutto a rendere la città inabitabile ai candioti ed ai veneziani, e vi riuscivano, poiché quelle pesanti masse di pietra sfondavano i tetti delle case, massacrando le persone che vi si trovavano dentro. I bastioni e le torri, ben più salde, avevano già deciso di diroccarli con enormi mine.

La duchessa ed il Leone di Damasco scesero la scala interna della torre ed entrarono in una stanza illuminata solamente da due strette feritoie ed ingombra di due lettucci, di sacchi contenenti probabilmente dei viveri, di parecchie zare colme d’acqua e di armi d’ogni sorta.

Era il rifugio che i capitani veneziani avevano offerto a Capitan Tempesta, rifugio mal comodo, ma più sicuro certamente di qualunque casa della città, poiché le palle di pietra si spaccavano contro le salde pareti della torre senza riuscire ad aprire alcuna breccia. I due erano appena entrati, quando l’albanese entrò dicendo:

— Signora, vi è un turco che vuole parlarti.

— Un turco!... — esclamò la duchessa. — Come ha potuto entrare in Candia senza perdere cento volte la pelle?

— Non lo so, signora.

— Ha delle armi? — chiese il Leone di Damasco, il quale per ogni buon conto, aveva staccata dalla parete una lunga pistola preparandosi ad accendere la miccia.

— Non mi pare.

— Visitalo minutamente, poi introducilo.

Una voce, che fece trasalire sia la duchessa che il damaschino, si fece udire, sulla seconda scala, poi un uomo di circa quarant’anni, dal volto molto abbronzato, adorno di una lunga barba nera e vestito come i marinai delle galere mussulmane, entrò dicendo:

— Mi avete dunque dimenticato? Eppure io non ho mai scordato, in questi quattro anni, né il figlio del Pascià di Damasco, né Capitan Tempesta, o meglio Hamid Eleonora.

La duchessa aveva mandato un grido di stupore misto ad una grande gioia. — Nikola Stradioto, il greco rinnegato.

— Che quattro anni or sono, signora, per ordine del Leone di Damasco, guidava la gagliotta che doveva condurvi a Hussiff a fare, per la prima volta, la conoscenza della nipote del grande ammiraglio.

— Non l’ho dimenticato, Nikola — disse la duchessa, muovendogli rapidamente incontro, mentre il Leone di Damasco spegneva la miccia della pistola. — Da dove vieni, tu?

— Dal campo turco, o meglio dalla galera ammiraglia di Ali, dove per forza devo battermi contro i cristiani e fingermi mussulmano, mentre da buon greco ho conservato nel mio cuore la fede per la Croce.

— Ma come, tu, che indossi un vestito mussulmano, hai potuto entrare in Candia? — chiese il Leone di Damasco.

— Mercé l’aiuto d’un ufficiale veneziano che avevo conosciuto in altri tempi, e che avevo salvato a tempo da una certa scorticatura — rispose il greco.

Poi, fissando la duchessa con una certa inquietudine, riprese:

— Avete avuto più notizie, signora, di Haradja?

— No, nessuna.

— Quella tigre è qui, ospite di suo zio, sulla galera ammiraglia.

Muley-el-Kadel e la duchessa avevano mandato due grida.

— Haradja qui!...

— E più feroce e più spietata che mai — disse Nikola. — Guardatevi, signora!... Ha giurato di uccidervi e di catturare il Leone di Damasco per provargli forse il laccio di seta che gli aveva mandato Selim. Vi ricordate, signora?

— Come fosse ieri — rispose la duchessa, guardando dolcemente Muley-el-Kadel, il quale invece, a quel ricordo, era diventato un po’ pallido.

— Ma vi è di più — disse il greco.

— Parla, Nikola.

Il rinnegato esitò.

— Parla — comandò il Leone di Damasco.

— Ho da comunicare a voi, innanzi tutto, una notizia che non vi farà piacere. Vostro padre, mentre navigava verso Costantinopoli, è stato catturato dalla galera di Haradja e da altre del Bascià, ed ora si trova rinchiuso nei sotterranei del castello d’Hussiff.

— Mio padre!... — urlò il Leone di Damasco. — Mio padre hai detto? Hai forse venduta la tua anima ai turchi e vieni qui a straziare la mia, che ormai non batte più che per la Croce, come fossi nato cristiano?

— Signore!... Porto vesti turche per salvare la vita sempre minacciata, ed essere utile ai cristiani, ma io non credo in Maometto. Apritemi il cuore, se lo volete, e non troverete nessuna traccia dell’Allah dei mussulmani, di quei cani che io odio e che odierò finché avrò un battito, perché hanno scannata la mia donna e arsi, dentro la mia casa, i miei tre figli.

Il greco a quel ricordo atroce, era scoppiato in singhiozzi.

— Perdonami — gli disse Muley-el-Kadel, mettendogli una mano su una spalla — di aver dubitato di te: ti credo. Ne sei però ben sicuro?

— La prima sera che Haradja era giunta, e che cenò sola col Bascià sul cassero dell’ammiraglia, io facevo la guardia, insieme ad altri quattro, ai piedi delle due scale, tutto quindi ho potuto udire.

— Mio padre prigioniero!... Mio padre a Hussiff!... — esclamò il Leone di Damasco, con voce strozzata dal dolore. — Quanta crudeltà ha nel cuore quella donna?

— Ma ho da dire qualche cosa anche alla vostra signora — disse il greco. — Non so però se debbo dirglielo.

— Tu, Nikola, mi hai sempre veduto comportarmi più come un guerriero che come una donna — disse la duchessa, la quale tuttavia era diventata smorta. — Parla!

— Non oso, signora.

— Il mio cuore rimarrà impassibile.

— Non credo, signora, perché si tratta di vostro figlio.

— Di Enzo!... Del mio piccolo Enzo!... — aveva gridato la valorosa donna, slanciandosi verso il greco.

— Io so, signora, che vostro figlio è stato rapito a Venezia, e che ora si trova sulla galera del Bascià.

— Mio figlio!... Mio figlio!...

— Non potresti esserti ingannato, Nikola? — disse Muley-el-Kadel, mentre la duchessa si abbandonava su uno dei due lettucci, singhiozzando fortemente.

— No, signore, il fanciullo che è stato condotto sull’ammiraglia è proprio vostro figlio.

Il Leone di Damasco aveva fatto un gesto di suprema disperazione, poi aveva mandato un urlo selvaggio.

— Mio padre ed Enzo!... Haradja mi ha spezzato il cuore!

Si tolse l’elmetto e si avvicinò alla duchessa che continuava a singhiozzare.

— Eleonora, — le disse — un terribile colpo è piombato su di noi, ma te ti hanno chiamata Capitan Tempesta e me il Leone di Damasco. Quando si portano questi due nomi non si deve piangere.

— Hai ragione, Muley, — disse la valorosa donna, sforzandosi di soffocare i singhiozzi, — ma io oggi sono madre. Ah, la miserabile!... Anche mio figlio, oltre tuo padre, le era necessario per vendicarsi. Ed ora, Muley?

— La uccideremo — rispose risolutamente l’ex turco. — Metteremo però al duello delle condizioni.

Si volse verso il rinnegato, che aveva ancora gli occhi umidi, e gli chiese: — Corre nessun pericolo mio figlio?

— Nessuno, signore, poiché giorno e notte vegliano dinanzi alla sua cabina due sentinelle, con l’ordine d’impedire l’ingresso ad Haradja.

— Dato da chi quell’ordine? — chiese la duchessa, che era riuscita a tranquillizzarsi.

— Dal Bascià — rispose il greco.

— Il grande ammiraglio proteggerebbe mio figlio! — esclamò Muley-el-Kadel, con stupore.

— Così pare. Forse teme qualche violenza contro il piccino da parte della tigre d’Hussiff.

— Tu puoi tornare sull’ammiraglia?

— Sono mastro del cassero e posso salire a bordo quando mi piace.

— E traversare il campo, lo potrai?

— Non temete: sono abbastanza conosciuto. Che cosa volete ora da me? Dite, e se dovessi rischiare la vita sarò ben felice di cadere pel Leone di Damasco e Capitan Tempesta.

— Tu sei un brav’uomo — disse il damaschino. — È Dio che ti ha mandato.

— Non quello dei turchi, però — rispose Nikola. — Comandate, signore.

Muley-el-Kadel interrogò la moglie collo sguardo. Si erano subito compresi.

— Torna sull’ammiraglia e, nel limite delle tue forze, proteggi nostro figlio — disse. — Aspettiamo gli avvenimenti, e chissà che un giorno anche noi non lo portiamo via al Bascià, malgrado l’assedio ed i centomila turchi che accampano dinanzi alle galere. Ti farò condurre dal mio servo, che è un albanese devoto, dal capitano generale, onde ti venga rilasciato un salvacondotto.

— Quando potresti tornare, Nikola, a darmi notizie del mio Enzo? — chiese la duchessa, porgendogli la mano.

— Verrò dopo la sfida.

— Potresti avvicinarlo per dirgli che sua madre e suo padre sono qui?

— È impossibile, signora: nessuno entra nella cabina del piccino fuorché il Bascià. Se io lo tentassi verrei appiccato a qualche pennone.

— Non voglio la tua morte — si affrettò a dire la duchessa. — Tu ci sarai più utile vivo.

— Disponete, come meglio vi piacerà, della mia vita — disse il greco. — Io ho compreso ormai che una lotta terribile sta per impegnarsi fra voi, vostro marito, Haradja ed il Bascià. Contate su di me.

— Hai indovinato — disse il Leone di Damasco. — Noi non torneremo in Italia senza aver liberato mio padre e nostro figlio e punita la tigre d’Hussiff.

Mico era comparso ed aspettava gli ordini dei padroni.

Furono rapidi e precisi. Un salvacondotto doveva essere firmato dal capitano generale affinché il greco potesse entrare in Candia e i ponti calati per l’indomani se il cavaliere turco si fosse presentato, cosa probabilissima, poiché le sfide si gridavano di solito tre giorni.

— Va’, Nikola, e veglia su mio figlio — disse la duchessa, con voce singhiozzante.

— Contate su di me, signora — rispose il greco. — La mia vita appartiene a voi ed al Leone di Damasco.

Baciò la mano alla valorosa donna, strinse quella del forte guerriero damaschino, e seguì l’albanese.

— Ci hanno spezzato il cuore, mio povero Muley. Sarebbe stato meglio che tu avessi sposata Haradja e che non avessi rinnegato la Mezzaluna — disse la duchessa.

— Tu dici questo, Eleonora? — gridò il Leone di Damasco. — Sì, ci hanno colpiti nel cuore, ma noi siamo gente da accettare una sfida e da compiere altre prodezze. A suo tempo mi occuperò di mio padre che si trova prigioniero a Cipro e non a Candia, ma noi concentreremo i nostri sforzi nella salvezza del nostro Enzo. Come? Non lo so, per ora, eppure sono convinto, mia Eleonora, che noi usciremo vincitori.

— Con Ali Bascià?

— Non sai dunque che Venezia, la Spagna, l’Austria, il Papato si preparano a dare un colpo mortale alla potenza turca? Quando? Io non lo so, eppure la lega è stata firmata.

— Per colpire a morte la tua razza?

Muley-el-Kadel si era rizzato, mettendosi una mano sul cuore.

— Sposando te ho rinunciato a Maometto ed a tutte le crudeltà turche che mi ripugnavano — disse. — Io sono cristiano.

— Quanto ti è costato però l’aver rinnegato il Profeta!

— Non ci pensare, Eleonora. So chi è mio padre, ed avrà la pazienza di aspettare l’aiuto di suo figlio. Anche se sono diventato cristiano, tu lo sai, non mi ha rinnegato.

— Lo so, Muley — rispose la duchessa. — Deve essere stato prode e cavalleresco come te.

— Damasco non scorderà mai mio padre, un Pascià come non ve ne sono mai stati in tutto l’impero turco. Sei decisa?

— Ad affrontare Haradja? E me lo chiedi, Muley?

— Ed io sono ben risoluto a spaccare il cuore al capitano mussulmano che l’accompagna. Li faremo cadere entrambi sotto gli sguardi di questi prodi veneziani.

— Guardati dai tradimenti, Muley.

— Non sarà con la scimitarra che io caricherò quel capitano. Quelle armi non valgono le vostre diritte e lunghe che tu, in questi quattro anni, mi hai insegnato a maneggiare così bene.

— Lo spero — rispose la duchessa.

— Riposati, Eleonora: vado dal capitano generale perché ogni cosa sia pronta per domani.

— Guardati dalle palle.

— Bah!... I miei compatrioti sono sempre stati pessimi tiratori.

La baciò sulla fronte e scese la seconda scala, attraversò alcune casematte, dove vi erano dei cavalli, e uscì dal torrione. Grandinavano le palle ottomane su Candia non meno fitte che a Famagosta, scrosciando sui tetti di lavagna delle case, i quali, poco dopo l’urto cedevano, seppellendo talvolta, sotto i rottami, gli abitanti già desiderosi più di morte che di vita, poiché la fame infieriva orrenda.

I veneziani rispondevano però non meno vigorosamente, coprendo di ferro l’immenso campo turco, e tentando di rovinare specialmente i mortai che colle loro palle di pietra producevano gravissimi danni alla città.

Quantunque assediati da più di un anno, avevano ancora munizioni in abbondanza, ed anche ne fabbricavano, non mancando né di zolfo, né di salnitro, né di carbone. Se i saldi bastioni, costruiti da valentissimi architetti della Regina dell’Adriatico, opponevano una grande resistenza al fuoco avversario, la città invece, a poco a poco, se ne andava, e già più di metà delle case erano state distrutte.

Da quelle rovine, che avevano già coperto buona parte delle strade, usciva un fetore insopportabile, poiché intere famiglie vi erano rimaste sotto, e gli assediati, senza posa tribolati dai turchi, non avevano potuto procedere né a demolizioni né a sepolture sì difficili.

Cani e gatti, una volta numerosissimi come in tutte le città dell’Arcipelago greco, da tempo erano scomparsi, perché divorati dagli abitanti, sicché non potevano dare alcun aiuto nella distruzione dei cadaveri.

Erano però calate su Candia delle turbe immense di uccellacci, venuti non si sa da dove, forse dall’Asia Minore o più da lontano ancora, somiglianti ai marabù indiani, e quelli facevano efficacemente l’ufficio dei becchini senza inquietarsi delle cannonate, sicché per le vie della misera città s’incontravano di frequente gruppi di scheletri umani completamente privati di carne e di nervi.

Muley-el-Kadel, tenendosi dietro la seconda cinta, che era la meno battuta dai pezzi ottomani, si recò dal capitano generale pel prendere gli ultimi accordi per la sfida, nel caso che l’araldo fosse tornato, poi fece ritorno nel torrione accompagnato da Mico che aveva trovato ancora nel palazzo.

Tutto quel giorno da una parte e dall’altra fu un tirare furioso, con più danno dei turchi, che si trovavano male protetti, che dei veneziani, e nemmeno alla notte, quantunque meno intenso, cessò. Ai primi albori tutte le batterie turche, come se avessero ricevuto un ordine, sospendevano il fuoco, e pochi minuti dopo l’araldo del giorno prima galoppava verso la città, agitando la sua lancia, alla quale era appesa una vistosa bandiera di seta bianca.

Anche i veneziani avevano cessato di sparare curiosi di assistere alla sfida fra la donna turca e la cristiana, più che fra capitano turco e capitano cristiano. Il cavaliere si arrestò alcuni minuti presso un ridotto avanzato, chiamato degli Alberoni, situato a cinque o seicento metri da Candia, e che i turchi avevano già preso d’assalto ed in parte rovinato, senza poter mantenere la conquista battuta terribilmente in breccia dalle artiglierie veneziane.

Parve che lo esaminasse con particolare attenzione, poi riprese la sua corsa verso il bastione di Malamocco sul quale si erano radunati tutti i capitani veneti, essendo il suo sperone di settentrione assai avanzato. Giuntovi quasi sotto si mise a gridare per la seconda volta:

— Una donna turca sfida una donna cristiana, ed un capitano turco sfida un capitano veneziano. Che cosa devo rispondere al Gran Vizir ed al grande ammiraglio? Che né le cristiane, né i loro uomini, hanno più spade per battersi?

Muley-el-Kadel, che si trovava all’estremità dello sperone con Eleonora, tutti e due coperti d’acciaio, fu pronto a rispondere:

— Va’ a dire ad Haradja, la nipote di Ali Bascià, che vi è una cristiana pronta a combatterla, come vi è pure un capitano pronto a scavalcare qualche vostro grande guerriero. Noi siamo pronti a batterci.

Il turco abbassò la bandiera in segno di saluto, e ripartì a corsa sfrenata, rasentando, per la seconda volta, il ridotto degli Alberoni, che pareva avesse per lui uno strano interesse.

— Capitano — disse Muley-el-Kadel, volgendosi al conte Morosini che si era assunta la difesa di Candia. — Fate abbassare il ponte levatoio. Mia moglie darà una terribile lezione a quella ladra di fanciulli.

— Guardatevi dai tradimenti, miei giovani amici — rispose il capitano generale. — Conosco il vostro coraggio come la vostra abilità nel giuoco delle armi, e per questo non temo, tuttavia guardatevi.

— Non andremo più oltre del ridotto degli Alberoni — disse la duchessa. — Rimarremo sempre sotto la protezione delle vostre colubrine.

— E delle nostre spade!... — gridarono i capitani che la circondavano.

— Muley, ai nostri cavalli.

— Mico li tiene dietro il ponte levatoio. Aspettiamo.

Trascorsero dieci minuti d’intensa ansietà per tutti. I bastioni, le terrazze delle torri, perfino i merli delle cinte si erano gremiti di guerrieri, ansiosi di assistere ad un altro trionfo di Capitan Tempesta, poiché nessuno dubitava che la famosa spadaccina, che tanto si era fatta ammirare a Famagosta, non vincesse la donna turca.

Ad un tratto squillò, verso gli avamposti turchi, una tromba, e si vide poco dopo saltare una trincea l’araldo, sempre colla sua bandiera bianca. Lo seguivano Metiub ed Haradja, montato il primo su un robusto turcomanno, e la seconda su un superbo cavallo arabo, dal mantello grigio pomellato, la lunga criniera e la lunghissima coda che toccava quasi il suolo.

Entrambi erano coperti d’acciaio, ed avevano le visiere calate per non farsi riconoscere, precauzione inutile, almeno per Haradja. I tre cavalieri s’accostarono al ridotto degli Alberoni, dietro al quale vi era un vasto spianato veramente adatto per una sfida fra cavalieri, poi l’araldo, piantata la lancia colla bandiera, tornò indietro lasciando soli i combattenti.

— Eleonora!... — aveva gridato, non senza una certa emozione, Muley-el-Kadel. — La vedi Haradja?

— Non può essere che lei — aveva risposto la duchessa.

— Andiamo, io non tremo per te, mia adorata.

— Nessuna donna mi getterà di sella, sii sicuro, Muley.

— Prima te poi darò io il resto a quel capitano che viene a sfidarmi.

Strinsero le mani al capitano generale ed ai suoi amici, scesero una gradinata di pietra che, al riparo delle palle, metteva nella seconda cinta, e giunsero al ponte levatoio già calato e guardato da una compagnia di schiavoni. Mico aspettava i padroni tenendo, a fatica, due bellissimi cavalli tutti neri con bardature montate in parte d’argento.

— Via — disse la duchessa, balzando in sella al suo. — Andiamo a vedere quale colore ha il sangue della tigre d’Hussiff.

Ed insieme al damaschino prese la corsa verso il ridotto, mentre sui bastioni, sulle torri, sulle cinte, si gridava:

— Buona fortuna a Capitan Tempesta!... Fortuna al Leone di Damasco!...