Il Leone di Damasco/XI. La cavalleria turca

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XI. La cavalleria turca

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XI.

La cavalleria turca


Fuori della fattoria si stendeva una notte ancora cupa, poiché l’alba non doveva spuntare che fra qualche ora e le stelle erano rimaste coperte dai vapori. Regnava una grande e tetra calma di aria, e sulla terra pareva che gravasse qualche cosa d’invisibile e di pauroso che assorbisse ogni rumore, ogni piccolo strepito, ogni minimo alito di vento, dando alle piante ed al cielo l’immobilità delle cose morte.

Anche nella fattoria regnava ora un gran silenzio, poiché i mastini, come se avessero compreso a quali pericoli potevano esporre i loro padroni, avevano cessato completamente di mugolare. Solamente sui tralci delle viti, di quando in quando, si udiva echeggiare la lugubre voce dei mangiatori di cadaveri. I sei uomini si avanzarono, con precauzione di qualche cinquantina di metri, poi si gettarono nei solchi per meglio nascondere le micce che bruciavano.

— Brutta notte, è vero Domoko, per un combattimento? — disse il greco.

— Ne ho vedute di peggiori — rispose l’isolano, con la sua solita voce tranquilla e ad un tempo robusta. — Ah!... Quei turchi!... Non la sarà finita finché una o l’altra razza rimarrà distrutta, e purtroppo saremo noi questi.

— Venezia non è ancora morta — disse il Leone di Damasco — e come vedete, a rischio di mille pericoli, non vi abbandona.

— Lo so, signor Muley. La Serenissima non potrebbe fare di più in questi momenti, poiché le flotte non si improvvisano.

— Credete che Veniero possa tentare qualche colpo?

— Malgrado i suoi settantaquattro anni è sempre il più audace marinaio che sia mai nato nelle lagune. La vecchiaia non sembra pesare a quell’uomo. Si direbbe che nelle sue vene scorra bronzo invece di sangue.

— L’avete veduto?

— Tre giorni fa a Capso.

— Pareva disposto a precipitarsi sui mussulmani?

— È venuto nelle acque di Candia per combattere e non già per riposarsi, signor Muley — disse Domoko. — Quel vecchio, quantunque abbia una gamba ferita, che lo costringe a portare delle pantofole sotto l’abito del guerriero, non sente il bisogno di starsene tranquillo a bordo della sua galera.

— Potente?

— Una fanà con sessanta pezzi e cinque ordini di remi. Prenderla, farà caldo anche pei turchi.

— Silenzio — disse in quel momento l’albanese. — I turchi si avanzano.

— Come lo sai — chiese Muley.

— Dalla cenere che sollevano i loro cavalli e che forma una specie di nuvola.

— Che cosa ci consigliate di fare, voi Domoko? Di rimontare in sella e ripartire?

— I vostri cavalli, quantunque di buona razza, sono giunti qui stremati di forze. I nostri campi sono cattivi da percorrersi, ed anche i migliori arabi si rovinano dentro i solchi pieni di ossa. Ritorniamo alla fattoria e lasciate che tenti il colpo.

— Vorreste nasconderci?

— Sì, dentro le zare.

— E se i turchi alzassero il coperchio degli orci?

— Io spero di giocarli.

— In quale modo?

— Kitar, Kara, andate a prendere dei vasi colmi del miglior vino e metteteli tutti sulla mia tavola.

— Sì, padre — risposero i due giovani, spegnendo le micce degli archibugi e correndo verso la casa.

— Ritiriamoci anche noi — disse Domoko. — Noi non sappiamo in quanti sono i turchi, e con le armi da fuoco non vi è più da scherzare. Anche quelle canaglie hanno cominciato ad abbandonare le balestre.

— Vedi nulla, tu, Mico? — chiese il Leone di Damasco.

— Sì, una nuvola di polvere che si avanza lentamente e che si distende — rispose l’albanese.

— S’avanzano dunque?

— Certamente.

— Compare Domoko, in ritirata.

I quattro uomini ripercorsero il solco e giunsero ben presto dinanzi alla fattoria, la quale si era di nuovo illuminata. L’orologio ormai non batteva più ed anche i cani stavano zitti. Domoko scoperse tre zare che avevano servito a contenere solamente dell’acqua e disse ai fuggiaschi:

— Presto, saltate dentro cogli archibugi e colle spade. Un combattimento può avvenire con quelle canaglie.

Muley-el-Kadel aggrottò la fronte. — Io nascondermi!... — disse.

— Signore, — disse il greco — la guerra ha le sue necessità. Vale, il più delle volte, più la furberia che l’audacia. Una palla parte presto e spacca il cuore o crepa un polmone.

— Hai ragione.

Spensero le micce e si cacciarono dentro i giganteschi vasi, i quali erano così grossi da contenerli comodamente. Domoko rimise a posto i coperchi, in modo però che l’aria non potesse mancare ai prigionieri, poi scatenò i cani.

I due mastini si erano subito slanciati attraverso la tenebrosa pianura, urlando ferocemente. Erano due nemici formidabili che non avevano certo paura delle scimitarre turche. Domoko e i suoi cognati avevano nuovamente spento il lume e si erano messi in agguato fuori della porta, dietro a tre o quattro gabbioni.

Nel gran silenzio si udivano i cani urlare, ma insieme a quei latrati si udiva pure un fragore sordo, pesante, che annunciava della cavalleria.

— Vengono — disse Kara. — Ai primi albori saranno qui.

— Ne sono convinto anch’io — rispose Domoko.

— Credi che siano in molti?

— Non mi pare: col grande silenzio che regna sui campi, anche pochi cavalli fanno del fracasso.

— Speri di salvare i nostri ospiti?

— E anche la fattoria — disse Domoko. — Questa volta sarà il sangue turco e non già quello cristiano che ingrasserà il nostro vigneto. Badate di non lasciarne scappare neppur uno, onde non ci sia qualcuno che rechi al Vizir la notizia della strage dei suoi cavalieri.

— Li troveranno, padre — disse Kitar, il quale come Kara chiamava Domoko con quel dolce nome, dopo che tutti i loro parenti erano stati distrutti dagli implacabili nemici della Croce.

— Li bruceremo, uomini e cavalli — rispose il forte cretese. — La legna qui non manca, ed in cantina abbiamo due zare ancora piene di grappa.

— Che vengano i nostri amici?

— Non udendo più l’orologio suonare lasceranno le loro fattorie, e possiamo contare su sei giovani che ammazzano le quaglie al volo.

— E un turco è più grosso d’una quaglia — disse Kitar.

— Ci sono vicini!...

— Senza aspettare l’alba?

Delle ombre si avanzavano verso la fattoria, ombre di cavalieri, semiavvolte nella cenere sollevata dalle zampe dei cavalli.

Domoko, che aveva la vista acuta, malgrado l’età avanzata, guardò attentamente il drappello il quale pareva che non avesse molta fretta di venire ad un combattimento.

— Tredici — disse. — Né uno di più né uno di meno. Quella gente, questa sera, sarà ridotta in cenere.

Una voce rauca si alzò, chiedendo: — Chi vive?

— Che nessuno risponda — disse Domoko.

Trascorsero alcuni secondi, poi la voce, che era sgradevolissima, riprese con una intonazione di ferocia:

— Cani di cristiani, volete rispondere sì o no? Sono un kaymakan e conduco con me della cavalleria.

I tre candioti eseguirono una prudente ritirata, non volendo in nessun modo impegnarsi a fondo, anche perché dubitavano che indietro fossero rimasti altri cavalieri.

— Accendi ora il lume, Kitar — disse Domoko. — La visita l’avremo egualmente.

Il kaymakan, fermo a duecento passi dalla fattoria, continuava intanto a strepitare, come se fosse tutto d’un colpo impazzito. — Ah!... Cani di cristiani!... Luridi maiali!... Non volete rispondere? Per la barba del Profeta, vi farò impalare tutti e darò le vostre budella ai mangiatori di cadaveri.

Domoko si affacciò alla porta tenendo pel collare uno dei suoi due cani.

— Chi vive? — gridò.

— Porco d’un cristiano, hai il sonno così duro da non udire la voce d’un kaymakan?

— Ho lavorato la campagna, io, quest’oggi ed ero stanco.

— Sei tu che ti chiami Domoko?

— Sì.

— Un rinnegato della Croce?

— Sì.

— Non sei solo?

— No, ho con me i miei due cognati.

— Ed anche dei cani mi pare.

— E terribilissimi, effendi.

— Quanti?

— Due.

— Prima che io entri nella tua bicocca esigo che siano morti.

— I miei cani? No, effendi.

— Come!... Tu, lurido cristiano, perché hai indossata la camicia mussulmana, ti credi in diritto di ribattere parola?

— Sì — rispose Domoko, con voce fremente.

— Vuoi che ti bruciamo dentro la tua casa?

— Ed io scatenerò i cani, e coi miei cognati vi darò battaglia, briganti!...

— Per la barba del Profeta, — disse il kaymakan — quell’uomo è un vero gallo candiota. Camerati, avremo da divertirci. Aspettiamo solamente che spunti un po’ di luce.

— Effendi, — disse Domoko — potete avanzarvi senza timore. I cani non vi daranno alcun fastidio. Volete che vi mandi, se volete proprio aspettare l’alba, un paio di vasi pieni di vino?

— Ah!... Falso mussulmano!... — urlò il kaymakan. — Tu bevi ancora del vino mentre il Profeta l’ha proibito ai suoi fedeli.

— Mi hanno detto che ne beve anche il Sultano.

— Ma a quello tutto è permesso, e poi non beve che vino di Cipro.

— Il mio non è meno dorato, né meno generoso di quello che si fa in quell’isola.

— Porco lurido!... Tu mi tenti!...

— Volete sì o no? — chiese Domoko, impazientito, il quale non ignorava che i turchi avevano fatto un largo strappo al Corano per tracannarsi il succo del gran Noè.

Udì i cavalieri borbottare, poi il kaymakan rispose:

— Porta.

— Se prometti salva la vita sul Profeta.

— Pel vino che gustano i sultani si può promettere. Mandaci da bere e non faremo alcun male agli uomini che porteranno i vasi.

— Conto sulla promessa.

Domoko si volse verso i cognati e chiese loro:

— Avreste paura a portare da bere a quelle canaglie?

— No — rispose Kitar. — Condurremo con noi i cani, e vedrai che i turchi rimarranno tranquilli. Temono più i nostri mastini che i cristiani.

— Perché sono lesti a saltare alla gola ed a strangolare — disse il fattore. — Prendete quattro vasi e andate. Noi tutti saremo pronti ad accorrere in vostro aiuto.

Kitar alzò le spalle.

— Morire questa sera o domani che cosa importa a noi? Lo sappiamo che questa isola è ormai maledetta, e che la calma non regnerà finché non sarà scomparsa tutta la nostra razza. Bah!... Coi turchi ci si abitua all’idea della morte, e non ci si fa più caso.

Il kaymakan cominciava ad impazientirsi per quel piccolo ritardo.

— Luridi adoratori della Croce, non avete una parola voi? Portateci da bere, per la barba del Profeta. Abbiamo le gole piene di polvere, e di polvere d’ossa cristiane, per di più.

— Canaglie — disse Kara. — Faremo provare loro i denti dei nostri mastini.

I due cognati di Domoko slegarono i cani, i quali già cominciavano ad urlare ferocemente, presero fra le robuste braccia quattro grossi vasi colmi di vino bianco, che poteva rivaleggiare con quello di Cipro, e si avviarono intrepidamente incontro ai turchi, i quali non avevano fatto un passo innanzi.

— Ecco i cani rognosi che ci portano da bere — gridò il kaymakan. — Hanno paura di noi, questi adoratori della Croce. Se io fossi il Vizir li farei decapitare tutti, anche se hanno rinnegata la loro religione. Non c’è che la testa che non cresce più, per la barba di Maometto!...

Kara e Kitar, per niente atterriti da quelle minacce, si avanzavano verso i cavalieri, reggendo a fatica i grossi vasi. Ai loro fianchi i cani urlavano spaventosamente. Attraversarono il campo coltivato a vite, e ben presto si trovarono dinanzi ai loro eterni nemici.

L’alba cominciava appena allora a spuntare, arrossando dolcemente il cielo. I cavalieri erano dodici, guidati da un kaymakan di feroce aspetto, che aveva la fascia di seta piena di pistoloni e di yatagan, e sul capo un monumentale turbante di broccato, adorno d’una mezza dozzina di penne di struzzo, che avevano perduto ormai tutte le loro barbe.

— Cani schifosi... — urlò l’irascibile condottiero, vedendoli giungere. — Vi fate aspettare, a quanto pare!...

— Il Profeta ha proibito ai suoi seguaci di bere vino — rispose, audacemente, Kara.

— Hai la lingua lunga, cristiano — rispose il kaymakan. — Se ti afferro sarà la prima cosa che ti taglierò. Per chi ci prendi, noi? Per dei facchini, degli amali di Costantinopoli? Ah!... La vedremo!...

— Tu dimentichi che anch’io, ora, sono un credente del Profeta.

— Da quando? — chiese il kaymakan, ironicamente.

— Da sei mesi.

— Ti sei accorto troppo tardi che la nostra religione è la sola, la vera, l’unica.

— Sono vissuto sempre fra i cristiani — disse Kara.

— E tu preghi con fervore col viso volto alla Mecca?

— Sì, al mattino, al mezzodì ed alla sera.

Il kaymakan scoppiò in una risata.

— Se ti aprissi il petto e ti levassi il cuore non vi troverei dentro nessuna fede per il Profeta. Voi, canaglie, rinnegate la religione dei vostri padri per salvare la pelle, e null’altro. Bada di non farti sorprendere da me. Sono capace di giungere qui di volata per accertarmi se tu preghi.

— Vieni: le mie preghiere le dico fuori della porta, e tutti possono vedermi.

— Posate i vasi e tenete indietro i due cani — disse il turco. — Io non voglio aver da fare con quei denti.

I due candioti obbedirono, poi fecero atto di tornare verso la fattoria.

— Olà!... Adagio, pezzenti!... — urlò il kaymakan, il quale era già sceso da cavallo impugnando una enorme scimitarra.

I due candioti, avendo veduto che anche i suoi compagni non erano più in sella, e che quindi non avrebbero potuto lì per lì inseguirli, volsero le spalle e fuggirono a tutte gambe verso la fattoria, protetti dai cani, i quali, coi loro latrati, spaventavano i cavalli.

— Aspettate che mi abbia bagnato la lingua e poi verrò a dirvi due parole — disse il kaymakan. — A me non la fanno, per la barba del Profeta!....

I cavalleggieri, contenti di aver trovato da bere, si erano seduti intorno ai vasi pieni d’un vino bianco, dolce, quasi sciropposo, poco dissimile da quello che si ricava dalle uve dorate di Cipro, e si erano messi a bere, lasciando che il loro capo continuasse a brontolare. Dovevano essere abituati a quelle sfuriate e non vi facevano più caso.

Domoko mosse incontro ai cognati, portando, per precauzione, un archibugio, temendo che i turchi, sempre usi a considerare i cristiani, anche se rinnegati, come buona preda da non risparmiarsi, facessero contro di loro una scarica di pistole. Il vino però era troppo dolce e tenne incatenati i mussulmani intorno ai vasi. Il kaymakan se n’era preso uno per sé solo, e trincava allegramente, infischiandosene del Corano.

— Verranno a farci una visita? — chiese Domoko ai due cognati.

— All’alba saranno qui — rispose Kara.

— E quello che sarà peggio ubriachi — disse Kitar.

— Se non sarà un bene — rispose Domoko.

Alzò gli occhi e guardò il cielo. Le poche stelle che apparivano fra gli strappi dei vapori, cominciavano già a spegnersi dolcemente. Verso oriente una luce non ancora ben definita, s’avanzava.

— L’alba — disse.

Entrò nello stanzone, levò i coperchi delle zare affinché i prigionieri potessero respirare più liberamente, poi disse a Muley-el-Kadel:

— Un combattimento forse avverrà, ma voi non comparirete che all’ultimo momento. Lasciate prima che cerchi di giocare quelle canaglie.

— Non sono molti? — chiese il Leone di Damasco.

— Tredici.

— Mi sentirei capace di caricarli accompagnato solo dal mio albanese.

— Aspettate, signore. Vi è sempre tempo a prendersi un colpo di scimitarra od una palla di pistola. Voi sapete meglio di me che i soldati turchi si battono bene, disprezzando la loro vita.

— Lo so.

— Ricacciatevi dentro, signori, e state zitti. Il sole si alza, e quelle canaglie fra pochi minuti saranno qui.

Si udivano i turchi, messi in buon umore, forse troppo, da quel generoso vino, schiamazzare intorno ai vasi che dovevano ormai essere stati vuotati. Il kaymakan soprattutto si faceva udire, e non erano altro che atroci ingiurie contro i cristiani, che uscivano dalla sua bocca ed orribili minacce.

Finalmente si arrampicarono sui loro cavalli e si mossero verso la fattoria, strepitando come se si preparassero a prenderla d’assalto. Domoko, Kitar e Kara prepararono i loro archibugi ed i loro yatagan, cacciarono i cani in fondo allo stanzone e si affacciarono. Il sole sorgeva maestoso, spegnendo quasi di colpo le stelle e sciogliendo, col suo intenso calore, i vapori roteanti per l’aria. Il kaymakan, il quale si reggeva assai male in sella, fu il primo a giungere dinanzi alla fattoria.

— Dov’è il padrone? — urlò.

— Eccomi — rispose Domoko, avanzandosi intrepidamente. — Che cosa vuoi da me?

— Sei anche tu un falso mussulmano, è vero?

— Io credo al Corano.

— Tutti, voi rinnegati, dite così per paura di perdere il naso o gli orecchi.

— Io ti ho domandato che cosa vuoi — disse il cretese, il quale cominciava a scaldarsi. — Le minacce serbale per altre occasioni.

— Per la barba del Profeta!... — esclamò il kaymakan. — Ecco un cristiano che ha del vero sangue nelle vene.

— Ti ho detto che sono ormai mussulmano.

— La!... La!... La!... — fece il turco, con un risolino ironico.

Aggrappandosi ben stretto al pomo della sella, mise i piedi a terra, tosto imitato dai suoi cavalleggieri, e mosse verso il fattore, facendo scintillare, ai primi raggi del sole, la sua grossa scimitarra.

— In quanti siete? — chiese.

— In tre.

— E non si sono rifugiati dei cristiani nella tua fattoria?

— Sono quindici giorni che nessuna persona viene a trovarci. Ormai non si commercia più.

— Ah!... Lurido cane!... Tu cerchi d’ingannarmi. Ingannare un kaymakan!... Ah!... Ah!... Non sai che abbiamo seguite le tracce di quei tre cavalieri fuggiti da Canea, e che hanno ammazzato due dei nostri?

— Saranno passati oltre questa notte, mentre noi dormivamo. Noi siamo soli.

— Io vedo il tuo naso in pericolo — disse il turco, facendo roteare la scimitarra. — Dopo il naso verranno gli orecchi, e finalmente si giungerà a spegnere un rinnegato che inganna il Profeta dall’alba alla sera.

— Vuoi visitare la mia casa? Entra pure.

— Non mi tenderai un agguato?

— Hai abbastanza uomini sotto di te per punirmi.

— Oh!... Basterebbe la mia scimitarra — disse il tenente colonnello della cavalleria ottomana. — Io, i cristiani, me li mangio senza fare smorfie, al mattino ed alla sera.

— Sì, una colazione ed una cena — disse Domoko, ironicamente.

— Sei un contadinaccio, ma si vede che hai un po’ di cervello. È il Profeta che ti aiuta.

— Infatti alla sera, quando vado a dormire, sento la sua barba a sfiorarmi il viso.

— Tu!...

— Io!...

— Tu sei una grande canaglia che cerca di giocarmi — disse il kaymakan, con voce terribile. — Lascia che visiti la tua bicocca.

— Vi sono i cani.

— Accoppali.

— Ah, no!... Sono bestie troppo brave contro i nemici.

— Allora ti spaccherò la testa.

— La miccia brucia sul mio archibugio — rispose audacemente il fattore.

— Ah!... Lurido cane!... Vorresti ribellarti?

— Io no: io ti ho detto di entrare nella mia casa e di bere il mio vino.

— Per tutte le barbe del Profeta!... Tu hai un vino che rende allegri perfino troppo presto.

— È come il Cipro che bevono i sultani — disse Domoko, non senza una punta di ironia.

— Ora capisco perché ammazzano, senza batter ciglio, principi e ministri. Orsù, vediamo. Qui si sente odore di cristiani.

Traballando un po’, varcò la soglia ed entrò nello stanzone, sbattendo fragorosamente al suolo la scimitarra.

— Qui devono essere venuti — disse, guardando Domoko. — I cristiani.

— Quali?

— Quelli che hanno ucciso i miei compagni.

— Cercali.

— Che cosa contengono quelle zare?

— Dell’acqua corrotta.

— Niente vino?

— No, però ho la cantina ben fornita.

— Fa’ portare.

— Ancora?

— Beve il Sultano: bevano anche i suoi cavalleggieri.

I soldati erano entrati, strascinando rumorosamente le scimitarre e soffiando sulle micce delle pistole. Vedendo la lunga tavola e gli scanni si sedettero tranquillamente, in attesa di ricominciare la bevuta.

Il kaymakan però non pareva tranquillo, e passeggiava con aria sospettosa, dinanzi alle enormi zare. Sentiva i cristiani che stavano rinchiusi dentro? Per un turco anche quello era probabile.

Kitar, che lo teneva d’occhio, condusse i cani in modo da farli trovare dinanzi agli enormi recipienti. Il kaymakan, che pareva avesse una gran paura di quei terribili mastini, passeggiò tre o quattro volte, sagrando e bestemmiando contro i cristiani, poi si sedette al tavolo e si mise a bere in compagnia dei suoi cavalleggieri. Aveva già vuotato un paio di tazze, quando si alzò di colpo, urlando:

— Questi luridi cristiani ci giocano, ve lo dico io.

Poi fissando Domoko, il quale era diventato pallido, gli disse: — Scopri le zare: voglio vedere che cosa contengono.

— Scoprile tu — rispose il fattore. — Non vi sono già dei morti là dentro.

— Credi che abbia paura io?

— Comincio anzi a crederlo.

— Ah!... Per tutti i briganti dell’Arabia, qui ci si gioca.

Si avvicinò alla zara ed alzò il coperchio.

Il Leone di Damasco apparve colla spada in pugno, pronto alla battaglia.

— Un cristiano? — aveva urlato il kaymakan, alzando la scimitarra.

— Non sono né turco né cristiano, in questo momento: sono il Leone di Damasco.

Con un salto il terribile spadaccino era balzato fuori della zara, muovendo contro il kaymakan.