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Il Leone di Damasco/XIV. Sulla galera del Pascià

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XIV. Sulla galera del Pascià

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XIII. Sebastiano Veniero XV. La caccia al caiccio

XIV.

Sulla galera del Bascià


Mentre il greco si sbarazzava così abilmente dei due imprudenti manigoldi, Mico aveva continuata la sua corsa verso la rada di Candia. Per non prendersi qualche colpo di colubrina, aveva acceso il fanale, poi si era cacciato sotto la costa, stringendo bene il vento. In lontananza scintillavano i fanà della squadra turca, quei grossi e splendidi fanali, alti talvolta perfino un metro e mezzo, tutti in argento, e d’oro puro sulle capitane.

Al largo invece brillavano i segnali delle gagliotte, incrocianti avanti la rada, per coprire il Bascià da qualsiasi sorpresa. Mico, che, come marinaio, valeva il greco, orientò bene le sue vele, poi mosse verso una mezza galera che si lasciava andare lentamente, senza far uso dei remi, ad un miglio dalla costa. Una voce si alzò ben tosto sul mare, una voce piena di minaccia:

— Ehi, fermati, o ti mitragliamo come un cane di cristiano. Chi vive?

— Turco che viene dalla rada di Capso, con lettera del Sultano — gridò l’albanese.

— Accosta.

L’albanese lasciò cadere le vele, e con una pronta ed abilissima manovra, condusse il caiccio sotto il babordo della mezza galera.

— Monta!... — gridò una voce.

L’albanese legò la scialuppa alla scala, poi si arrampicò lestamente, finché giunse sulla tolda.

Un capitano, seguito da una mezza dozzina di ufficiali, gli piombò addosso, e stringendolo pel collo brutalmente, disse:

— Mostra la lettera.

— Devo consegnarla solamente nelle mani del Bascià — rispose l’albanese.

— Non sarò così stupido da aprirla. Il grande ammiraglio sarebbe capace d’impalarmi sulla cima di qualche alberetto, e non ho, per ora, nessuna voglia di andarmene. Prima desidero vedere la distruzione completa di Candia.

Alcuni marinai avevano portato dei fanali. Mico levò la lettera, che aveva nascosta in una tasca interna, e mostrò al capitano, assai stupito, i grossi suggelli del Sultano.

— Per la morte di tutte le uri che passeggiano nel nostro paradiso!... — esclamò il capitano, facendosi un po’ smorto. — Avrei fatto un bell’affare se avessi mitragliato quest’uomo. Corpo di una bombarda!... Veri sigilli. Li conosco, io.

Poi guardando attentamente ed un po’ sospettosamente Mico, gli chiese:

— Chi te l’ha data?

— Non posso dirlo — rispose l’albanese. — Sono affari che riguardano solamente il Bascià, ed anch’io ci tengo un po’ alla mia pelle.

— Hai ragione: sei giovane ancora, e puoi assistere a ben altri trionfi dell’Islam.

Fece prendere a rimorchio il caiccio governato da due marinai, poi la mezza galera mosse sollecitamente, a gran colpi di remi, verso la flotta ottomana, ancorata di fronte alla spiaggia di Candia, in forma di un grande arco.

Pareva che vi fosse tregua quella notte fra assediati ed assedianti, poiché le colubrine e le bombarde tacevano. Solamente agli avamposti si sparavano, di quando in quando, delle archibugiate.

La mezza galera, con una pronta ed abile manovra, passò attraverso le duecento navi della squadra, senza urtarne nessuna, ed abbordò la capitana, il cui cassero era vivamente illuminato da tre grossi fanà.

Il capitano salì a bordo, e si fece condurre dal Bascià. Questi stava fumando placidamente il narghilek, seduto dinanzi alla lunga tavola che serviva pei pranzi dello stato maggiore, cercando di vuotarsi, di nascosto, come faceva sempre, qualche vecchia bottiglia di Cipro.

A pochi passi da lui, su di una ottomana di seta bianca, appoggiata contro la murata di babordo, stava adagiata Haradja, tutta avvolta in una leggera coperta di seta, essendo la notte assai afosa. La terribile donna era un po’ pallida, ma i suoi occhi non avevano perduto il loro splendore.

— Che cosa vuoi? — chiese il Bascià, vedendo il capitano della mezza galera salire la scala del cassero.

— Notizie da Costantinopoli, col suggello del Sultano, signore.

— Una lettera?

— Sì. Recata da un marinaio che viene dalla rada di Capso.

— Chi è?

— Io non ho osato interrogarlo.

— Tu sei uno stupido — disse il Bascià, prendendo la lettera che il capitano gli porgeva. — Mandami qui l’uomo che l’ha portata.

— Una lettera del Sultano!... — esclamò Haradja, con voce un po’ alterata. — Guardati, zio: sono sempre tristi messaggi, che finiscono per condurre al laccio di seta.

— Bah!... — fece. — Si ha troppo bisogno di me, e poi la flotta mi è così devota, da condurla anche a Costantinopoli e far un po’ tremare tutti i poltroni che ingombrano gli harem non sognando che delitti.

Ruppe, con precauzione, i grossi sigilli, lacerò adagio adagio la busta di cartapecora ed estrasse una carta che lesse rapidamente.

— E così? — chiese Haradja, che pareva assai inquieta.

— Mi si invita a recarmi, con la capitana, nella baia di Capso, per ricevere ordini segreti che mi verranno trasmessi da un alto funzionario del seraschierato.

— E perché? Che il Sultano sia malcontento delle operazioni d’assedio di Candia?

— È probabile — rispose il Bascià, il quale sembrava pure non poco turbato. — Che cosa si crede a Costantinopoli, che si possa radere al suolo una fortezza in una giornata? Vengano qui loro a provare le colubrine e le spade dei veneziani.

— Non fidarti: si congiura troppo a Costantinopoli, e puoi avere molti invidiosi della tua fortuna.

— Lo so meglio di te — rispose il Bascià, il quale si era messo a passeggiare, assai accigliato, tormentando l’impugnatura della sua scimitarra. — Se credono di togliermi il comando della flotta s’ingannano assai.

In quel momento ricomparve il capitano, seguito dall’albanese.

— Ecco l’uomo che ha portata la lettera — aveva detto il comandante della mezza galera.

Il Bascià piantò i suoi occhi addosso a Mico, il quale conservava una calma ammirabile, pur sapendo di camminare sull’orlo della tomba.

— Vieni? — gli chiese.

— Da Capso.

— Come sei giunto fino qui?

— Con un caiccio armato a vela.

— Vi è una galera a Capso?

— Sì, mio signore, e giunta direttamente da Costantinopoli con l’ordine espresso di non toccare Candia.

— Come si chiama quella nave?

— La Strumica.

— Non la conosco; sarà forse una galera nuova.

— È stata varata tre settimane fa.

— Chi la comanda?

— Il capitano Rodosto, ma...

— Perché ti sei fermato? — chiese il Bascià, guardandolo fisso.

— È un capitano che non ha più comando, si può dire, dopo che il Sultano gli ha messo ai fianchi un ferik (generale brigadiere) che non se ne intende affatto di cose di mare.

— Lo credo. Sai che cosa si vuole da me?

— No, mio signore.

— Se tu avessi potuto dirmi qualche cosa, ti avrei pagato bene.

— Non sono che un povero marinaio che non può sperare di interrogare i superiori.

— Hai un accento strano. Da dove vieni?

— Dall’Albania, mio signore.

— Anche quei montanari battaglieri si sono decisi a gettarsi sul mare? L’Adriatico è a portata di mano, e battuto, quasi ininterrottamente, dalle galere veneziane.

Il Bascià guardò Haradja come per chiederle consiglio.

— Che cosa fare? — le chiese, sottovoce, avvicinandosi all’ottomana.

— Se tu non obbedisci, il Sultano è capace di mandarti il laccio di seta, sia pure dentro una scatola d’oro.

— E se mi ribellassi a questi ordini che vengono da Costantinopoli, e non già dal quartiere generale del Vizir?

— Una ribellione!... E poi?

— È vero: dovrei andare a fondo e bombardare anche la moschea di Santa Sofia. Ti farò trasbordare su un’altra galera ed io partirò, non solo però, piaccia o no al Sultano. Sono io che rischio la mia pelle questa sera, mentre lui se ne sta fra le sue favorite, bevendo vino di Cipro. Anch’io sono un mussulmano.

— Cosa decidi?

— Di recarmi all’appuntamento con una grossa scorta.

— Chi la comanderà?

— Non preoccuparti. Ho sotto le mani dei capitani che non hanno paura del fuoco.

Si volse verso Mico, il quale tendeva gli orecchi, per non perdere nessuna parola, e gli chiese:

— Che cosa ti ha detto il tuo capitano?

— Di ritornare al più presto possibile.

— Per la morte del Profeta!... — gridò il Bascià. — Hai da preparare un laccio per me?

— Sono un marinaio e non un carnefice, mio signore, e poi non oserei alzare un dito verso il più grande ammiraglio che abbia oggi la Turchia. Voi siete un uomo troppo prezioso in questi momenti.

— Odi, Haradja? — chiese il Bascià. — E non è che un semplice marinaio quest’uomo, che io, domani, se fossi il Sultano, nominerei contrammiraglio.

— Hum! — fece la castellana d’Hussiff, sottovoce.

Poi il Bascià, rivolgendosi nuovamente all’albanese, gli domandò: — Vuoi partire?

— Se voi me lo permettete — rispose Mico.

— Ti darò però un compagno, il quale sarà incaricato di consegnare al tuo capitano una mia lettera. Io, prima dell’alba, non potrò trovarmi all’appuntamento. Mogdor!...

Un negro gigantesco, che aveva addosso un vero arsenale di armi bianche e da fuoco, a quella chiamata accorse, salendo sul cassero.

— Tu accompagnerai quest’uomo — gli disse il Bascià. — Se tenta di fuggire ammazzalo.

— Sì, padrone — rispose il negro, guardando di traverso l’albanese.

Il grande ammiraglio si mise una mano nella larga fascia di seta rossa e ne levò alcuni zecchini, dicendo:

— Questi per ricompensarti della tua premura. Se un giorno avrai bisogno d’un alto appoggio, non scordare Ali l’algerino.

E porse le monete a Mico, che era ben lontano dall’idea di guadagnarsi quel regalo, ma anche da quella di dover tornare alla rada di Capso con quel terribile negro.

— Grazie, mio signore — disse l’albanese, cercando di nascondere le sue apprensioni. — Non mi dimenticherò mai della generosità del grande ammiraglio.

— Puoi andare.

Mico augurò la buona notte e riattraversò la capitana, seguito dal gigantesco negro, che pareva fosse, ad ogni passo, lì lì per piombargli addosso e strozzarlo, senza ricorrere alle armi. Il capitano della mezza galera aveva già fatto armare la scialuppa, e l’aveva fatta rimorchiare fino sotto la scala.

— Guardati dai pescicani — gli disse il comandante. — Una gagliotta che è entrata or ora, ne ha incontrato parecchi.

— Ho il mio archibugio — rispose Mico.

Con pochi colpi di remo spinse al largo il caiccio, orientò le vele, poi sedette al timone, mentre il negro gli si piantava dinanzi, sul secondo banco, fissandolo terribilmente coi suoi grandi occhi di porcellana.

— È inutile che tu mi guardi così — disse Mico, seccato. — Aiutami, invece, nella manovra.

— Io ho ricevuto l’ordine di sorvegliarti — rispose il gigante.

— Non so da quale parte potrei fuggire.

Il negro, invece di rispondere, si tolse dalla cintura due pistoloni, e coll’acciarino e l’esca accese le micce.

— Che cosa fai? — chiese Mico, il quale cominciava a diventare assai inquieto.

— Non hai udito che al largo vi sono molti pescicani? — rispose il negro, collocando le armi fumanti sul banco. — Il nostro caiccio è piuttosto piccolo, e potrebbe subire un assalto da parte di quei brutti pesci.

— Ah!... È vero — disse Mico. — Ed allora accendo le micce del mio archibugio.

— No.

— Come no?

— Io solo devo far fuoco. Passami il tuo archibugio.

— E poi vorrai anche la mia testa per depredarmi di quei pochi zecchini che il Bascià mi ha regalati.

— Io ho ricevuto solamente l’ordine di sorvegliarti e non già di derubarti — rispose il gigante. — Gli zecchini li troveremo a Candia a palate, quando la città si sarà arresa. Sotto quelle case vi deve essere un letto d’oro.

— Chi te lo ha detto?

— Lo dicono tutti al campo.

— Io credo che non troverete che dei cadaveri da spogliare — disse Mico.

— Tu non sai nulla.

— Se vengo dal mare, no di certo, non essendo vissuto nei vostri accampamenti.

— Oro!... Fiumi di zecchini!... — disse il negro.

— Lascia andare gli zecchini, e bada un po’ anche tu alle vele.

— Io penso ai pescicani.

— Ed allora potevi rimanere a bordo della capitana se non posso contare sul tuo aiuto.

— Ti ho detto che penso ai pescicani.

— Ah, sì!... Finora non ne vedo.

— Oh!... Giungeranno, non dubitare.

— Passa anche a me una pistola, se vuoi tenerti il mio archibugio.

— Ci penso io a difenderti — rispose l’ostinato negro. — Le armi da fuoco fumeranno vicino a me e non a te. Non si sa mai.

Mico masticò fra i denti una imprecazione, e tornò a sedersi alla barra del timone, dopo d’aver nuovamente orientata la piccola vela latina ed il largo flocco.

— Bisogna che mi sbarazzi di questo sorvegliante, checché debba succedere — mormorò l’albanese, il quale, se aveva perduto il suo archibugio, aveva però conservato il kamgiar, una specie di daga affilatissima, a doppio taglio, d’acciaio purissimo.

Il disgraziato si tormentava il cervello per trovare il modo di sbarazzarsi di quell’importuno, quando scorse scorrere sul mare, delle forme semicircolari che mandavano dei bagliori sinistri.

— I pescicani!... — gridò. — Spara, o sfonderanno la nostra scialuppa.

Il negro era balzato subito in piedi, impugnando i pistoloni e si era portato a prora, poiché pareva che l’assalto dovesse avvenire da quella parte.

— Ah, le brutte bestie!... — gridò. — Ecco la peste dei mari giunge, ma ci sono io.

Salì sul castelletto, largo pochi passi, dove non era facile mantenersi in equilibrio colle controndate che giungevano dalla costa, e cominciò a sparare. Voltava le spalle a Mico, sicché non lo poteva più sorvegliare.

— Ora ti preparo io un bel gioco — mormorò il montanaro.

Adagio adagio slegò la scotta della vela latina, tirando a sé il pennone, poi diede al timone un colpo deciso.

In quell’istante il negro si era armato del moschetto, e per mirare meglio era salito su un banco.

— Ci sei? — disse Mico.

La scialuppa fece un brusco scarto, poi la sua vela, presa da una raffica contraria, volteggiò intorno all’alberetto, trascinando con sé il pennone. Si udì un grido terribile. Il negro, colpito dall’alto, era stato sbalzato in mare, fra i pescicani.

— Levatela come puoi, ora!... — gridò l’albanese, riprendendo il timone e raccogliendo la scotta.

— Assassino!... — gridò il negro, il quale si trovava già fra le bocche fosforescenti. — Vieni a raccogliermi!...

— Ti do una delle tue pistole, se vuoi.

— Il Bascià ti farà impalare sulla cima d’un alberetto della capitana.

— Non sarò così stupido di ritornare laggiù.

— Torna, canaglia, o se ti prendo ti strapperò tutta la pelle che hai indosso.

— Intanto difendi la tua dai morsi dei pescicani.

Il negro aveva ancora due yatagan passati attraverso la sua larga fascia. Sicuro ormai che l’albanese non avrebbe commessa la sciocchezza di andarlo a raccogliere, impegnò allora cogli squali che lo assalivano da tutte le parti, tentando di troncargli le gambe e le braccia, una lotta spaventosa.

Robusto come era, e buon nuotatore di certo, come lo sono quasi tutti i negri, non doveva cedere al primo urto. L’acqua era diventata fosforescente intorno a lui ed agli squali, poiché in quell’ora salivano dai fondi del Mediterraneo le nottiluche in compagnia delle meduse.

Mico, che non aveva avuto il coraggio di allontanarsi, poteva distinguere benissimo il colosso, che si trovava appena a cinquanta piedi dalla prora del caiccio. Balzava come un animale marino, sciabolava disperatamente, e cacciava fuori delle urla spaventose, le quali però pareva che non producessero alcun effetto sulle tigri del mare.

— Sarà meglio una palla che provare i denti di quei bruti — disse, montando sul banco di prora e proiettando innanzi a sé i raggi della lampada.

Allora vide uno spettacolo orribile. I pescicani avevano già tagliato un braccio al negro, tuttavia questi continuava a dibattersi, mandando, di quando in quando, veri ruggiti di belva feroce.

Ormai il disgraziato era perduto, e nemmeno Mico avrebbe potuto strapparlo a quella torma di squali famelici, resi più feroci dall’odore del sangue.

— È meglio che l’uccida — si disse. — La sua agonia sarà più breve.

I due pistoloni fumavano sul primo banco di prora. L’albanese li impugnò e li scaricò in direzione del negro. Due lampi illuminarono la notte profonda, seguiti da un urlo che parve il muggito d’un giovane toro. Mico alzò la lanterna e guardò.

I pescicani erano tutti scomparsi; certo seguivano il cadavere dell’africano, scendente verso le profondità del Mediterraneo, per divorarselo più comodamente sott’acqua.

L’albanese si terse, colla larga manica, il sudore che gli copriva la fronte.

— Ecco dei momenti terribili — disse. — Eppure bisogna difendersi ad ogni costo contro il crudele turco che non risparmia nemmeno i fanciulli cristiani. Andiamo a cercare il greco: la scogliera non deve essere lontana.

Ricaricò, per precauzione, i due pistoloni, diede una stretta alle scotte delle vele, poi si rimise al timone lanciando il caiccio verso ponente. Delle larghe ondate, che venivano dalla costa, prodotte dalla controspinta della risacca, di quando in quando, investivano l’imbarcazione, facendole fare dei bruschi soprassalti.

Per un quarto d’ora l’albanese mantenne la sua rotta, poi mandò un grido di gioia. Quantunque la notte fosse oscura, aveva scoperta la scogliera, sulla quale si era rifugiato Nikola. Impugnò le pistole e le scaricò in aria. Pochi momenti dopo un lambo brillava sulla cima d’uno scoglio, seguito da una fragorosa detonazione.

— Accosta!... — gridò una voce robusta che scendeva dall’alto.

— Chi vive?

— Mico, l’albanese.

— Va bene, aspetta un momento.

Il caiccio fece un paio di bordate dinanzi alla scogliera, poi, approfittando d’un momento di sosta della risacca, si accostò rapidamente. Due grida partirono.

— Mico!...

— Nikola!...

— Accosta ancora un po’.

L’albanese non si fece pregare, e subito dopo il greco era a bordo, armato del suo moschettone.

— Alle vele, Nikola — disse l’albanese. — La flotta del Bascià forse a quest’ora ha lasciato la baia di Candia.

— Colla sola capitana?

— Ah!... Non credo.

— Ed il figlio del Leone di Damasco?

— Fra tutta quella gente era impossibile tentare il colpo.

— Te lo avevo detto io. Ed Haradja?

— L’ho veduta, e pare che vada migliorando.

— Le tigri guariscono presto — disse il greco, scuotendo la testa. Lanciarono il caiccio, ed approfittarono del buon vento, che non richiedeva soverchie manovre, per raccontarsi le loro avventure.

— Dio ci ha protetti, — disse il greco — però non vorrei trovarmi ancora in una situazione terribile come mi sono trovato io.

— E nemmeno io — rispose Mico. — Ho sempre dinanzi agli occhi quel gigantesco negro che mi fissava come volesse affascinarmi.

— Che i pescicani però hanno divorato.

— Sì, per mia fortuna, o avrei dovuto impegnare un combattimento corpo a corpo, e queste scialuppe non si prestano per le mosse brusche.

— Sicché tu credi che il Bascià sia caduto nella rete tesagli da Sebastiano Veniero?

— L’ho udito dire ad Haradja che sarebbe partito, non con la sola capitana però.

— Allora verrà; è la piccola tigre d’Hussiff che comanda alla flotta. Forziamo le vele e cerchiamo di giungere alla rada di Capso. Ormai più nessun pericolo ci minaccia.

— A gran corsa — rispose il greco. Orientò meglio le vele, poi si sedette sul primo banco di prora, tenendo fra le gambe il suo moschettone colla miccia di già spenta. Quelle delle pistolone del negro fumavano sempre sull’ultimo banco di poppa.