Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo II
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Poco dopo le diciotto Mussolini si affaccia al balcone, la folla sottostante saluta ed applaude.
Il Duce, da perfetto attore, con le mani sui fianchi, osserva per un po’ in silenzio, poi con una mano alzata chiede la calma, quindi dà inizio al suo discorso.
Combattenti di terra, di mare, dell’aria, camicie nere della rivoluzione e delle legioni; uomini e donne d’Italia, dell’Impero, del Regno d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza del popolo italiano.
Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi. Promesse, minacce, ricatti e alla fine quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa, ma tutto fu vano. Bastava rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle nazioni e non considerarli intangibili per l’eternità. Bastava non iniziare la svolta politica delle garanzie che si è palesata soprattutto micidiale per coloro che le hanno accettate. Bastava non respingere la proposta che il Führer fece il 6 ottobre dell’anno scorso, dopo finita la campagna di Polonia.
Ormai tutto ciò appartiene al passato. Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi e i sacrifici di una guerra gli è che l’onore, gli interessi, l’avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo i problemi risolti dalle nostre frontiere confinanti, il problema delle nostre frontiere marittime. Noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di 45 milioni di anime non è veramente libero se non ha libero accesso agli oceani. Questa lotta gigantesca non è che una fase, e lo sviluppo logico della nostra rivoluzione è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee.
Ora che i dadi sono stati gettati e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per mare o per terra: Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole. Dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui fino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo e con le sue meravigliose forze armate. In questa vigilia di un evento di portata secolare rivolgiamo il nostro pensiero alla maestà del Re Imperatore che, come sempre, ha interpretato l’anima della patria.
E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata. L’Italia proletaria e fascista è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai.
La parola d’ordine è la sola, categorica e imperativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori, dalle Alpi all’Oceano Indiano. Vincere e vinceremo!
Per dare finalmente un lungo periodo di pace con giustizia all’Italia, all’Europa e al mondo.
Popolo italiano corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore.
Ne seguì una grossa ovazione.
Il mattino dopo ci recammo al lavoro, come al solito, ma nessuno lavorava, tutti facevano commenti, gli operai nei loro reparti, perché per uscire, occorreva una medaglia speciale da appuntarsi al petto, che soltanto il caporeparto rilasciava e solo per giustificato motivo, dopodiché valutava il tempo di assenza e quante volte l’operaio si assentava in un giorno (ovviamente per recarsi al water). Se uno veniva trovato senza medaglia erano le solite due ore di multa e vi era un addetto a questo lavoro, un sorvegliante che per tutto il giorno aveva il compito di girare per l’officina.
I capi invece si potevano riunire, discutevano sulle carte geografiche d’Italia ove, ai confini con la Francia, in matita rossa o blu, avevano segnato le loro previsioni per le prossime avanzate dell’esercito. Passando i giorni, oltre alle cartine, incominciarono a progettare armi, le più strampalate e nello stesso tempo ingenue possibili.
Io facevo il modellista, eravamo in tre dentro un vano di dieci metri per quindici circa; era il nostro un reparto a sé. Nessuno poteva entrare ad eccezione dei progettisti, i quali venivano ad accordarsi con noi per la costruzione degli eventuali modelli. Proprio il luogo del mio lavoro, per questa sua particolarità, divenne meta di tutti quelli che in azienda avevano compiti direzionali, per discutere dei progetti da loro ideati.
Mi facevano costruire prototipi di cannoni, mettendo in evidenza tutti i pregi che la loro nuova e futura creazione possedeva rispetto alle armi esistenti. Un giorno venne uno dei massimi dirigenti aziendali, Cav. Anfossi, non ho mai saputo quale fosse la sua funzione, si presentò a me siccome ero il più giovane fra i modellisti e quindi, a suo dire, più moderno; cosa poi c’entrasse la modernità era un mistero.
Distese su un banco un foglio con disegnata una bomba d’aereo di sua invenzione, era vista da sopra, da sotto, nelle varie sezioni, con segnate anche le eventuali quote. Io dovevo riportarlo in scala a trenta centimetri.
In che cosa consisteva la novità? Era una normale bomba d’aereo, alla quale aveva inserito alettoni di coda elicoidali, perché potesse scendere roteando su se stessa, ma la novità era che tutt’attorno, lateralmente e nell’interno erano insediati tubi di lancio, armati a loro volta di proiettili. La bomba, toccando terra, faceva scattare le cariche di lancio di tutti i proiettili sistemati al suo interno, i quali, con congegno a tempo, fatti cento metri, a loro volta scoppiavano, dopodiché anche la bomba contenitore doveva scoppiare. Questa era l’idea, mancava solo il modo di farla funzionare.
Non se ne fece nulla, né di quella, né di tutte le altre diavolerie che sulla carta tanti "caporioni" avevano progettato, e siccome si erano intensificate le discussioni, la direzione fece stampare un manifesto da affiggere in tutti i reparti dove era scritto: «Qui non si fanno discussioni o previsioni di alta politica od alta strategia, qui si lavora!».
Quando tornai dal fronte trovai i cartelli là, sempre al loro posto, assieme alle persone; valeva il motto: «Armiamoci e partite».