Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/XIII
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XIII.
Per un sentiero stretto,
Cercando di vedere,
E toccare, e sapere
Ciò, che gli è destinato.
E non fu’ guari andato
Ch’i’ fui ne la diserta;
Sì, ch’io non trovai certa
Nè strada, nè sentiero.
Deh, che paese fiero
Trovai ’n quella parte!
Che s’i’ sapessi l’arte,
Quivi mi bisognava.
Che quanto più mirava
Più mi parea selvaggio.
Quivi non ha viaggio,
Quivi non ha persone,
Quivi non ha magione;
Non bestia, non uccello,
Non fiume, non ruscello,
Non formica, non mosca,
Non cosa, ch’io conosca.
Et io pensando forte
Dottai ben de la morte.
E non è maraviglia;
Che ben trecento miglia
Durava d’ogne lato
Quando mi ricordai
Del sicuro signale,
Che contra tutto male
Mi dà sicuramento.
Et i’ presi andamento
Quasi per avventura
Per una valle scura;
Tanto, ch’al terzo giorno
I’ mi trovai d’intorno
Un gran piano giocondo,
Lo più gajo del mondo,
E lo più degnetoso.
Ma recordar non oso
Ciò, ch’io trovai, e vidi,
Se Dio mi porti, e guidi.
I’ non sarei creduto
Di cio, ch’i’ ho veduto:
Ch’i’ vidi Imperatori,
E Re, e gran Signori,
E Mastri di scïenze,
Che dettavan sentenze;
E vidi tante cose,
Che gia ’n rime, nè ’n prosa
Non le porria ritrare.
Ma sopra tutti stare
Vidi un’Imperatrice,
Di cui la gente dice,
Che ha nome Virtute;
Et è capo, e salute
Di tutta costumanza,
E de la buona usanza,
E di buon reggimenti,
Esser nate da lei
Quattro Regine figlie,
E strane maraviglie
Vidi di ciascheduna;
Ch’or mi parea tutt’una,
Or mi parean divise,
E ’n quattro parti mise:
Sì, ch’ogn’uno per sene
Tenea sue proprie mene;
Et avea suo legnaggio,
Suo corso, e suo viaggio,
E ’n sua propria magione
Tenea corte, e ragione:
Ma non già di paraggio,
Che l’uno è troppo maggio;
E poi di grado, e ’n grado