Il Trecentonovelle/CLX

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Novella CLX

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CLIX CLXI

Uno mulo traendo calci in Mercato vecchio fa fuggire tutta la piazza, e guasta la carne ed e’ panni di cui era carico, fa venire in quistione i lanaiuoli co’ beccari; e dopo molte nuove cose, il fine che n’è seguito.

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Fammi venire a memoria la precedente novella d’un’altra che già io vidi; però che non è molti anni che in Mercato vecchio nella detta città era allevato un corbo, tanto piacevole a far male quanto altro fosse mai. Il quale uno dí di sabato santo, quando la beccheria era piú fornita di carne, e’ cittadini in moltitudine a comperarne, essendo venuto a un desco molto ben fornito di castroni, uno con dua muli carichi di panni che veníano dalle gualchiere, e lasciato i muli da parte e comprando castrone, si mosse a volo, e postosi su uno soccodagnolo de’ detti muli, volto con la coda verso la groppa del mulo cominciò a chinare la testa verso il rotto del detto mulo, ed entro vi diede del becco. Il qual mulo sentendosi bezzicare quel luogo, di che piú sono schifi, come ciascuno puote immaginare, cominciò a trarre e a tempestare sí diversamente che dando tra le caviglie e tra’ castroni, tutti facendoli cadere, con questi calci diede tra’ deschi de’ tavernai. L’altro, benché non fosse trafitto, con grande diversità seguía il compagno, traendo e saltando non men di lui.
Li tavernai e li cittadini abbandonano i deschi e fuggono per le botteghe d’intorno. Questi muli parea che dicessono: «Facciamo il peggio che possiamo»; che insino su per li deschi saltando e traendo ogni cosa cercorono, e ad assai e tavernai e cittadini feciono male. Nella piazza non era rimaso creatura, se non due bestie vive e tutte l’altre morte. Intorno intorno per le botteghe era tutta la gente fuggita e la maggior parte ridea; ma a’ tavernai non tenea ridere. E quando ebbono tempestato la carne, vollono delle frutte; e verso la Lisa trecca s’inviarono, e voltorono con li calci tutti i loro panieri, assai si potesseno elle arrostare. I panni delle gualchiere che aveano addosso, tutti gli aveano gittati per terra e quali erano su per li deschi; ed e’ castroni erano per terra. E quando ebbono assai tempestato, s’andorono a rinfrescare con monna Menta che vendea l’erbe, e là si rodeano sue lattughe e suo’ camangiari.
Alla perfine colui di cui egli erano, tutto uscito di sé, con l’ambascia della morte n’andò là a ripigliarli. Quando i tavernai veggono ripresi e’ muli, escono delle botteghe; e quelli che avevano ricevuto danno, s’avviano verso costui gridando:
- Sozzo ladro, sozzo traditore, tu ci hai disfatti -, e voleanlo pur uccidere e averebbonlo morto, se non fossono stati assai cittadini che per temperarli dissono:
- Menatelo al Podestà che ’l punirà e faravvi restituire ogni vostro danno.
Costoro convertirono la loro furia in menarlo preso al Podestà; e non poté ricogliere i panni, né menar seco i muli; li quali furon legati a’ piedi d’un desco; né appena poteo dire: «Domine, aiutami», che come elli avesse morti tutti e’ beccai, cosí con gran furore ne lo menorono. Altri rimasi a ricogliere la carne che era per terra, veggendola convolta nel fango e guasta, sí come arrabbiati si mossono con coltellacci e con stangoni ad andare verso i muli, e a loro, come avessono a mazzicare verri, con li coltellacci di piatto e con gli stangoni gli mazzicarono per tal forma che quasi guasti rimasono.
Altri artefici dattorno per pietà raccolsono quelli panni che veníano dalle gualchiere e riposonli tutti calpestati e alcuni rotti da’ ferri, quando e’ muli traevano.
In questo tempo il Podestà domanda i tavernai che aveano menato preso il tapinello, quello che colui avea fatto. Risposono ch’egli avea a emendare la carne e ’l danno loro, la quale era grande quantità di dinari, sanza ch’elli avea messo a romore la terra. Colui che era preso, rispondea:
- Signor mio, io non ci ho colpa, però che io venía dalle gualchiere e portava panni a certi lanaiuoli nella Vigna, di che passando per mercato, io lasciai li muli da parte e comperava un poco di castrone; li muli non so che si hanno aúto ch’elli hanno pericolato tutta quella piazza; e di ciò io sono dolente, non è mia colpa.
El Podestà che avea nome messer Agnolo da Rieti, disse al preso:
- E perché ci meni li muli, se sono restii, per la piazza dello mercato, dove tanta gente e tanto populo stanno?
Colui rispondea che mai non aveano fatta simile ritrosía, e non sapea che ciò volesse dire: e’ ancora non sapea che fosse stato il corbo. Il Podestà volea desinare: fa mettere in prigione il preso e a’ tavernai dice vadano a fare i fatti loro e che troverrebbe la verità, punendo chi avesse fallato. Di che si partirono, e ’l cattivello rimase preso.
In questo intervallo, la novella giunse nella Vigna a quelli lanaiuoli, di cui erano i panni, non dicono: «che ci è dato?»; avviansi verso Mercato Vecchio e domandano di questa faccenda e ancora de’ panni loro. Fu detto loro a passo a passo come il fatto era andato e del principio del corbo e d’ogni altra cosa. Vanno nelle botteghe dove i panni sono, e truovanli assai male in ordine e alcuni ne truovano rotti; cominciano a dire:
- Che diavolo è questo? queste sono state tagliature di coltellacci; ella non andrà a questo modo; credono questi bestiali trattare l’Arte della lana a questo modo? dove diavolo sono i muli?
Fu loro mostrato. Mandorono certi marruffini per essi; li quali sciogliendoli e menandoli a loro, non si poteano azzicare, sí si doleano. Allora, come gli vidono, montando piú in furore, dicono:
- E’ hanno guasto questi due muli che valeano presso a cento fiorini -; però che era loro stato detto tutto il convenente dal principio alla fine.
E fanno mettere i panni su quelli muli cosí fatti, come erano, e muovonsi, dicendo:
- Andiamo al Podestà noi, e vedremo se ci fia fatta ragione, e se l’Arte della lana e quei che fanno i panni in Firenze sono venuti sí al poco che parecchi ladroncelli di beccai li trattino a questo modo.
Alcuno bestiale, udendo costoro, dice:
- E voi andate al Podestà; ché se voi vendete e fate panni, e noi vendiamo la carne, la quale nutrica questo populo.
Alcuno marruffino s’inviava verso costui: quelli avea il coltellaccio in mano. Veggendo ciò uno di quelli lanaiuoli piú savi, tirò il marruffino a drieto, dicendo:
- Andiamo dove si fa ragione, e vedremo se ’l Podestà farà quello che dee fare; che s’egli il fa, e’ sarebbe meglio ch’egli avessono preso un cane per la coda.
E cosí andorono con li due muli zoppi, carichi di panni che pareano tinti in loto, dinanzi al Podestà, con la doglienza che ciascuno dee estimare. E non vi furono sí tosto giunti che una frotta di beccai, andando lor drieto, vi giunsono quasi a un’ora: e cominciano a dire:
- Messer lo Podestà, non credete loro, però che per maggioranza ci vogliono torre il nostro; noi siamo poveri uomeni, e hannoci questi loro muli concio sí oggi la nostra mercatanzia che non ce ne rizzeremo a panca di questo anno; li muli e’ panni son fatti come là vennono; ma la carne nostra non si può celare: mandate il vostro cavaliere a vederla, ché non troviamo alcuno che ne voglia dare denaio.
Dicono e’ lanaiuoli:
- Questi muli hanno avuto tante stangonate, e con coltellacci e con ogni altra cosa, da loro, che di cento fiorini che valeano non se ne troverrebbe quaranta, sanza i panni che son peggio assai piú; noi vi preghiamo che voi ci facciate ragione.
Li beccai dissono:
- E noi anche ve ne preghiamo che ce la facciate; ma mandate il cavaliero a vedere il danno nostro, che è vero, e non v’andiamo con frottole.
Dice uno lanaiuolo:
- Oh buono, buono! lo sbandito corre drieto al condennato.
Dice il Podestà:
- Non saccio ancora chi ci dee essere, o sbandito o condennato; jateci, e manderò el mio cavaliero.
I lanaiuoli dicono:
- Messer lo Podestà, rendeteci il preso.
Il Podestà non volea; nella fine i lanaiuoli sodorono per lui; e rendello e disse ciascuno s’andasse a casa, ed elli s’informerebbe della verità e farebbe ragione. Passossi il dí della Pasqua; e poi il lunedí, volendo il Podestà seguire la giustizia e la ragione, si mosse da ogni parte a volersi investigare del vero; e tutta l’Arte della lana e quella de’ beccai con ogni studio erano in palese e in segreto a lavorare nella corte, perché ciascuno s’ingegnava di rimanere al di sopra della loro gara. Nella per fine, dicendo e pensando il Podestà la colpa essere principiata da’ muli, disse:
- Che debbo fare? condanneròcci il vetturale che non ci ha colpa? non lo debbo fare: dirò che li beccai mendino li panni e’ muli a’ lanaiuoli? non mi par ragione.
Di che, avendo il martedí e l’una e l’altra parte dinanzi, e udendo e ascoltando ciascuno, pensò di levarsi questa cosa da dosso, conchiudendo in questa forma:
- Savi lanífici e beccari: io aggio molto pensato su questa vostra questione, e ho veduto che ’l nimico dell’umana jenerazione s’è ingegnato di commettere rissa e scandalo tra voi, li quali dovete essere uniti come fratelli; però che come l’Arte della lana e quella della beccheria paiano molto dissimilanti, elle sono tutte una; però che della pecora si può dicere sia principio l’arte di ciascuno. L’uno di voi fa l’arte con la sua lana, e l’altro con la sua carne. E che ’l nimico di Dio ci abbia fatto quello che detto v’ho, io vel mostro, e ancora vi voglio mostrare che ogni rettore non può mai dare diritto judicio, se non truova la radice e ’l fondamento d’ogni delitto e d’ogni questione che innanzi gli viene; e io cosí ho trovato in questa vostra questione. E per farvi di ciò chiari, voi dovete sapere, e cosí ho saputo io, che un corbo è stato principio di tutto questo male; e sapete che ’l corbo è proprio affigurato al demonio, però ch’egli è nero e ha voce infernale e tutte l’opere sue sono a fare a odoperare male; e tutta questa è la natura del demonio. Cosí ha fatto questo maladetto corbo, che è venuto a mettere scandolo tra quelle due arti che fanno mestiero di quello animale dove nel figliuolo è affigurato l’agnello di Dio; sí che si può dire questa questione essere tra ’l corbo e la pecora. E se qui ciò è come vedete, la questione mosse il diavolo e mossela contra il figliuolo di Dio, cioè contra la pecora e l’agnello suo figliuolo. E però, figliuoli miei, siete fratelli e comportate in pazienza il danno che avete ricevuto, ché da nessuno di voi è venuta la colpa. Colui da cui ella è venuta, cioè quello maladetto corbacchione, se ce lo potrò avere, punirò lui, e uno c’ha nome Luisi barattiero che lo tiene, in forma che sarete contenti.
Costoro guatorono l’uno l’altro e non sappiendo che si dire, dissono:
- Noi ci raccomandiamo della ragione.
E cosí si partirono, dicendo per la via alcuni:
- Alle guagnele, che, se elli punirà il corbo, che noi bene seremo soddisfatti de’ danni nostri.
Altri diceano:
- Elli dee essere una sciagurata persona.
Altri che erano forse quelli che erano contenti che ’l Podestà non procedesse, diceano che elli dovea essere uno valentre uomo, e che elli avea assegnato molto belle ragioni; e cosí ciascuno s’andò a fare i fatti suoi, ciascuno mettendo a uscita il suo danno il meglio che poteo.
Luisi barattiere e ’l corbo furono richiesti, ma ’l corbo fece come quello dell’Arca, che fatto ch’egli ebbe quest’opera, non si rividde mai; però che Luisi, avendo sentito la intenzione del Podestà, non aspettò la richiesta, ma accompagnossi con Giovanni Piglia ’l fascio e col suo corbo e andossene verso Terra di Roma, dove era il Muscino Rafacani che avea un altro corbo, e là dimorò con lui piú mesi. E ’l Podestà, volendo pur procedere, da alcuno cittadino vicino di Mercato gli fu tanto detto che fu posto piedi a’ fatti di Luisi e del corbacchione, non però sí che ’l detto Luisi tutto il tempo del detto Podestà ardisse di tornare a Firenze. Questo caso del Podestà fu da molti commendato e da molti ripreso. Io scrittore credo che, veggendo elli che quasi nessuno giudicio potea dare giusto, elli trovasse quella inventiva e del corbo e della pecora, e ch’egli ebbe in ciò grande discrezione, la quale se cosí avesse usata negli altri suoi processi, avrebbe aúto onore, là dove nella fine del suo officio, credo che avesse vergogna.