Il Trecentonovelle/CXCIV

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Novella CXCIV

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CXCIII CXCV

Massaleo degli Albizzi da Firenze, con tre belle ragioni, morde l’avarizia d’Antonio Tanaglia suo vicino.

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Non s’indugiò molto tempo Matteo di Landozzo, vocato Massaleo degli Albizzi, a fare la vendetta di Piero di Filippo suo consorto, in mordere d’avarizia un suo vicino; e questo Matteo è raccontato a drieto in una novelletta per un buono sonatore di vivuola a uno giudice della Grascia nelle carcere del Comune di Firenze. Questo Matteo fu d’una piacevole condizione; e avendo per vicino uno ricchissimo cittadino di Firenze e molto avaro, chiamato Antonio Tanaglia, e considerato tutte le sue condizioni che erano di pruova a volersi serbare il suo, e non lo partecipare né con lui né con alcun altro, pensatosi una notte, ebbe trovato uno piacevole modo di morderlo la seguente mattina; e trovatosi con lui in presenza di alquanti a sedere disse:
- Antonio mio, io ho veduto che io ho e posso avere vie meglio della tua ricchezza che non hai tu stesso.
Costui tutto spaventò, credendo forse che Matteo gli avesse o furato o tolto gran parte del suo, e affisossi nel guardarlo per veder quello che costui volesse dire. Massaleo, che vedea gli atti di costui, dice:
- Tu guati: se mi valesse dire: «che vuoi che ti costi, e farottenne chiaro?», il farei, ma serebbe predicar nel deserto; ma sanza costo alcuno (e se tu me lo volesse dare, io il rifiuto), io ti voglio far chiaro, o vogli tu o no, per farti vivere piú malinconoso che tu non vivi. Elle sono tre cose: la prima si è che della tua ricchezza tu non hai bene, né io anche n’ho bene, e qui siamo del pari; la seconda si è che tu guardi la tua ricchezza con gran fatica per non diminuirla, o per non perderla, e questa fatica non ho io, sí che in questa seconda parte io ho vantaggio da te; la terza si è che, se tu la perdessi, o venisseti meno, tu morresti a dolore, o impiccherestiti per la gola; e io n’arei grandissima allegrezza e ballerei e canterei; e in questa terza parte io starei tanto meglio di te, quanto serebbe da essere io nel Cielo Impirio e tu essere nel profondo dello abisso. Sí che vedi, quanto della tua ricchezza io ho meglio di te.
Antonio si volgea attorno, come fuori di sé, e volgeasi a quelli d’attorno, li quali tutti diceano:
- Antonio, se tu non ti provvedi, il Massaleo dice il vero con molto belle ragioni; che rispondi tu?
E quelli dice:
- Io voglio per me il mio, se io l’ho.
Dice Massaleo:
- Ben dicesti, se tu l’hai; e io ti dico che tu non l’hai né tu né io.
Costui si leva tutto bizzarro e partesi dalla brigata, brontolando verso Matteo, e andossene in casa; dove, pensando sul detto di Matteo e su le tre cose per lui dette, in sé medesimo contendea e dicea: «E’ par vero ciò che dice, e non è vero nulla, però che io tegno la mia ricchezza, ed elli si tiene la sua povertà; ma per lo corpo di Dio che m’ha fatto vergogna e fammi avaro, dove a me pare esser povero, anzi prodigo vo’ dire. Una cosa gli farò: che una volta gli diedi bere d’un buon raspeo che io avea fatto; se io vivesse mill’anni, mai non gliene darò piú, né agli altri di questa contrada che sghignavano per invidia che hanno della mia ricchezza, ma per loro amore io m’ingegnerò da quinci innanzi di spendere meno che io potrò e di crescere il mio a loro dispetto: e ben ne potrà crepare Matteo con tutti loro».
E cosí fra sé si venne tutto un dí combattendo, e nella fine ristrettosi e dolutosene con l’avarizia, se ne dié pace; e le ragioni dette per Matteo si divulgorono per la terra per forma che, se Platone l’avesse dette, non serebbono state piú famose.
Cosí è fatta la condizione dell’avaro: che quando è punto da alcuno in simil forma, s’avvisa che quel tale il dica perché vorrebbe che gittasse via il suo, o per invidia, o per empiersene il corpo; di che per avarizia, e per non far contento colui, continuo affina in essa, e mai non si toglie fame.