Il bel paese (1876)/Serata IX. - Loreto e la levata del sole

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Serata IX. - Loreto e la levata del sole

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Serata IX. - Loreto e la levata del sole
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SERATA IX


Loreto e la levata del sole.

La vista del mare, 1. — Loreto e i Loretani, 2. — La folla al santuario, 3. — Riflessi in proposito, 4. — Suonatrici di cembalo, 5. — Il tatuaggio fra i barbari, 6. — Il tatuaggio in Italia, 7. — Il ballo notturno, 8. — Il sole sorge dal mare, 9. — Un SOLE che non tramonta, 10.


1. «Vi ho parlato delle Alpi, vi ho parlato delle Prealpi.... dove vorreste ora che vi conducessi?».

« Sugli Apennini», disse il Battistino.

«Sugli Apennini.... va bene».

«Ma son essi così belli come le Alpi?» volle tosto sapere la Marietta.

«Non direi.... anzi.... Ma c’è una gran cosa che manca alle Alpi ed alle Prealpi, per la quale invece gli Apennini sembrano fatti apposta».

Che cosa adunque?» domandò Giannina.

«Ti ricordi


. . . . . . . . . . . . . . . Il Bel Paese
Che Apennin parte, e il mar circonda e l’Alpe!».


«Ah!» fu pronta a dire Giannina. «La vista del mare».

«Appunto; alle Alpi ed alle Prealpi nostre manca la vista del mare. Oh! il mare....».

«Il mare! il mare!...» saltò su a dire Giovannino. «Tu ci devi dire qualche cosa del mare. L’hai tu visto come è fatto?

Oh sì, l’ho visto; ci fui sopra più volte. Ma dirvi com’è fatto.... Gli è un gran lago, così grande, che il lago di Como (i miei uditori lo conoscono per bene) ci si smarrirebbe come una goccia [p. 154 modifica]d’acqua in un fiume.... Ma infine il mare non è che un gran lago. Tuttavia quel non so che di profondo che la parola mare desta anche in chi nol vide mai, ha il suo perchè. Codesto sentimento (e voi, nipoti miei, mostrate di esserne compresi ) è come il riflesso delle impressioni profonde che lascia la vista del mare, in chi ebbe la fortuna di contemplarlo: non c’è nulla di strano, vedete; nulla di ciò che si direbbe eccitante in quella vista del mare, quale si presenta ordinariamente. Ma tant’è: una volta che uno l’ha in faccia, gli bisogna guardarlo, senza torcerne gli occhi, senza trarre il respiro, quasi volesse assorbirne l’immensità, o se ne sentisse assorbito. Chi si trovò mai stanco d’una bella giornata? Chi saziossi mai di contemplare una notte stellata?... Quante volte ebbi a riposare lo sguardo per ore, per intere giornate, su quella mobile pianura! Ma, o lo vedessi, tutto color di zaffiro, fondersi col limpido cielo d’Italia, o cupo e nereggiante, perdersi lontano lontano nelle nebbie de’ paesi settentrionali, il mare mi parve sempre uno spettacolo nuovo. La ferrovia dell’Italia meridionale da Ancona a Brindisi, forse la più amena tra le ferrovie di Europa, costeggia l’Adriatico per ben 15 ore di furioso cammino. Ridenti colline, fantastiche rupi, castelli pittoreschi, storiche ruine, deliziose città, sfilano con vece assidua e con perenne incanto, sotto gli occhi del viaggiatore, che percorre, a tutta foga di vapore, uno dei grandi lati di questo incantevole giardino che si chiama Italia. Ma che volete? Lo sguardo è sempre sul mare. Un’onda incalza l’altra, e questa è incalzata da mille, e tutte ad una ad una, con uguale misura, con monotona cadenza, giungono al lido, vi strisciano coprendolo di spume, e rientrano e si perdono sotto l’onde survegnenti. Ma lo sguardo è pur sempre sul mare, trattenutovi da un sentimento perenne come l’onde, grande come il mare. È il sentimento di Dio che, anche senza saperlo e volerlo, ci invade ogniqualvolta la natura ci presenta quanto ha di più grande nel cielo o sulla terra».

2. «Ma così non è sempre»; sorse a dire la Giannina. «Talora presenta lo spettacolo della tempesta, che deve essere ben terribile; talora truppe di delfini mostrano il dorso, e fanno capriole e capitomboli. Deve essere una scena graziosa. E poi le balene che schizzano in alto l’acqua, come le fontane dei giardini.... E i bastimenti?... quante belle cose che noi non abbiamo vedute mai!... È vero poi, ciò che mi diceva lo zio Ferdinando, che è così bella, vista in sul mare, la levata del sole?».

«Per l’appunto; tu mi richiami uno dei più deliziosi momenti, [p. 155 modifica]che io m’abbia goduto ne’ miei modesti viaggi. Mi trovava a Loreto, credo nel settembre del 1865».

«A Loreto?» interuppe Marietta; «non è la città ove si venera la santa Casa?... Fosti a visitarla? Com’è?».

«Ma tu mi fai perdere il filo del discorso».

«Sicuro», ripigliò con viso un po’ corrucciato la Giannina; «ei deve dirci che cosa si vede quando il sole si leva sul mare».

Ma il desiderio della Marietta prevalse, perchè, a dir vero, piccoli e grandi, bambini e mamme, mostravano come il richiamo di quel celebre Santuario eccitasse la loro curiosità. Mi fu forza quindi spendere qualche parola sulla pia tradizione, la quale ci narra come quella stanzuccia, detta santa Casa, sia veramente la cameretta abitata dalla Vergine Maria, quando le venne annunciato il Divin Verbo; come essa cameretta sia stata miracolosamente trasportata da Nazaret e, previe diverse soste, in varî luoghi, siasi fermata a Loreto, ove la pietà de’ Pontefici, dei Principi e dei popoli la circondarono di tanti splendori, chiudendola entro un magnifico tabernacolo, quasi entro marmorea teca, intorno a cui l’arte della scoltura profuse tutti i suoi mezzi, e su cui si eresse la mole sontuosa di un tempio torreggiante sopra le incantevoli eminenze che si specchiano in mare....

«Io giunsi a Loreto, se non erro, il giorno 7 di settembre, che è la vigilia della natività di Maria.

» Non è la festa più importante che vi si celebri, nè quella perciò che attiri il maggior numero di devoti al Santuario. Ma c’era gente abbastanza, perchè il paese ne brulicasse, e ne fossero dense la Chiesa e le vie principali della città. Erano per lo più uomini e donne del Loretano e delle circostanti provincie, e si distinguevano singolarmente pel numero, pel brio, per la foggia del vestire elegantissimo, gli abitatori della provincia di Macerata.... i più bei tipi di creature umane che io creda esistere al mondo.... Quali bizzarrie di indumenti! I Loretani, vedete controsenso, indossano la camicia sopra le altre vestimenta: per loro è la camicia ciò che è per noi il soprabito, e così incamiciati girano bravamente le vie della città, entrano nelle chiese, con quella stessa gravità, con cui gli antichi Romani indossavano la toga nel fòro e nelle basiliche».

Quì imaginatevi il ridere e i commenti del mio piccolo uditorio. Ci volle un bel pezzo per dar sfogo all’ilarità, tanto che io potessi continuare.

«Le Loretane pare abbiano appreso la loro foggia di vestire [p. 156 modifica]dalla loro Madonna, o piuttosto da quelle antiche madonne.... dal volto nero....».

«Come quella d’Oropa?...» interruppe Marietta.

«Benissimo!... la cui veste scende d’un getto dal collo ai piedi».

«Oh! devono star male!» osservò la Lucia.

«Certo quel vestire non è inventato espressamente per mettere in evidenza la bellezza delle forme. Ma che vuoi? la vivacità dei colori, di cui fanno pompa, la bellezza reale di cui possono vantarsi, supplisce all’eleganza dell’abbigliamento.

» Per questo lato le Maceratesi portano la palma. A vederle con quella gonnella succinta, di color nero, a pieghe fitte e minute, con quel busto senza maniche, che si direbbe dipinto, tanto è giusto alla vita, con quella elegantissima camiciuola, candida, tutta insaldata e increspata a pieghe e cannoncini, su cui si disegna in rilievo l’intreccio delle stringhe, che allacciano il busto di dietro, e copre il seno, le spalle, e le braccia fino ai polsi: si deve dire che, se trattasi di dare un piacevole aspetto alla persona, la semplicità e il buon gusto valgono assai meglio della ricercatezza e dello sfarzo».

«Vestono così anche le signore?» domandò la Lucia.

«Oh ti pare?... Ormai non vi ha signora in Europa e in tutto il mondo civile che sia padrona di vestire a modo suo, o in uno piuttosto che in altro modo. Della bellezza del vestito, dell’eleganza, del comodo, fin della decenza, di tutto tien luogo la moda. E la si aspetta d’oltremare e d’oltremonti, di stagione in stagione, di mese in mese, perchè sappiano le nostre signore se hanno a gonfiarsi come aerostati, o ad ammainarsi come cenci; se devono scopar le vie con uno strascico senza fine, o andar scodate come....».

Ma qui mi avvidi di essere caduto, come dicono i retori, in un luogo comune: di aver cioè iniziata una diatriba inutile, la quale, appunto perchè inutile, suonò, suona e suonerà sulla bocca d’ogni uomo e quasi di ogni donna, in tutti i luoghi, in tutti i tempi, passati, presenti e futuri. Le mamme risero di quella mia scappata, e si vedeva che dividevano perfettamente le mie opinioni.... specialmente sulla inutilità della predica. Quindi ripigliai:

3. «Non la finirei più se io volessi più oltre intrattenervi su tutti i particolari di questo genere: nè, volendolo, lo potrei; poichè, dopo tanto tempo, la mia fantasia non mi risveglia più che un brulichio indistinto, un andirivieni, un visibilio, una festa, e [p. 157 modifica]il tutto confuso come le reminiscenze dei sogni vivaci che si son fatti da bambini. Mi ricordo però per bene quando, lasciandomi guidare dall’onda di popolo che traeva verso il Santuario, vi entrai, bramoso anch’io di visitare la santa Casa e vi stetti un bel pezzo ad osservare le mosse, non sempre composte, della folla devota, lieta d’aver raggiunto la meta del pio pellegrinaggio.

» Là sulla soglia del tempio si buttano ginocchioni, e di là, camminando, o meglio trascinandosi sulle ginocchia e recitando preghiere, pigliano le mosse verso l’altare, cioè verso il tabernacolo eretto sulla santa Casa; nè si arrestano finchè non abbiano compito, sempre colla stessa faticosa ginnastica, il giro di quel monumento. Il gradino di marmo bianco, che sporge dalla base, è guasto da due solchi profondi, paralleli, che lo percorrono tutto all’ingiro, a guisa di binario d’una ferrovia, e accusano lo strofinio delle punte dei piedi, o piuttosto delle scarpe, con cui, da secoli, lavorano a logorarlo i pellegrini camminando così a ginocchi.

» Quand’io fui alla porticina d’ingresso di quella devota stanza, la vidi occupata da una folla di pellegrini, così stivata, così tutta d’un pezzo, che ce n’era per ben due volte quella capacità. Una folla molto maggiore si teneva stretta davanti alla porticina, a guisa di quegli sciami di api, che si veggono pendere appiccicati dalla bocca dell’alveare, quando attendono, per emigrare, il cenno della nuova regina. Due soldati erano a guardia, l’uno della porticina d’ingresso, l’altro della porticina d’uscita, praticate nei due fianchi opposti del monumento.

» Il buon Piemontese, che guardava l’ingresso, addocchiatomi e vistomi in migliore arnese che non gli altri pellegrini, credendomi qualche pezzo grosso, che so io?... un deputato, un ministro, si adoperò a farmi un po’ di vano entro quel conglomerato umano, senza attendere il momento della muta dei pellegrini. Approfittai di tale gentilezza; ma, sporta appena la testa entro la sacra cella, e vistomi tra due muri di umani, l’uno saldo di dentro, l’altro minaccioso di rovina di fuori, pensai che il mio po’ di bene poteva farlo anche al di fuori, senza arrischiare di trovarmi in un pigia pigia, per cui non sapeva se l’arco delle costole era saldo abbastanza. Presi dunque il largo, e rimasi spettatore di una scena sufficientemente bizzarra, e un po’ anche, diciamolo, commovente.

» Eravamo al momento in cui i pellegrini dovevano darsi lo scambio. Io credo che quel bravo Piemontese si trovasse in [p. 158 modifica]peggiore impiccio qui, che alla battaglia di San Martino o della Madonna della Scoperta, a cui al certo era stato presente. Egli intimò a quei di dentro di uscire, per lasciar luogo a quei di fuori.

» Ma sì!... aspetta un poco.... La calca rimane immobile, come nulla fosse. Il soldato alza la voce: minaccia: ma inutilmente. Quei Romani, dalla lingua sonora e chiantuta, si credevano certamente dispensati dall’intendere l’arabo o il chinese del loro fratello subalpino. Bisognò venire alle vie di fatto; e qualche spintone colla mano, qualche urto per altro moderatissimo, col calcio del fucile, valsero meglio delle parole. Quella folla immobile cominciò ad agitarsi, a formicolare, a rizzarsi, a volgersi, verso l’uscita, finchè lentamente la cella rimase sgombra.

» Qui sta il busillis pel povero soldato! Come aprire il cancello che difendeva l’ingresso, sotto l’incubo di un’altra folla che strapiomba, che minaccia di rovinare, tutta d’un pezzo entro la cella, seppellendo se fa uopo il povero guardiano? — Indietro! adagio! c’è tempo! — sclamava il poveraccio. — Così non potete entrare!... — Ma sì! insegnare la logica alle folle.... Infine, io non so come, il cancello si aprì. Io vidi come un vortice di teste, di spalle, di braccia, di gambe, una specie di torrente umano, che rovinava attraverso la porticina. La sentinella era tutta sudata, trafelata,... ma era salva!...».

4. «Questo è un modo ben sconveniente di manifestare la fede, di praticare la divozione!» sorse a dire una delle mamme, traducendo in un giudizio serio le risa sgangherate dei piccini, e gli uh! di disapprovazione dei grandi.

«Convenientissimo nol direi: risposi io; non foss’altro perchè è lo spettacolo che presenta d’ordinario nella nostra gentile Milano la porticina del Loggione al teatro della Scala. Sconvenienze se ne osservano dappertutto, anche in materia di divozione. So pur troppo che tali cose, più o meno sconvenienti, danno poi facile argomento ad accuse contro il culto e la religione. Ma tenete bene a mente, nipoti miei: non potrete mai fare un retto giudizio di ciò che è umano se non terrete conto dei tempi, dei luoghi, del carattere delle persone e di tante altre cose; perchè talora si trova essere bene ciò che a tutta prima giudicavasi male, e male quello che si credeva bene. Non tutti hanno lo stesso modo di esprimersi. Quando il sentimento è buono, non cesserà di esserlo per la ragione che vi abbia esuberanza nelle sue manifestazioni. Esse prendono forma dalla diversa tempra degli individui e delle [p. 159 modifica]popolazioni. Un inglese duro, stecchito, impalato, che parla cogli occhi immobili, coi denti chiusi, ci fa ridere, come vedessimo una caricatura. Perchè?... perchè noi Lombardi parlando, ci moviamo, gesticoliamo, talora anche troppo. Ma gli Inglesi ridono di noi.... cioè non ridono, perchè non possono ridere: ma ci guardano, con quell’occhio che dice: e’ sono matti costoro! udendoci parlar forte e gesticolando come fossimo sulla scena. I nostri fratelli meridionali poi, anche tacendo, parlano cogli occhi, coi gesti: ogni muscolo, ogni fibra di muscolo ha una parola, un concetto, una domanda, una risposta; e se parlano davvero, gridano, urlano. Sono modi diversi di esprimersi. Per dirvi che vi vuol bene, un bambino vi salta al collo, vi strozza, vi soffoca di baci. L’uomo serio vi dice la stessa cosa con una vigorosa stretta di mano; e il vecchio con un sorriso. Hannovi popoli bambini, e popoli adulti, anzi vecchi e troppo vecchi; popoli freddi, tutto calcolo, e popoli bollenti tutto poesia e sentimento. In fatto di religione poi, non so di aver visto mai, benchè di genere diverso, cose più strane a Napoli e in Sicilia, che a Londra, ove a ogni svolto c’è un predicatore, che rivaleggia di voce col Pulcinella, e a Glasgow, ove fui sentenziato a morire di fame perchè era domenica. Certo le sconvenienze ci sono, e si dovrà fare in modo che scompajano; ma adagino adagino, chè non ne soffra il sostanziale; chè non si scemino quella fede e quella pietà, di cui non possono fare a meno, nè il barbaro, nè il civile; nè il popolino, nè le persone di alto bordo; nè l’idiota, nè lo scienziato. Anche il popolo ha bisogno di emozioni, di entusiasmo. Sopprimete le sagre, le feste religiose: dategli delle feste di cui non intenda il significato, in cui non gli si assegni che la parte passiva, la parte fredda e nojosa dello spettatore, che gli dicano soltanto una volta di più che esso non è altro che popolo, popolino, popolaccio: toglietegli quella parte attiva che esso sente, e sa prendere così bene nel culto, nelle feste religiose: mummificatelo, insomma. Esso troverà bene il modo di smummificarsi col vino, coll’acquavite dapprima, col petrolio dappoi. Ma via.... ci sono, ho detto, delle sconvenienze; ma perchè sappiate il valore che io do alla parola, voglio dirvene una, proprio di grosso calibro, che mi toccò di vedere proprio a Loreto».

«Racconta, racconta!....» gridarono in coro i nipoti che del resto non avevano nulla capito.

5. «Uscito di chiesa, mi posi a passeggiare lungo la via [p. 160 modifica]principale, che dalla Chiesa stessa conduce alla gran piazza. È una via fiancheggiata da botteghe, ove si esercita un sol genere di commercio; vi si vendono cioè quegli oggetti, per la maggior parte di divozione, di cui si fa mercato presso tutti i santuarî del mondo. Primeggiano, per la loro abbondanza e varietà, i rosarî e i cembali».

«Come?...» interruppe la Chiarina: «che ci hanno a che fare i pianoforti coi rosarî? I pianoforti non si vendono così sulla piazza come le trombette di legno».

«Non ho detto pianoforti.... Sarebbe in vero un lusso soverchio, mia cara, pei poveri pellegrini, che mantengono aperte quelle botteghe. Siamo noi Lombardi che diamo il nome di cembalo al clavicembalo o pianoforte. Ma quando io voglio parlare il toscano.... l’italiano.... come vi piace.... cioè la lingua che si deve parlare e scrivere, mi guarderò bene, per quanto il Carena me lo consenta, dal chiamare cembalo il pianoforte.

» Il cembalo è tutt’altra cosa. Io lo credo il protoparente di tutti gli strumenti musicali. Ei ci venne dai Romani, che l’ebbero, io penso, dai Greci, i quali lo ereditarono probabilmente dagli antichi popoli dell’Asia, nominatamente dagli Ebrei, che salmeggiavano in cymbalis bene sonantibus, e lo presero forse dai patriarchi a cui sarà stato trasmesso dall’antidiluviano Iubal, padre dei suonatori di cetra e d’organo. È proprio un arnese antidiluviano. Ma benchè vanti antichissima prosapia, si mantenne sempre democratico. Batte le piazze, i trivi, le bettole; anima le danze dei villici, e mantiene l’allegria nella capanna del povero, non invidiando al moderno aristocratico pianoforte gli splendori delle sale dorate, ove si spesso rintuona tra gli sbadigli che la musica di moda, sotto il pomposo titolo di classica, ha reso più lunghi e sonori».

«Ma insomma» replicò, la Chiarina un po’ impazientita, «io nol conosco codesto strumento».

» Presso noi Lombardi è infatti caduto quasi totalmente in disuso. L’avrai visto però qualche volta nelle mani di un giocoliere, di un cantastorie di cattivo genere, che lo agitava, lo batteva col rovescio della mano, o, strisciandovi sopra col polpastrello inumidito del pollice o del medio, ne traeva un fremito, un rombo, imitante il suono del timpano».

«Ah! capisco, capisco! il tamburello».

«Appunto, quel tamburello, costrutto a guisa di crivello, che consta cioè di un cassino, formato con largo cerchio di legno, [p. 161 modifica]su cui è tesa da un sol lato una pelle, come sul tamburo, e con tanti trafori all’ingiro ove sono imperniate altrettante coppie di girelle o dischi girevoli di metallo, i quali, agitandosi lo strumento, producono un suono selvaggio, quasi strascico di catene. Ebbene, il cembalo è lo strumento prediletto, la delizia di tutta l’Italia centrale e meridionale; è l’orchestra dei villaggi e delle campagne. Loreto in quel giorno era tutta un frastuono di mille cembali, che ripetevano incessantemente, sullo stesso tuono, la stessa cadenza. Le donne principalmente erano implacabili. A vederle agitare in alto e percuotere, con lena perenne, il loro cembalo, la fantasia vi avrebbe fatto apparir vive vive le antiche Baccanti, quali, ebbre, coronate di pampini, cogli occhi accesi, le gote infiammate, la testa ripiegata all’indietro, il corpo quasi sospeso nell’aria, si veggono dipinte sulle mura di Pompei. Vidi delle vecchie trasportate tanto e più delle giovani da quel furor cembalistico, ch’e’ si sarebbe detto ridestassero con quel suono gli spiriti, onde era si balda la loro giovinezza.

6. » Fin qui nulla di male. Veder gente allegra è cosa che mette indosso l’allegria. Ma, osservando in quel tramestio, mi vennero veduti, a breve intervallo l’uno dall’altro, certi deschetti, come quelli dei nostri ciabattini, nani e sudici egualmente. In piedi, davanti a ciascun deschetto, miravo un uomo, che faceva saltare e risuonare, a guisa di nacchere, certi quadrelli di legno, di cui un buon numero vedevasi accatastato sul desco. Evidentemente quegli uomini invitavano la gente a un qualche cosa, che io non capiva. Che facce triste, arcigne, bitorzolute!... Che facce briache, ributtanti!... Stetti a vedere, nè ebbi ad aspettare troppo a lungo per assistere, nel cuore dell’Italia, ad una scena la più indecorosa di tatuaggio».

«Di tatuaggio?» domandarono quasi tutti ad una volta i nipoti, «che nome strano è codesto?».

«Come? non vi avvenne mai di leggere questa parola nei libri di geografia, nei racconti di viaggi, ecc. Il tatuaggio è un’operazione crudele del pari che stupida, la quale ciò nondimeno è in grande onore nell’Australia e nelle isole dell’Oceania. Essa consiste nell’istoriarsi il corpo con figure diverse, incise a sangue nella pelle, e rese indelebili, mediante una tintura qualunque, che si fa assorbire dalla piaga».

«Dev’esser bello a vedersi....» osservò Giovannino.

«Mio caro», ripigliò Giannina; «dev’essere orribile! faranno paura....». [p. 162 modifica]

«Ma come sono quelle figure?» domandò Marietta.

«Ciò dipende», risposi, «dal buono o dal cattivo gusto.... volevo dire dal diverso genere di cattivo gusto.... di ciascuno. I selvaggi dell’Australia si fanno delle piaghe profonde, per ottenere, colle escrescenze delle cicatrici, disegni in rilievo sul volto, come li ottengono i nostri credenzieri, schizzando dello zucchero a colori sulla bianca diacciata zuccherina di una torta di pan di Spagna».

Movimento nell’uditorio.... «Eh!... ih!... oh!... ah!...».

«Gli uomini delle isole Radach (Oceania), in luogo di provvedersi il panciotto, se lo incidono addosso senz’altro: un bel panciotto a due petti, con occhielli, bottonatura e ricami, cui la pelle serve ad un tempo di stoffa e di soppanno. Non ci mancano che i taschini....».

«Perchè non ce li fanno?» chiese ingenuamente la Biggia, pacchierotta innocentona. Ma dovette rannicchiarsi, e farsi visiera agli occhi col rovescio di una manina grassotta, che lasciava scoperte due guancie di bragia, colpita da tale uno scroscio petulante di risa universali, che quasi mi pentii.... poveretta! di averlo provocato.

«Le donne delle isole Sattikoff spingono la civetteria fino a ricamarsi addosso una camiciuola tutta d’un pezzo, che copre loro le spalle, le braccia, e termina con eleganti polsini, cui tengon dietro i guanti, sempre della stessa stoffa».

La Biggia stavolta non domandò nessuna spiegazione.

«Ma i più strani a vedersi sono gli indigeni della nuova Zelanda, il cui corpo è tutto istoriato di geroglifici, di figure simboliche, tutto rabescato a guisa di uno sciallo di cachemire, o di una di quelle sedie di pelle damascata, delle quali vi ha ancora qualche reliquia nelle case dei nonni, nelle sagrestie e nei conventi. Il volto specialmente è adorno di incisioni, collo spreco che si addice ad un frontispizio di una edizione di lusso. La fronte, le ciglia, le guancie, il mento, il naso, e fin l’orlo intorno alle narici, tutto è barbaramente cesellato a sangue. Si direbbe che quei cannibali abbiano voluto spegnere, colla deformità del viso, quel raggio divino, che pur sempre traspare dal volto dell’uomo, perchè solo vi apparisse l’avvilimento di questa povera umanità colpevole, inselvatichita, degradata al livello delle belve feroci».

«Ma sono tutti così ad un modo gli abitanti della Nuova-Zelanda?» domandò la Lucia.

«No; là si fa sfoggio di tatuaggio, come da noi di stoffe, di [p. 163 modifica]merletti, e di pettinature. Le linee, i ghirigori si fanno più numerosi e più fitti, in ragione della nobiltà e della potenza di ciascun individuo. Anche in quei paesi la povera gente non ha tempo di fare una lunga toeletta, e quindi i poveri, gli schiavi, hanno il diritto di conservare intatta la figura umana. Il viso di un capo di tribù è invece una vera filograna, tanta è la finezza, l’abbondanza e la bizzarria del tatuaggio che dai Nuovo Zelandesi si chiama moko. Il moko mantiene la stessa forma nei discendenti di una stessa famiglia; è il loro stemma, la loro arma gentilizia, che si trasmette di padre in figlio: e guai a chi osasse usurparlo! Sarebbe come da noi falsificare una firma, carpire un suggello, coprirsi di una decorazione, a cui non si abbia di ritto, ecc.

» Una volta che quelle isole fossero conquistate all’incivilimento, gli ariki, i ranga-tira-rahi, i ranga-tira-noui, divenuti duchi, conti, e marchesi, trasporterebbero il loro moko, dalle rispettive facce ai rispettivi cocchi, ed alle rispettive livree, ed il mondo avrebbe dato un gran passo avanti».

In mezzo alle risa di tutta l’assemblea, i bambini si sforzavano di ripetere, ciascuno a suo modo, quei nomi strani, che nelle loro bocche divenivano sempre più strani.... «Dilli su ancora, dilli su ancora quei nomi!».

«Sì.... ariki.... ranga-tira-rahi.... ranga-tira-noui.... Non li ho inventati io, vedete, questi nomi. Sono i nomi dei diversi alti dignitari delle tribù della Nuova Zelanda. Leggete il Voyage pittoresque autour du monde, pubblicato sotto la direzione di M. Dumont d’Urville, da cui ho preso tutto quel poco che v’ho raccontato intorno al tatuaggio. Quando leggevo quel libro, credevo che fosse necessario veramente, per assistere all’operazione del tatuaggio, di sfidare l’oceano; nè mi garbava punto di trovarmi, per sì poco, con quei cannibali: ed ecco che il tatuaggio venne lui a trovar me, quì in Italia».

7.«Come?» interruppe la Camilla quasi offesa. «Non ho mai sentito dire che da noi si usasse una sì brutta cosa, nemmeno nei tempi più antichi».

«Come?» risposi. «Non hai tu stessa le orecchie traforate dagli orecchini? Se codesto non è tatuaggio, è certamente un avanzo di altre simili barbare costumanze, che si conservano in fiore del pari presso i selvaggi. Del resto, non tel dissi or ora, che dovetti assistere io, proprio io in persona, ad una scena di pubblico tatuaggio? Sapete che cosa erano quei quadrelli di [p. 164 modifica]legno, che io vedevo ammucchiati su quei luridi deschetti? Erano tavolette rozzamente scolpite, e ciascuna figurava un santo, una madonna, una croce, sicchè gli avventori potessero farvi scelta di quelle figure, di quei simboli religiosi, cui preferissero di vedere stampati sulle loro carni».

«Sulle carni? in che modo?» domandarono i fanciulli.

«Ora l’udirete. — Mentre mi teneva ritto a osservare davanti ad uno di quei deschetti, eccoti farsi innanzi una fanciulla, dal viso fresco, dall’aria ingenua e sorridente. Sceglie non so qual simbolo o santo, e abbandona il braccio indifeso a quel brutto ceffo, che teneva il deschetto. Un pittore ci avrebbe subito trovato il soggetto di un quadro piccante: il demone della malizia che adocchia malignamente l’angelo dell’inconsapevolezza. Quel turpe uomo cominciò a tingere di una vernice nera i tratti salienti dell’incisione; poi applicò la tavoletta a quel povero braccio, premendola in guisa, che i tratti dell’incisione vi rimanessero stampati in nero; poi diede principio alla ignominiosa carnificina. Impugnato uno stiletto d’acciajo, colla mano quasi animata da un tremito convulso, cominciò a punzecchiare, a ferire a sangue la poverina, passando e ripassando sui tratti dell’incisione, sicchè tutto quel sudiciume venisse assorbito».

«Ma non sentiva dolore?» saltarono a dire parecchi insieme, mentre gli altri o chiudevano gli occhi, quasi per non vedere, o si raggomitolavano, come per non sentire, o inspiravano l’aria attraverso i denti chiusi, emettendo un lungo sibilo, come sentissero uno spasimo veramente.

«Se non sentiva dolore?... imaginatevi!... storceva la bocca, stralunava gli occhi, crescendo col crescendo dell’operazione; finchè prese il moccichino fra i denti, e lo mordeva, fremendo, colle guancie rosse, cogli occhi gonfi.... ma.... il braccio immobile, come quello di Muzio Scevola.

Ma se sentono dolore», domandò la Giannina, «perchè lo fanno?».

» Chiedilo ai selvaggi dell’Oceania. Un viaggiatore fece la stessa dimanda, che tu mi fai, ad un Nuovo-Zelandese, mentre assisteva alla crudele operazione del tatuaggio, eseguita con una punta di osso, così senza misericordia, che il sangue fluiva abbondantemente. Sapete che cosa gli rispose il selvaggio sorridendo sdegnosamente? Eh! questo non è nulla. Vuoi vedere ciò che fa veramente soffrire E così dicendo, additava sopra se stesso i disegni che adornavano gli angoli degli occhi, le labbra, e [p. 165 modifica]sopratutto i lembi della parete che divide le narici. Anch’io, stomacato e stizzito di quella barbarie, che vi ho descritta, mi volsi al primo che mi trovai a fianco, e dissi, quasi me la pigliassi con lui, come si fa colla prima vittima che s’incontra, quando si è arrabbiati: Codesto è un abuso! una indecenza!... Che vuole? mi rispose con molta pace il Loretano; qui si costuma così. E si costumava davvero così, se ce n’era abbastanza, per tenere in piedi quattro o cinque di quelle officine, come me ne assicurava il fatto, e il vedere camminare miste alla folla diverse persone che avevano già subita l’operazione, e si tenevano sbracciate, o per paura di lordarsi le maniche, o perchè quel bel affresco facesse miglior presa. E’ mi pareva che le autorità locali avrebbero dovuto impedire quel turpe mercato, non foss’altro, per ragione di decenza. Mi sapeva male, del resto, che i forestieri, i quali, traggono numerosi a quel celebre Santuario, ne prendessero occasione di accusare noi di barbarie; e di superstizione il nostro culto e le nostre credenze. Ma finiamola con queste cose spiacevoli.

8. «La sera (vi ricorderete che siamo ancora alla vigilia della festa), tutta quella folla si era diradata, dispersa, cercando ognuno il proprio alloggio presso i particolari, che traggono guadagno da quel concorso di pellegrini. Una certa parte però si era concentrata sulla gran piazza, che offriva una scena molto curiosa. La si vedeva sparsa di numerosi crocchi, in cerchio serrato, a cui serviva di centro un cembalo, agitato e percosso dal rispettivo cembalista. In qualche gruppo una fisarmonica si accompagnava col cembalo. Voi intendete che cosa vi si facesse».

«Che cosa vi si faceva?» mi si domanda da più parti.

«Oh bella! si ballava a piacere; così all’aria libera, al chiarore delle stelle. A vedere con che foga, con che disinvoltura, quei giovanotti, quelle donzelle, si aggiravano, spiccando capriole e salti, appoggiando le mani sui fianchi, e toccandosi rusticamente coi gomiti....».

Mentre facea questa descrizione, vedeva le mie nipotine porsi le mani sui piccoli fianchi, e agitarsi, con quell’aria che dice: che gusto esser là a ballare al chiaro di luna! Carletto spinse la frenesia al punto di mettersi a danzare davvero, cantando ti-ri-ti-ti, ti-ri-ti-ti; il che gli tirò addosso uno scapezzone della mamma, che egli schivò bravamente, con una curva che lo fece parer molto simile al delfino, quando mostra l’arco del dorso, e scompare in seno alle onde. Cessata l’ilarità, provocata da [p. 166 modifica]quell’incidente, una delle mamme, che aveva riflesso più seriamente su quanto io avevo esposto, ridendo, mi disse, in atto di chi dubita e chiede: «succederanno disordini!».

«Forse ne succedono:» risposi io. «Ne succedono ovunque. Ma infine chi danza sulla pubblica piazza, in faccia al mondo intero, è forse più esposto di chi danza nei ridotti, nelle sale, nei luminosi labirinti dei nostri palazzi?..

» Era già notte tarda, quando mi raccolsi all’unico albergo, che meritasse tal nome! — La Campana — un pessimo albergo del resto; uno di quelli che giustificano il Bedeker, autore delle guide in tutto il mondo, e in altri siti, quando adopera come sinonimi i due predicati, cattivo albergo e albergo all’italiana. Forse a quest’ora le cose si saranno cambiate; la Campana sarà divenuta un Grand’Hôtel e saranno scomparse le tavolette del tatuaggio. Allora era così. — Dalla mia camera udiva ancora il rullio dei cembali che andava diradandosi, perdendosi, finchè tutto tacque, e riposossi in seno alle tenebre.

» Ma il sonno fu breve. Ancora non si discernevano i primi albori, che fui desto da un gran fruscio di passi, e da un parlare sommesso in sulla via. Era la folla che traeva al Santuario. Chi sa? dissi tra me: se si fa tanto baccano la vigilia, quanto se ne farà il giorno della festa? Eppure tutt’altro. Il baccano è tutto per la vigilia. La mattina dopo piena tranquillità. Quella folla così burrascosa il giorno avanti, si raccoglieva, cheta e silenziosa, nel Santuario, a farvi le sue divozioni. A mezza mattina era assai diradata, e a coppie, a gruppi, a branchi, a brigatelle, si disperdeva sulle diverse vie, che riconducevano i pellegrini ai rispettivi focolari.

9. » Fu in quella mattina che, essendomi levato prima di giorno, volli godere di quello spettacolo, a cui la Giannina, desidererebbe tanto di assistere».

«Di che spettacolo intendi parlare?» domandò la Giannina.

«Come?... della levata del sole vista sul mare».

«Vedi?» ripigliò la ragazzina, «me ne era dimenticata. Hai detto tante cose, tante.... Ora però sentirò volontieri questa descrizione».

«Me ne ricorderò sempre.... Era un mattino stupendo: di quei mattini, che anche nelle più serene regioni d’Italia si contano. Le stelle erano già quasi tutte scomparse. Le più luminose soltanto scintillavano ancora, cangiando colore, e tremolando, quasi goccie di rugiada, percosse dal sole, pendenti da un filo d’erba, [p. 167 modifica]agitato dagli zefiri; comparivano, e scomparivano come ammiccando, col guizzo convulso di un lucignolo che si spegne. Si sarebbe detto che si dibattevano, coll’anelito morente sul labbro, contro

«Il ministro maggior della natura»

che le affogava in un mare di luce. L’immenso orizzonte, di nero, s’era fatto cinereo; poi bianco; e si rifletteva nell’immenso mare, che io vedeva distendersi, dal piede delle umide colline, fin là, dove l’occhio si smarriva tra mare e cielo. Guardando a oriente, vedeva una grande aureola, quasi un’immensa mezzaluna, di un rosso sanguigno, come di fuoco, che passava, con insensibile gradazione, al croceo, e si perdeva nel bianco uniforme del cielo. Era l’aureola luminosa, che cingeva la fronte, ancora celata dall’immenso mare, di quell’astro, a cui Iddio ha assegnato per padiglione i cieli, come dice la Bibbia; del sole, che sorge bello, come uno sposo, dal suo letto, e si avanza come un gigante, sulla luminosa via, e la corre, dall’uno all’altro capo dei cieli, sicchè non un solo atomo si nasconde agli ardenti suoi sguardi1.

» Il cielo era così limpido, l’aere sì puro e trasparente, che dall’alto della collina, l’occhio, attraversando la distesa dell’Adriatico appena increspato da una brezza fresca, leggiera, sottile, andava a riposarsi sulle isole montagnose della Dalmazia. Benchè sorgano almeno 150 chilometri lontano, quelle ignude vette vedevansi spiccate, nette, come le cime del Resegone, vedute dal bastione di Porta Orientale in una giornata di vento.

» Mentre guardavo, quasi rapito in estasi, in mezzo a quella calma solenne; un punto luminoso, un raggio infuocato, come un dardo, come un razzo, si accese sull’estremo oriente, entro quell’aureola sanguigna, quasi scintilla che si stacchi d’un tratto da un globo di bragia. Sembrò che tutta la natura avesse dato un guizzo, quasi sentisse per la prima volta la potenza di quel Fiat, che seminò di stelle il firmamento, vesti d’erbe e di fiori, e popolò di animali la terra. L’aria, le piante, le erbe, sembravano scosse da un fremito; tutto l’universo parve animarsi in quell’istante.

» Quel punto dardeggiante si ingrossa; la sua luce, d’un azzurro indescrivibile, già si pronuncia e segna colla sua base, il confine tra il mare e il cielo.... e cresce.... e piglia la forma di [p. 168 modifica]un disco tersissimo di acciajo, immerso per metà nell’onda, da cui si va levando, levando, sotto un cielo divenuto azzurro, in faccia a una terra, ove la luce sembra piovere a ondate sempre crescenti. Il disco sfolgorante si leva, si leva.... ormai non tocca il mare che con un sol punto.... poi se ne spicca.... Il suo labbro tagliente sembra gocciante; e le gocce di sì puro lavacro, sembrano, ricadendo sul mare, come stille di fuoco, dilatarsi, inseguirsi, e, d’onda in onda scorrendo, venire a infrangersi e a spegnersi contro il lido.

» Quante volte, quand’era fanciullo come voi, avevo letto nei poeti greci, che il sole si levava dal mare la mattina, e vi si tuffava la sera! Io credo che tale fosse veramente l’opinione degli antichi, i quali vedevano il sole quasi immensa lucerna, collocata sopra un cocchio sfolgorante, trascinato da luminosi destrieri, guidati da un cotal dio Apollo, che dopo aver percorso il cielo in una sola giornata, scendeva a dormire in seno al mare, e si levava la mattina bello e terso dal notturno bagno. Io leggevo queste cose; ma non intendevo come quei bravi uomini del tempo antico potessero così credere, o fantasticare. Qui a Milano il sole noi lo vediamo sorgere dall’abbaino di una casa, e cadere dietro il comignolo di un’altra.... Più fortunati se lo vediamo levarsi, per esempio, da una fila di pioppi o di platani, e tramontare dietro una selva d’ippocastani. Fortunatissimi quelli che lo scorgono a mane affacciarsi alle vette delle Prealpi bergamasche, e nascondersi la sera dietro le nevose propagini del monte Rosa. Ma vederlo sorgere dal mare, tuffarsi in mare.... misurare tutta l’immensa sua via.... Ah! è uno spettacolo che riempie l’anima. Come intesi quella mattina la bellezza di quelle imagini, con cui gli antichi poeti traducevano la verità delle impressioni, che sono ancora le stesse, benchè la scienza ci faccia intendere così diversamente il fatto! Ma più ancora venni compreso da quel sentimento irresistibile, che sempre in faccia alle grandi scene della natura ci spinge verso l’infinito; e mentre ci umilia soavemente nell’idea del nostro nulla, ci sublima fortemente nel concetto di un Dio così potente, così sapiente, così buono.

10. » Ma basta, nipoti miei: basta per questa sera».

«Non basta punto:» soggiunse la Marietta.

«Che vuoi tu dire?» risposi.

«Ci vuole stasera un po’ di poesia. Sul sole tu hai scritto anche dei versi».

«Peccati di gioventù!... O pròdromi di vecchiaja. Come te ne ricordi?». [p. 169 modifica]

«Ma se li ho a memoria».

«Non potrei dire altrettanto. Recitali adunque tu stessa». E la Marietta, senza farsi pregare, cominciò:

Al Sole.

     Tu splendi, o sole! Intorno a te la danza
Ferve de’ mondi, e parmi che più bella,
Ad ogni alba novella,
Dell’uom sorrida la volubil stanza,
O dell’etra e del mar palpito eterno!
Freno dell’orbe e perno!2

     Della terra signor, signor del cielo,
Anche il musco celato entro del fesso
Trovi, e col raggio stesso
L’insetto avvivi che languia per gelo.
Chi a te non volge il suo sospiro ardente,
Vita d’ogni vivente?

     Quando tu sorgi; serenar le fronti
Vedi le genti, risorgendo anch’esse;
Ma da mestizia oppresse
Chine le lasci, allora che tramonti:
Che, al morir del tuo raggio, oh Dio! sommerso
Nel lutto è l’universo.

     Tu muto intanto gli anni, i giorni, l’ore
Conti, e ai viventi i palpiti misuri:
E passi, e non ti curi
Di chi, in te fiso, sospirando, muore....
Abi! già m’avverte la pupilla stanca
Che la vita mi manca.

     Quando chiudi il tuo giro, onde il sorriso
Di primavera alterni ai freddi poli3,
E par che si consoli
L’orbe di nuova vita, ahi! sul mio viso
Nuove rughe tu scopri, e nuove brine
Sul caduco mio crine.

[p. 170 modifica]


     E già forse su me pende quel giorno,
Che a spegnersi verrà la tua favilla
Sulla cieca pupilla....
Tramonterai non visto.... e al tuo ritorno,
Coll’alito impossente, nella fossa
Ricercherai quest’ossa.

     Vita dell’universo?... Ah, tu no ’l sei.
No, di quest’alma che lo sguardo ardito
Lancia nell’infinito!...
Tu, che natura del tuo raggio bei,
Benchè le vette dalle nevi ascose
Inghirlandi di rose,

     Pallida imago sei di un SOL che splende
Sempre al meriggio, e non tramonta mai;
Che, vibrando i suoi rai,
In te la vampa, in me lo spiro accende;
Lo spiro, in cui più vera, in cui più bella
L’imagin sua favella.

     Tu splendi, o sol; ma attonita la terra
Vedrà i tuoi raggi un dì d’un tratto spenti....
Dei ribelli elementi
Il mondo pere fra l’orrenda guerra....
Sull’abisso di morte batte l’ale
Il mio spirto immortale.



Note

  1. Salmo XVIII.
  2. Intorno al sole girano tutti i pianeti del nostro sistema planetario, siccome intorno ad un perno, dal quale non possono allontanarsi, perchè sentono il freno dell’attrazione che lo stesso sole esercita sopra di essi. Il pianeta Terra, in cui ha stanza l’uman genere, ruota sopra il proprio asse, compiendo un giro ogni ventiquattro ore. Dipende da questa sua volubilità l’alternarsi del giorno e della notte. Le correnti atmosferiche e le marine, girano continuamente dall’equatore ai poli e dai poli all’equatore, il quale, in questo doppio sistema di circolazione è come il cuore in quello della circolazione del sangue. Il calore solare, mantenendo perenne la differenza di densità nelle opposte parti dell’oceano e dell’atmosfera, è causa di questa specie di palpito dell’atmosfera e del mare.
  3. La Terra compie in un anno il suo giro intorno al sole, e, per essere il suo asse inclinato al piano di rivoluzione, sembra che il sole giri in un anno dal tropico del Cancro al tropico del Capricorno, poi da questo a quello, alternando ai due poli i giorni e le notti semestrali, e sui due emisferi polari le stagioni.