Il buon cuore - Anno IX, n. 41 - 8 ottobre 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 41 - 8 ottobre 1910 Religione

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ANTONIO STOPPANI

NEL XX ANNIVERSARIO DELLA MORTE


Lettere di A. Stoppani al Padre C. Maggioni



Già il Buon Cuore ha annunciato questa pubblicazione, ispirata dal duplice desiderio di commemorare lo Stoppani e di portare un beneficio all’Opera di Assistenza degli Emigrati e all’Italica Gens. Ora noi dobbiamo ritornare sull’argomento per un articolo che il giovane ma valente amico don Angelo Novelli, redattore attivo e apprezzato dell’Unione, ha pubblicato nel periodico settimanale portante per sottotitolo L’Idea, che è come il codino rimasto ancor vivo dell’Osservatore Cattolico.

Qui avanti riportiamo integralmente l’articolo di don Novelli; ma lasciando in avvenire piena libertà di parola all’amico prof. Morando, il quale, come commentatore delle lettere dello Stoppani, è più direttamente chiamato in causa, crediamo doveroso intanto, per la verità, anteporre alcune constatazioni di fatto.

«Meglio — così il Novelli — era dichiarare netto, senza ombre, che lo scopo letterario del presente libro fu di sparar l’ultima cartuccia in prò d’una questione che il grosso pubblico si ostina a creder morta....» No, don Novelli carissimo, non dovete attribuire al prof. Morando una intenzione che non poteva avere, perchè l’idea del volume è tutta mia, tutta del sottoscritto, il quale ha creduto, come crede tuttavia, che quell’interessante corrispondenza, colle biografie di due amici indivisi, vissuti e morti col nome del Rosmini sulle labbra, fosse un degno omaggio alla memoria dello Stoppani e del Maggioni. Scartiamo adunque ogni sospetto di secondi fini, e veniamo alle inesattezze in cui è caduto l’amico don Novelli per un difetto ben invidiabile: la giovinezza. Infatti dal suo articolo il Rosmini appare un mito e lo Stoppani — presentato come “ uomo d’indiscutibile valore scientifico e di virtù sacerdotali preclare ” — figura una mente niente affatto convinta delle dottrine rosminiane. “ Rosminiano egli? Lo vollero tale gli ammiratori e fino ad un certo punto egli lo credette... ” Così scrive il giovane amico don Novelli, il quale, colla sua domanda e colla sua affermazione, dimostra di conoscere forse un po’ troppo poco la vita di Antonio Stoppani. La verità sta in questo, che lo Stoppani e il Maggioni passarono i più begli anni nel Seminario Arcivescovile sui libri di Antonio Rosmini, nel periodo fortunato in cui il celebre professore don Alessandro Pestalozza insegnava precisamente la dottrina del grande filosofo Roveretano. I due cuori di Stoppani e di Maggioni furono poi sempre conglutinati appunto per effetto delle loro convinzioni rosminiane e della loro ammirazione per il santo eremita di Stresa, dal quale attinsero le migliori ispirazioni e la fortezza necessaria nelle inevitabili traversie della vita. Il padre Maggioni confessava d’aver lette e rilette in ginocchio le più grandi opere del santo Roveretano, e lo Stoppani non iniziava un lavoro senza prima consultare l’enciclopedia rosminiana, colla quale aveva cominciato la sua carriera fin dal 1861, quando, alla R. Università di Pavia, leggendo la sua memorabile Prelezione — qualificata dall’illustre Taramelli uno squillo di tromba che ci chiamava a raccolta — e preludendo sulla sua prima cattedra al suo avvenire di gloriose battaglie, invocava lo spirito del sommo suo maestro Antonio Rosmini. E chi, se non lo Stoppani, scrisse, come ben dice il Morando, quel Programma, che è forse la migliore tra le molte eccellenti cose pubblicate in un periodo di battaglie, un volo superbo attraverso la storia della filosofia dall’antichità fino a noi?

Lo Stoppani era entusiasta del Rosmini come del Manzoni, il quale soleva dire: «Le opere rosminiane costituiscono un arsenale in cui trovansi le armi necessarie per combattere qualunque errore filosofico o [p. 322 modifica] religioso.» E diceva pure: «Chi riesce a conoscere il Rosmini, s’innamora della sua dottrina e della sua santità, e non può più distaccarsene.» Era ancora il Manzoni che così scriveva ad Antonio Rosmini: «Si rammenti d’uno, il quale conta tra le grazie immeritate fattegli dal Signore il conoscer Rosmini e l’aver parte nella sua benevolenza».

Se l’amico Novelli darà un’occhiata al libro intitolato Antonio Rosmini e il suo Monumento in Milano, troverà tante cose nuove e si convincerà che lo Stoppani non agiva mai per mire politiche, come risulta specialmente da una sua lettera pubblicata il 5 gennaio 1885.

Nè si deve pensare che le note del Morando non corrispondano al sentimento dello Stoppani. Non si tratta d’interpretazione, ma di verità, che forse non possono emergere dalle lettere dello scienziato, il quale, ne’ suoi sfoghi intimi e affrettati, non sentiva nessun bisogno di rivedere il suo credo filosofico, nè vedeva la necessità di convincere l’amico convinto come lui dell’essere ideale, della totalità dell’unità, dell’unità dello scibile e di tutte le teorie rosminiane, mentre sapeva che un rapido cenno, un tocco, una parola, dava al padre Maggioni l’idea completa di ciò che voleva dire, di ciò che avevano detto insieme centinaja di volte.

Riteniamo per fermo che questa discussione, fatta amichevolmente, non debba: riuscire sterile e debba anzi giovare, come dice pure don Novelli nella chiusa gentile del suo articolo che qui riportiamo.

Angelo Maria Cornelio.


ECO DI PASSATE BATTAGLIE1


Dalle idee filosofiche si potrà e in certi punti si deve dissentire, ma torna affatto impossibile negare al professor Morando che quelle idee da anni instancabilmente nella sua e in altrui riviste va propugnando per l’Italia, e fervore e sincerità e costanza indomita. Forse è il solo oggi in Italia cui la filosofia del Roveretano in compenso del lungo e amoroso studio ha rivelato tutti i suoi valori; ed è ben naturale che da buon discepolo del Rosmini, egli questi valori faccia valere nei numerosi scritti di volgarizzazione e in quei di critica, nei quali sulla pietra della sua ideologia saggia le altrui ideologie e in quelli finalmente di polemica. Cresciuto tra i fragori rumorosi della contesa di rosminiani contro tomisti, il Morando fu dei primi allora, e vi si è conservato anche dopo il giudizio autorevole di Leone XIII, che condannava le quaranta proposizioni rosminiane. Da buon cattolico però — è giustizia dirlo — egli non s’argomenta di dimostrare che la Chiesa abbia errato e che quelle famose proposizioni debbansi ritenere per oro colato, no, ma s’accontenta e da anni si sforza di dimostrare che la condanna colpì se mai errori di particolare, non il nocciolo del sistema rosminiano, che

questo sistema vince ogni altro in verità e che... dopo tutto, il decreto Post obitum, non involgendo la questione dell’infallibilità pontificia, potrebbe eventualmente essere riformato.

Dati questi precedenti, ci perdonerà l’egregio professore, se rimaniamo un po’ scettici, quando nella prefazione del recente volume che raccoglie le lettere famigliari dello Stoppani al Padre Maggioni, egli si schermisce da l’accusa di voler riaccendere le ire d’un tempo, oggi la Dio mercè sopite, morte e sepolte, appellandosi alla storia fredda, imparziale che racconta e raccoglie documenti. Forse era meglio fermarsi alla prima confessione schietta «Le lettere inedite, che pubblichiamo, e interessano specialmente per quello che toccano della questione rosminiana nel suo punto culminante»; per non obbligare il lettore a malignare della invocata e promessa imparzialità storica ad ogni nota, o quasi, che il Morando fa al testo delle lettere dello Stoppani. L’occhio tranquillo e l’animo sereno coi quali egli dice di guardar la storia dei tempi andati non gli impediscono di vedere tutto bello, tutto grande negli uomini della sua parte e tutto nero e piccolo negli uomini che ebbero il torto di pensare diversamente.

Meglio — dicevamo — era dichiarar netto senza ombre che lo scopo letterario del presente libro fu di sparar l’ultima cartuccia in pro’ d’una questione, che il grosso pubblico si ostina a creder morta, mentre per il Morando è ancor viva. Così sarebbe apparso ancor più netto il contrasto tra l’intenzione del compilatore e l’effetto del libro.

Perchè proprio — a farlo apposta non si sarebbe potuto — queste lettere dello Stoppani dicono tutto l’opposto di quello che loro vorrebbe far dire il Morando, e con un colpo definitivo dissipano quell’equivoco su cui si resse fin qui il rosminianismo. Il quale fu tante belle e brutte cose disparate messe insieme, ma non mai una corrente esclusivamente filosofica, che con armi esclusivamente filosofiche rivendicasse un posto nella filosofia cristiana, o almeno fu una congerie di aspirazioni politiche, di ragioni sentimentali, costrutte illegittimamente su principi metafisici.

Di qui lo sconfinare — che oggi a noi sembra così assurdo — delle polemiche rosminiano-tomiste dal puro campo della dialettica filosofica in quello più pratico ed essenzialmente politico su cui i nostri vecchi nonni cattolici si aspreggiavano a vicenda a cagione del diverso apprezzamento dei fatti compiuti dalla rivoluzione italiana, tanto che rosminiano equivaleva liberale e tomista valeva intransigente e austriacante.

Di qui ancora quell’intruglio per cui alle ragioni intrinseche che i due opposti sistemi potevano far valere, si continuò a sostituire il valore personale degli uomini che rappresentavano le due tesi in contrasto e si venne ad un punto in cui, messa da parte la metafisica, nè Rosmini nè S. Tomaso si riconobbero più, e stettero a far da bandiera e null’altro, ad essere rappresentanti di ciò che non sognarono nemmanco di pensare.

Un po’ questo torto d’essere una pura bandiera toccò anche allo Stoppani, uomo di indiscutibile valore scientifico e di virtù sacerdotali preclare. Se mai ne [p. 323 modifica] avessimo avuto il dubbio, queste sue lettere rivelatrici dell’anima nuda ci danno la certezza. Rosminiano egli? Lo vollero tale gli ammiratori e fino a un certo punto egli lo credette, ma non lo era se non alla superficie dell’anima, in quella parte dell’anima in cui è possibile anche ai grandi subire l’influenza artificiosa degli altri, segnatamente degli ammiratori.

Invano si cercherebbe nelle effusioni cordiali all’amico e confessore P. Maggioni uno spunto solo in cui lo Stoppani, assediato da critiche aspre, battuto in breccia da teologi, senta quasi il bisogno di rivedere il suo «credo» filosofico, sia pure per attingere nelle ragioni rivedute insieme all’amico affettuoso forza ulteriore di convinzione. La metafisica esula dal suo spirito sereno. Egli tiene informato l’amico de’ suoi studi diletti di geologia, gli comunica le intenzioni, le fatiche, le speranze, le avventure de’ suoi viaggi scientifici, i trionfi; è in quegli studi, ch’egli da solo cominciò, perseguì con una costanza ammirevole e con successo più unico che raro, immortalandosi, il suo pensiero costante, il concetto dominante nelle sue lettere. All’amico egli, con tenerezza squisita rivela le sue effusioni mistiche, il suo sogno di una apologetica scientifica, per cui egli è indubbia. mente un precursore, e partecipa i suoi amori famigliari schietti, forti e quasi infantili. Della questione rosminiana parla pure, ma precisamente lì, un osservatore attento sente il disagio dell’anima sua dal tono stesso che assume la prosa. L’anima sua così buona diventa dispettosa, pronta all’invettiva, abbandonata al pettegolezzo ed alla piccola malignità. Ei sente l’artificio e si dibatte senza essere capace di liberarsene. Rosminiano sì, ma per pure ragioni sentimentali, per una certa affinità morale con Rosmini, per una illusione psicologica, per convinzioni politiche.

Amava Rosmini, perchè la bontà squisita del grande Roveretano assomigliava assai alla bontà tenera e mistica sua; lo amava perchè a lui cultore, anzi poeta appassionato della natura, non poteva non arridere una metafisica che fa Dio Bellezza riflessa nell’universo, oggetto di immediata intuizione all’anima umana; lo amava perchè nel suo nome — a ragione o a torto non monta per ora — si propugnavano le ragioni della sua patria, alla gloria della quale egli sentiva di poter cooperare validamente. Sotto lo stimolo di queste ragioni sentimentali egli non soffriva indugi o difficoltà e potè illudersi di essere rosminiano autentico e di poter validamente battagliare per una metafisica, a cui nel fondo dell’anima egli era straniero.

Così noi siamo riconoscenti al professor Morando e all’egregio amico Angelo Maria Cornelio (che per questo libro detta un accurata ed obbiettiva prefazione biografica) della pubblicazione, perchè con la visione nitida dell’anima cadono tuti i veli definitivamente che oscuravano la figura del grande geologo, ed essa può apparire agli avversari di ieri nel suo fulgore, degna di memoria e di gloria imperitura.

P. Angelo Novelli.



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UN IMPORTANTE CONVEGNO


Il Comitato Centrale Italiano per la pubblica moralità, che ha sede in Torino, sta preparando un Convegno per studi che avrà luogo a Padova nei giorni 29, 30, 31 ottobre, e che consterà di lezioni impartite da competenti insegnanti, e da discussioni che con essi potranno fra gli intervenuti, escluso qualunque voto o deliberazione. I temi saranno tre, uno per giorno, e cioè:

29 ottobre — La protezione dei minorenni in fatto dei costumi in Italia (signorina dott. Augusta Segre di Torino).

30 ottobre — La lotta contro la pornografia in Italia (nob. dott. Gerolamo Calvi, di Milano).

31 ottobre — I regolamenti pei costumi in Italia (prof. Enrico Catellani di Padova).

La competenza degli insegnanti e la serietà dell’organizzazione del Convegno, nel quale, essendo esclusa la preoccupazione di voti da formulare, si avrà tutta la calma e la serenità conveniente e necessaria per studiare ed approfondire i temi, dicono quale sarà per essere l’importanza di questo Convegno. Sarà quindi utile che chiunque si occupa di questioni di moralità vi intervenga, e curi l’intervento di altri.

Le modalità del Convegno sono esposte in apposita circolare, che si può avere da chiunque la chiegga all’Associazione ordinatrice locale del Congresso, cioè alla

Lega per la moralità pubblica

Via Ruzzante, I — Padova

I Cristiani nel Circo


Tutta Roma si era versata nel Circo; questa volta avevano spopolato il deserto e le prigioni. Le bestie feroci e le vittime erano abbastanza numerose, perchè lo spettacolo durasse tutto il giorno e tutta la notte. D’altronde, l’imperatore Nerone aveva promesso d’illuminare il Circo in modo affatto nuovo: anch’egli fu accolto con unanimi acclamazioni. In quel momento era vestito alla foggia di Appollo, e portava, come il dio pitico, un arco e delle frecce; perchè, tra un combattimento e l’altro doveva dar piove della sua destrezza. Alcuni alberi erano stati tolti dalla foresta d’Albano, trasportati a Roma e ripiantati nel Circo coi proprii rami e foglie, e su questi alberi, pavoni e fagiani addimesticati spiegavano le loro penne d’oro e azzurre offrendo la meta alle frecce dell’imperatore. Accadeva altresì che talvolta Nerone fosse tocco da pietà per qualche bestiario ferito, o d’odio per qualche animale che adempisse male il suo dovere di carnefice; allora egli dava di piglio al suo arco ed alle sue saette, e da dove era, dal suo trono, lanciava la morte all’altra estremità del Circo a somiglianza di Giove fulminante.

S’incominciò colle lotte dei gladiatori. Ai gladiatori succedevan quelli che combattevano colle bestie, e costoro erano cristiani. [p. 324 modifica] Apparve dapprima una donna bianco vestita e tutta coperta d’un velo pur esso bianco. Fu condotta presso un albero e legata a quello a mezzo il corpo. Allora uno schiavo le strappò il velo e gli spettatori poterono ravvisare la sua figura d’una beltà perfetta, ma pallida rassegnata.

Non ostante il suo titolo di cristiana, la giovane fanciulla al primo aspetto aveva commosso l’animo di quella folla sì impressionabile, ma altrettanto mutabile; mentre tutti gli occhi erano fissi su lei, s’aprì una porta ed entrò un giovine. Era costume d’esporre così alle bestie un cristiano ed una cristiana, prestando all’uomo tutti i mezzi di difesa, affinchè il desiderio di ritardare non solo la propria morte, ma quella ancora della compagna (in cui luogo si sceglieva sempre una sorella o la madre che avrebbero infuso al fratello o al figlio un nuovo coraggio) prolungasse la lotta, cui però i cristiani rifiuta. vano quasi sempre per amore del martirio, per quanto sapessero che trionfando sui tre primi animali spinti loro incontro, andavano salvi.

In effetti, benchè quest’uomo, di cui a prima vista era facile scoprire il vigore e la flessibilità, fosse seguito da due schiavi, de’ quali uno portava una spada due giavellotti, e l’altro teneva per mano un corsiero Numida, non parve punto disposto a dare al popolo lo spettacolo della lotta che aspettava. Si avanzò lentamente nel Circo, girò intorno uno sguardo calmo e sicuro, poi facendo segno colla mano che il cavallo e le armi erano inutili, guardò il cielo, cadde ginocchioni si mise a pregare. Allora il popolo deluso nella sua aspettazione, cominciò a minacciare e a ruggire; era una lotta e non un martirio ch’era venuto a vedere, e le grida: alla croce! alla croce! si fecero sentire. A queste voci un raggio d’ineffabile gioia si vide negli occhi del giovane e distese le braccia in segno di ringraziamento, beato di morire della morte del Salvatore.

Intanto sentì dietro a sè un sì profondo sospiro, per cui si rivolse: «Sila, Sila, mio fratello», mormorò la giovine. «Atta!» gridò il giovane nell’alzarsi e precipitarsi verso di quella. «Sila, abbi pietà di me», disse Atta; «allorchè io ti riconobbi, un senso di speranza entrò nel mio cuore.... Tu sei destro e forte o Sila; forse se tu avessi combattuto, saremmo restati salvi entrambi...».

«E il martirio?» interruppe Sila, indicando il cielo.

«E il dolore?», disse Atta, lasciando cadere il capo innanzi. «Oh, ch’io non sono come tu, nata in una città santa; io non ho punto intesa la parola di vita dalla bocca di Colui per cui noi andiamo a morire. Io sono una fanciulla di Corinto allevata nella religione dei miei padri; la mia fede e la mia credenza sono recenti; la parola — martirio — non mi è nota che da ieri; forse avrei ancor io per me del coraggio, se però, mi fosse dato vedere Sila morir innanzi a me di questa morte lenta e crudele».

«Ebbene, combatterò», rispose Sila; «perchè io sono sempre sicuro di trovare anche più tardi la gioia che tu mi togli quest’oggi». Quindi facendo un segno agli schiavi: a il mio cavallo, la mia spada, le mie saette!» disse ad alta voce e con un gesto imperioso. La

moltitudine si mise a battere le mani, avendo compreso, a quella voce e a quel gesto, che era ammessa a vedere una di quelle lotte erculee quali abbisognavano per risvegliare le sue sensazioni infiacchite dai combattimeni ordinarii. Sila si appressò dapprima al cavallo; era come lui un figlio dell’Arabia. Quindi strappò di dosso dalla bocca del suo compagno la sella e la briglia che i Romani avevangli posto.

Alla sua volta, quindi si sbarazzò di ciò che il suo costume aveva di impaccio; e attortigliando il mantello rosso intorno al braccio sinistro, restò colla sua tunica col suo turbante. Allora cinse la spada, afferrò i giavellotti, diè la voce al cavallo, che obbedì, docile come una gazzella, e saltandogli in groppa, fece, curvandosi sul collo e senz’altro mezzo per dirigerlo, che quello dei proprii ginocchi e della voce, tre giri intorno all’albero a cui stava legata Atta; l’orgoglio dell’Arabo veniva a prendere il sopravvento sull’umiltà del cristiano.

Frattanto s’aprì sotto al podium (palco) una porta a due battenti, e un toro di Cordova incitato dagli schiavi entrò muggendo nel Circo. Ma dati appena dieci passi, spaventato dalla gran luce, dalla vista degli spettatori dalle grida della moltitudine, piegò sulle ginocchia anteriori, abbassò il capo fino a terra e dirigendo sopra Sila i suoi occhi stupidi e feroci, cominciò coi piedi davanti a lanciar sabbia contro il proprio ventre, a scalfire la terra colle corna ed a mandar fumo dalle nari. Quindi uno dei maestri (dei giuochi del Circo) lanciò contro all’animale un fantoccio imbottito di paglia somigliante a un uomo; il toro subito vi corse sotto e lo ridusse sotto i piedi; ma nel momento in cui era più aizzato contro quello, un giavellotto partì fischiando da Sila, e andò a ficcarsi nella sua spalla. Il toro mandò un muggito di dolore; poscia abbandonando il finto nemico per l’avversario reale, s’avanzò sopra il Siro, rapido, a capo basso e tracciando sull’arena un solco di sangue. Questo lo lasciò tranquillamente avvicinarsi; indi non essendo più che a qualche passo di distanza, coll’aiuto della voce e delle ginocchia, fece fare un salto di costa alla sua leggera cavalcatura, e mentre il toro passava trasportato dalla corsa, il secondo giavellotto andò a nascondergli ne’ fianchi le sei dita di ferro; l’animale si arrestò fremente su’ suoi quattro piedi come se fosse per cadere; poi rivoltandosi tosto, si precipitò sul cavallo e sul cavaliere; ma quelli si diedero a fuggirgli innanzi come portati da un turbine.

Girarono così per ben tre volte l’anfiteatro, il toro indebolendosi ad ogni giro e perdendo terreno mentre inseguiva il cavallo ed il cavaliere; al terzo giro finalmente cadde sulle proprie ginocchia; senonchè quasi subito rialzandosi mandò un terribile muggito; e quasi avesse perduta la speranza di raggiungere Sila, diè uno sguardo all’intorno per vedere se gli fosse dato di trovare qualche altra vittima su cui sfogare la sua collera; fu allora che scoprì Atta. Sembrò dubitasse un istante che quella fosse un essere animato, tanto la sua immobilità e pallore davanle l’aspetto di una statua; ma subito tendendo il collo e aprendo le nari aspirò l’aria che veniva da quella. Subito raccolte tutte le proprie [p. 325 modifica] forze si slanciò diretto sulla giovine. Essa Io vide venire e diede un grido di terrore; ma Sila era attento su lei; egli alla sua volta si diresse contro il toro che sembrava fuggirlo, cui però con qualche salto del fedele Numida potè raggiungere.

Allora dal dorso del suo cavallo saltò su quello del toro, e mentre col braccio sinistro lo afferra per un corno torcendogli il collo, coll’altra gli caccia la spada in gola fino all’impugnatura: il toro scannato cadde spirante a mezza lancia da Atta: ma Atta aveva chiusi gli occhi aspettando la morte, e solo gli applausi del Circo le annunciarono la prima vittoria di Sila.

Entrano quindi nel Circo tre schiavi; due conduce. vano ciascuno un cavallo cui attaccarono al toro per strascinarlo fuori dell’anfiteatro; il terzo portava una coppa ed un’anfora; empì la coppa e la presento al giovane Siro. Costui bagnò appena le labbra e domandò altre armi; gli si recò un arco, delle frecce e uno spiedo. Quindi, tutti si affrettarono ad escire; perchè al di sotto del tropo aprivasi un inferriata, e un leone dell’Atlante uscendo dalla sua gabbia entrava maestosamente nel Circo; appariva il vero re della creazione, perchè, al ruggito con cui salutò il giorno, tutti gli spettatori fremettero, e lo stesso corsiero, diffidando la prima volta della leggerezza delle sue gambe, rispose con un nitrito di terrore. Sila solo, abituato a questa voce possente per averla intesa risuonare più d’una volta nei deserti che si stendono dal Mar Morto alle sorgenti di Mosè, si dispose alla difesa o all’attacco, riparando dietro l’albero più vicino a quello a cui stava legata Atta e accomodando sul suo arco la migliore e più acuta delle sue saette. Intanto il suo nobile e potente nemico avanzavasi lento e sicuro, ignorando ciò che aspettavasi da lui, raggrinzando le rughe della sua larga faccia e sferzando la sabbia colla coda. Allora per provocarlo i maestri gli gettarono dardi rintuzzati con banderuole a differenti colori; ma quello impassibile e grave sempre più avanzavasi non inquietandosi per questi scherzi; quando ad un tratto in mezzo ai dardi inoffensivi una freccia acuta e fischiante passò come un lampo e andò a ficcarsi in una delle sue spalle. S’arrestò pertanto d’un tratto con più sorpresa che dolore e quasi non sapesse capacitarsi che un essere umano fosse abbastanza ardito di attaccarlo, dubitava ancora della sua ferita; ma subito i suoi occhi si fecero sanguigni, la sua bocca si spalancò, scappandogli come da una caverna dal fondo del suo stomaco un ruggito grave e prolungato simile al fragore del tuono; afferrò il dardo infitto nella piaga e lo spezzò coi denti; indi gettando intorno a sè uno sguardo che, malgrado l’inferriata che proteggeali fè rinculare gli spettatori stessi, cercò un oggetto su cui far cadere la sua real collera. In questo momento scorse il corsiero fremente quasi escisse da uno stagno ghiacciato benchè fosse coperto di sudore e schiuma; e cessando di ruggire per mandare un grido corto, acuto e reiterato, diè un salto che l’avvicinò venti passi alla prima vittima da lui scelta.

Un secondo salto avvicinò il leone al cavallo il quale rinculate sino all’estremità del Circo non osando fuggire nè a sinistra nè a destra, si slanciò all’opposto


del suo nemico che si mise a inseguirlo con salti ineguali rizzando la criniera e dando grida acute di quando in quando, cui il fuggitivo rispondeva con nitriti di spavento. Tre volte si vide passar come un’ombra, come un’apparizione il rapido figlio Numida e tutte le volte senza che il leone sembrasse sforzarsi a seguirlo, si avvicinò a quello che inseguiva finchè restringendo sempre il cerchio, si trovò a correre parallelamente con lui. Finalmente il cavallo vedendo che non poteva più sfuggire al suo nemico, d’un colpo s’alzò lungo l’inferriata battendo convulsivamente l’aria coi piedi anteriori; allora il leone a passo lento s’avvicinò come un vincitore sulla vittima arrestandosi di tempo in tempo per ruggire, scuotere la criniera e graffiare alternativamente l’arena con le zampe. Il corsiero malaugurato, affasci, nato come sono, (dicesi), i daini e le gazze alla vista d’un serpente, cadde dibattendosi e rotolò sulla sabbia agonizzante pel terrore.

In quel frattempo un secondo dardo partì dall’arco di Sila e andò a ficcarsi profondo nelle coste del leone; l’uomo veniva in soccorso del corsiero richiamando sopra di sè la collera che aveva declinata per un istante.

Il leone si volse indietro, giacche cominciava ad accorgersi d’avere nel Circo un nemico più formidabile di quello che soggiogava col solo sguardo; fu allora che scorse Sila il quale traeva dalla cintura una terza freccia e l’addattava sulla corda dell’arco; si fermò un istante in faccia all’uomo questo vero re della creazione. Quell’istante bastò al Siro per inviare al suo nemico il terzo dardo messaggero di dolore che attraversò la pelle mobile della faccia e andò a infiggersi nel capo. Quello che avvenne dopo, fu allora rapido come una visione; il leone si slanciò sull’uomo, l’uomo lo ricevette sul suo spiedo, poi l’uomo e il leone rotolarono insieme; si videro volare pezzi di carne e gli spettatori più vicini si sentirono inumiditi da una pioggia di sangue. Atta mandò un grido di saluto al fratello, essa non aveva più difensore, ma non aveva più neppure un nemico: il leone era sopravissuto all’uomo solo per bastare alla sua vendetta. Quanto al cavallo era morto senza che il leone pur lo toccasse.

Gli schiavi rientrarono e tra le grida e gli applausi frenetici della moltitudine trasportarono il cadavere dell’uomo e dell’animale. Allora tutti gli occhi si riportarono su Atta, cui la morte di Sila aveva lasciata senza difesa. Finchè aveva veduto suo fratello vivente, nutrì speranze per sè stessa. Ma vedendolo cadere aveva compreso tutto esser finito, ed essa aveva tentato di mormorar preghiere le quali spegnevansi in suoni inarticolati sulle sue labbra pallide e mute. Però, contro il solito, in quella folla eravi simpatia per lei conosciuta dai costumi per una Greca mentre dapprima era stata creduta Giudea. Le donne e i giovani a preferenza cominciavano a mormorare e alcuni spettatori alzavansi a domandare grazia per lei, quando le grida: a Seduti! Seduti» si fecero sentire dai gradini superiori; si era tolta un’inferriata e una tigre si slanciò nell’arena.

Appena escita dalla gabbia la tigre si coricò per terra, ma senza inquietudine e senza sbalordimento; poi aspirò [p. 326 modifica] l’aria e si mise a strisciare come un serpente verso la parte dove era caduto il cavallo.

Quivi giunta si rizzò in piedi, come, aveva fatto quello, contro l’inferriata fiutando e mordendo i cancelli toccati dal cavallo; quindi ruggì dolcemente interrogando il ferro, la sabbia e l’aria sulla preda assente. Allora esalazioni di sangue tiepido giunsero fino a lei, perchè questa volta gli schiavi non eransi presa la pena di purgare la sabbia; essa marciò dritto all’albero contro il quale era avvenuta la lotta fra Sila e il leone, non piegando a sinistra o a destra che per raccogliere i pezzi di carne fatti volar intorno a sè dal nobile animale che l’aveva preceduta nel Circo. Da ultimo arrivò a una pozza di sangue non ancora, assorbito dalla sabbia, e si mise a bere come un cane assetato; poi guardò di nuovo intorno a sè con due occhi scintillanti di lince, e fu allora che scoprì Atta la quale legata all’albero e ad occhi chiusi attendeva la morte senza osar di guardarla a venire.

La tigre pertanto si accosciò col ventre a terra serpeggiando in senso obliquo alla sua vittima, ma senza perderla di vista; arrivatale a distanza di dieci passi, si rialzò, fiutò, il collo teso e le nari aperte, l’aria che veniva da quella. Quindi d’un unico salto sorpassando lo spazio che la divideva ancora dalla giovane cristiana, cadde ai suoi piedi; e allorchè tutto l’anfiteatro, aspettandosi di vederla fatta a brani, gettava un grido di terrore in cui appariva tutto l’interesse inspirato dalla giovane a’ suoi spettatori venuti per battere le mani alla sua morte, la tigre si accovacciò dolce e calma, mandando flebili grida di gioia e leccando i piedi della sua antica padrona. A tali carezze inattese, Atta stupita aprì gli occhi e riconobbe Febo, la tigre da lei allevata.

Subito le grida di «Grazia! Grazia!» risuonarono da tutte le parti; avendo la moltitudine creduto un prodigio la riconoscenza della tigre per la giovane. Del resto Atta aveva subite le tre prove richieste e giacchè salva, restava pure in libertà. Allora lo spirito mutabile degli spettatori si convertì, per una transazione sì naturale al popolo, da spirito di estrema crudeltà in quello di estrema clemenza. I giovani cavalieri gettarono le loro catene d’oro, le donne le loro corone di fiori. Tutti alzaronsi sui gradini, chiamando gli schiavi perchè andassero a slegare la vittima. A tali grida Libico, il nero guardiano di Febo, entrò e con un ferro tagliò i legami della giovane che cadde subito sulle sue ginocchia, perchè quei legami erano l’unico sostegno che tenevano in piedi il corpo di lei sfinito dal terrore. Ma Libico la rialzò e confortando il suo passo la condusse accompagnata da Febo che la seguiva come un cane verso la porta chiamata — Sana Vivaria — essendochè da questa porta escivano i gladiatori, i lottatori che combattevano colle bestie e i condannati salvi dalla carneficina.

Alla vista di lei, la folla applaudì e volle portarla in trionfo; ma Atta giungeva le mani supplicando e il popolo si schierò in due ali innanzi a lei lasciandole il passo libero. Dopo andò al tempio di Diana, s’assise dietro una colonna del peristiglio e vi restò a piangere

disperata; perchè lamentavasi di non esser morta allora e di vedersi sola al mondo, senza padre, senza protettore, senza amico; il padre erasi perduto per causa sua, S. Paolo e Sila erano caduti martiri.

Allorchè tornò la notte, si risovvenne che rimanevale una famiglia; quindi prese sola e in silenzio il cammino delle Catacombe.

La sera l’anfiteatro si riaprì di nuovo; l’imperatore riprese il suo posto sul trono rimasto sgombro parte del giorno, e gli spettacoli ricominciarono; indi allorchè discese la notte, Nerone si ricordò della promessa fatta al popolo di dargli a vedere una caccia a luce di fiaccole; furono legati a dodici pali di ferro dodici cristiani coperti di zolfo e resina cui misero fuoco; poi furono fatti discendere nel circo altri leoni ed altri gladiatori.

Traduzione di L. Meregalli.

Benedizione materna


Da’ tuoi lontana, sotto estranio cielo,
fra monti sconosciuti e genti nove,
se mai più intenso il gelo
e il silenzio del verno in cor ti move
inejfabil mestizia,
oh di conforto pur ti sia cagione
del cor materno la benedizione!


Le lotte della vita, tu nol sai,
son molte e dure in questo mondo infido
sempre lagrime e guai...
la mamma tua t’ha svelto dal tuo nido
onde più franca e fulgida
tu percorra il tuo cielo e ti dà sprone
con la materna sua benedizione.


Ella sempre ti sente nel suo core,
ti vede e segue dal mattino a sera,
di te parla al Signore
disfokando l’amor nella preghiera
e se nei sogni l’agita
fiero timor, scongiura la tenzone
mandandoti la sua benedizione.


Oh di che gaudio allora tu l’allieti,
povera mamma, quando tu le scrivi
che ne’ tuoi consueti
alterni studi tu contenta vivi,
che il voler ti sollecita
d’esser miglior, come il dover t’impone!
Mira a tal fin la sua benedizione.


Ma dopo il verno vien la primavera,
eppoi, eppoi l’autunno co’ suoi frutti...
Oh per gran merlo altera
noi ti riavrem festante, e più che tutti
beata del tuo plauso
la tua mamma con più viva espressione
ti ridarà la sua benedizione!

  1. Antonio Stoppani nel XX anniversario della morte — Lettere di A. Stoppani al P. Cesare Maggioni. — Milano, Oliva e Somaschi, 1910.