Il buon cuore - Anno X, n. 42 - 14 ottobre 1911/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
Charette, l’eroe della Vandea
L’hanno rievocata nell’agosto scorso, sul limitare del bosco della Chabotterie, uno dei più selvaggi della Vandea. Vecchi soldati, vecchi marinai, superstiti zuavi, bretoni giunti da tutte le parti, dal monte, dalla falaise e dal piano, s’erano dati colà convegno per scovrire un monumento, destinato a tramandare ai posteri la memoria di Francesco Attanasio Charette de la Contrie, «generale supremo delle armate cattoliche e reali».
Una croce di granito, dalle braccia cariche di fiordalisi, emergente da un fascio d’armi e di vessilli. Sul piedestallo un’epigrafe ricorda, che colà, il 23 marzo 1796, Charette cadde tra le mani del generale repubblicano Travot. Così uno dei periodi più tragici e più belli della storia di Francia è tornato a vivere nelle menti... Charette e la Vandea! Giosuè Carducci non aveva forse torto, quando, discorrendo di Orlando, affermava la cavalleria francese aveva esaltato il suo spirito sotto le mura di Ravenna, col bel Gastone di Foix? Più equo dell’autore di Ça ira, Hugo ha celebrato il generale dei Vandeani come l’erede diretto di Bajardo e di Duguesclin. Svaniti in gran parte gli odî, i livori, addensati dalla tempesta rivoluzionaria, gli storici rendono oggi giustizia all’eroismo disperato dei combattenti di Vandea e del loro capo.
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Oh la terribile epopea! Allo scrosciare della Rivoluzione, i contadini assediano, invadono i castelli, Essi vogliono, che i signori vandeani piglino con loro le armi; e si mettano alla loro testa. E da per tutto dei dialoghi s’impegnano, rapidi e drammatici, come quello corso tra i contadini di S. Martino di Beaupréau ed il cavaliere d’Elbée: «Tornate sotto i vostri tetti, disse d’Elbée, ecco la notte; la notte porta consiglio. Se domani persisterete, io mi porrò alla vostra testa, ma sappiate questo: le vostre donne disonorate, i vostri figli massacrati...». Il giorno dopo, i contadini tornarono più numerosi: «Eccoci qui, abbiamo riflettuto. Mantenete la vostra parola, noi manterremo la nostra».
Charette aveva accolto anch’egli con diffidenza lo slancio della moltitudine. Quando i contadini vennero a cercarlo, il futuro generale in capo delle «armate cattoliche e reali» diresse la folla verso la chiesa. Sull’altare stava aperto il Vangelo. Ponendo la destra sul testo sacro, Charette giura di morire piuttosto che abbandonare la causa della libertà della Vandea. Poi, rivolto verso gli spettatori: «Giurate, soggiunge, giurate d’esser sempre fedeli alla causa dell’altare e del trono. Giurate, che m’obbedirete sempre!». E tutti, levando le armi, ripetono il giuramento.
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Egli era già temprato alla lotta terribile. Quando assunse il comando dei «gueux» vandeani, non contava trent’anni. Uffiziale di marina a sedici anni, tenente di vascello quattro anni dopo, egli s’era lasciato trascinare dal moto incomposto degli «emigrati»; ed aveva al primo infuriare della Rivoluzione, abbandonata la Francia, varcando la frontiera. Ma gli ozî di Coblenza gli ripugnarono. Ripassò il confine venne a Parigi, ed il giorno dell’assalto delle Tuileries, Charette era sulle soglie reali tra i difensori. Lo buttarono in prigione: l’intervento di alcuni amici lo salvò dalla ghigliottina. Nei primi anni della sua giovinezza, ospite d’uno zio in piena foresta di Retz, egli aveva, nelle lunghe cacce appassionate, appreso come si fa a scorrere, balenando attraverso le gole, le macchie fitte, i precipizi silvestri. E s’era preparato, così, a quella guerra di Vandea, che Hoche definì «la guerra sui precipizi».
La leggenda lo ha trasfigurato (tutta una flora di canzoni vandeane parla di lui), ma i testimoni assicurano che l’aspetto non offriva niente dei caratteri classici dell’eroe. Aveva una voce dolcissima, muliebre quasi; ma si trasformava, assumendo un timbro metallico, quando comandava. Le cronache vantano la sobrietà, la resistenza alla fatica, le lunghe giornate, passate senza nè bere, nè mangiare, e vantano il suo disinteresse, la sua generosità, la sua cortesia. La stupefacente strategia, che riuscì con masse scarse e disordinate, a respingere l’uno dopo l’altro, con mosse da scoiattolo, gli eserciti repubblicani, s’accompagnava ad un coraggio indomabile. E del resto, egli stesso dettò in uno scritto, conservato nella biblioteca di Nantes, che le qualità del capo devono essere sovratutto queste: sangue freddo innanzi al nemico, precisione nel comando, fiducia nella propria causa, disprezzo del pericolo, infine....
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Tutte le storie raccontano le fasi del duello gigantesco, durato tre anni, tra i vandeani di Charette e la Rivoluzione. Quel che han commemorato nell’agosto scorso nel bosco della Chabotterie è l’epilogo della disperata epopea.
....Il 23 marzo 1796, inseguito da parecchie colonne repubblicane, Charette non ha più con sè che 35 compagni, povero sciame, contro il quale s’accaniscono 500 soldati, a piedi od a cavallo, comandati dal generale Travot. Col manipolo fedele Charette s’inoltra nel bosco. I repubblicani lo circondano da ogni parte. Un combattimento s’ingaggia nel più fitto della foresta; parecchi vandeani, feriti mortalmente, cadono, mentre gli altri si ritirano o lottano, corpo a corpo, accanto al loro generale. Un ufficiale repubblicano, il capitano Vergez, scovre Charette e lo ferisce al capo con una schioppettata e, con un altra, gli fracassa la spalla destra. Charette tenta andare più oltre nella macchia. Ma, acceccato dal sangue che gl’inonda il viso, il generale sviene tra i due vandeani. Uno di essi, il suo domestico Bossard, è colpito da una palla, mentre s’affanna a sollevare il padrone. L’altro, il cavaliere Samuel de Lespinay de La Roche d’Avau, raccoglie il capo sulle sue spalle e lo nasconde dietro un grosso tronco di frassino sull’orlo d’un fosso, ed uccide il primo soldato che s’avvicina. Ma una palla lo colpisce alla sua volta ed anch’egli è morto. Charette, tornato alla vita, non tenta più di fuggire. Con una sciabolata, il capitano nemico gli taglia tre dita della mano sinistra e lo disarma, strappandogli la carabina.
Giunge intanto Travot. Gli additano il generale là, a terra, ma l’altro incredulo, avvicinatosi, chiede al ferito il suo nome. Charette, stordito, non risponde.... Ad una domanda: «Dov’è Charette!» — «Eccolo!». risponde il ferito. Travot dubita ancora e chiede: «E lui davvero?» — «Sì, parola di Charette!», replica il capo dei vandeani: e si scopre.
Lo adagiarono sopra una barella, fatta di rami d’albero, e Io trasportarono al castello vicino. Lo posero accanto al fuoco perchè i suoi panni, bagnati dalla pioggia e dal fango, si asciugassero. Gli lavarono le ferite, gli diedero da bere dell’acquavite. Quando dopo quattro ore di riposo, all’alba, Charette parve riconfortato, egli stesso chiese un cavallo, vi salì in groppa e s’avviò, cavalcando accanto a Travot, verso Nantes, dove gli era stata preparata la prigione.
Il Direttorio fece annunciare la cattura di Charette in tutti i teatri parigini, durante la rappresentazione. Il giorno stesso Travot veniva promosso e Carnot scriveva al suo amicò Ardouin, membro del Consiglio dei Cinquecento:
«Mi affretto ad informarti che il famoso Charette è, infine, caduto tra le mani dei nostri valorosi difensori. Il fatto è così importante che ho voluto comunicartelo immediatamente, affinché tu possa annunciarlo ai tuoi colleghi».
Ed infatti la lettera venne letta al Consiglio dei Cinquecento, nella seduta del giorno dopo. Il generale Grigny scriveva ad Hoche:
«Qui a Parigi, a dire il vero siamo tutti come pazzi per la bella notizia».
Giunto a Nantes, il generale in capo delle armate cattoliche e reali della Vandea, venne condotto innanzi al generale Duthil che, dicono, lo ingiuriasse. Percorse, con una numerosa scorta, le vie della città tra una moltitudine, agitata da passioni diverse, sino alla porta della prigione.
Una relazione del tempo dice: «Il prigioniero, col braccio al collo, cogli abiti sanguinanti e lacerati dalle palle, sembrava schiacciare ancora colla sua grandezza tutti i generali dalle uniformi ricamate d’oro, che lo squadravano tronfi e gloriosi».
Due giorni dopo, Charette comparve innanzi ad una commissione militare. Un ufficiale gli chiese perchè non sì fosse suicidato: «Perchè sarebbe stata una viltà e perchè le mie convinzioni religiose me lo proibiscono — rispose semplicemente».
Ascoltò freddamente la sentenza, che lo condannava a morte e chiese un prete....
Poi provvide all’estrema toeletta. Quando venne fuori dalla sua cella, era vestito con un abito grigio, dal collo ricamato d’oro, con dei calzoni di velluto e lunghi stivali di cuoio. Portava al fianco una sciarpa bianca ricamata a fiordalisi. A causa delle gravi ferite, ricevute alla testa, invece del suo cappello di feltro aveva messo un fazzoletto di seta bianca. Un pannilino, cucito all’abito, sosteneva la mano mutilata. E sul petto spiccava uno scapolare del Sacro Cuore. Rifiutò la benda. Ed a fronte scoverta, quando i fucili dei soldati furono puntati, levò le mani in alto, dando così egli stesso il segnale del fuoco, e cadde, rovescio, sotto la scarica.
Domenico Russo.
Storia breve di un’anima penitente
(Continuazione e fine, vedi n. 41).
Povera cara, nessuno era puro della tua angelica purezza, eppure una vaga ombra di calunnia, era bastata a privarti del padre dell’anima tua.
Il Giunta fu mandato ad Arezzo, poi a Firenze, e tu lo confortasti negli addii così pieni di pianto. Ah quelle tue lettere che gli scrivesti durante i sette anni di sua assenza e nelle quali ti fingevi la voce stessa di Dio che lo chiamava con le più elevate espressioni!
Come lo seguivi con la tua grande anima, con la tua preghiera, co’ tuoi voti di santità ne’ suoi veri trionfi oratorii che terminavano con la conversione di onde di popolo affascinato e vinto dalla sua fiamma di apostolo! A Siena, per esempio, quali auree parole gli indirizzavi, di sublime confidenza, di incoraggiamento, di perfetto abbandono in Dio! Eccone qualche cosa:
«Il Padre Iddio, al figlio suo, benedizione e raccomandazione interna de’ suoi figliuoli che ricomprò a sì gran prezzo, e di quelli particolarmente che si discostarono dalla sua via. Cresci sempre nei gradi delle grazie, affinchè quelle cose che sono di Dio siano sempre riferite a Dio come il lume a te donato venga sempre da te appropriato al tuo Creatore. Io, sommo ed unico Dio voglio onorare gli amici miei in cielo e in terra. Perciò non ti torni duro, o figlio, faticare per me, perchè se ti ricorderai delle mie fatiche e del premio che ti preparai, le tue ti saranno dolci e faticherai con incessabile allegrezza. La coppa che l’amico mio Franco (1) vide in ispirito mentre pregava per te, significa il sacrificio delle opere del tuo Dio, perchè tu porti il mio nome con fervida divozione in faccia al popolo duro. Quella croce posta nelle tue mani, ti invita a ritornare spesso alla croce. La rosa poi a te consegnata, significa la purissima castità, il profumo della quale si espande agli amici. Per questo, io ti ammaestro come fa un padre col figlio suo quando predicherai al popolo, mostrati coi peccatori trattabile e umano, e negli ammonimenti che farai contro i peccati, metti in vista nel tempo stesso ai peccatori la mia clemenza che volontieri dispenso al peccatore che a me ritorna. Tu altresì, o figlio mio, rendi te stesso grave di costumi in tutte le tue opere, perchè sempre sarò con te se però tu non mi perderai per tua colpa. Ti benedico da parte del Padre, da parte mia e dello Spirito Santo e anche della beatissima Vergine Maria, dalla quale mi degnai prendere carne per la salute di tutto il genere umano».
Quanto cuore in queste parole, quanta pace di perdono provato, quanta compassione pei peccatori, che filo di lagrime scorre silenzioso per queste righe!
Ah quel calice, quella croce, quella rosa! quell’essere trattabile e umano, quella clemenza che volontieri si dona...! E quella benedizione!
Come si vede la Santa sotto i veli di questa semplice, angelica letteratura! E quali sublimi rapporti si capisce dovevano esistere tra questi due cuori separati. Ah nemmeno un lamento si incontra nella loro separazione! Si, poichè, qual legame vi è mai, per quanto sublime, che possa tener legato il cuore dei Santi in modo da provocarne lagnanza verso Dio nel distacco? Delicatissimi nella vera amicizia cristiana, in cui sono entrati come in un mare, dove farvi certi viaggi più belli con qualche anima privilegiata, che Dio ha voluto loro avvicinare, essi non si rifiutano di provare le tempeste che egli permette al Nemico di suscitare o che direttamente vi suscita Egli stesso, per loro maggiore purificazione e sua gloria maggiore.
Essi praticano cosi ciò che il mondo e le deboli amicizie umane non arrivano a capire: la perfetta libertà del cuore nel più sacro adempimento di tutte le leggi dell’affetto. La ragione è che essi sono ordinati nel loro amore, non amando se non per Dio e in Dio, e per conseguenza adorando sopra ogni cosa il volere di Dio unico principio e termine del loro amore. E anche quando la natura riceve il loro tributo di lagrime e di schianto, come ad esempio nella Chantal, che passa decisa ma in uno scroscio di pianto sul corpo del suo Celso Benigno ingrandendo l’aureola di madre con quella di santa, quel tributo non resta che una prova più grande della loro libertà che essi hanno fatto trionfare a sì caro prezzo; così nei giorni della felicità essi sanno mescolare sempre alle loro purissime gioie, la goccia preziosa della mortificazione che li tiene pronti ad ogni distacco, a guisa della giovane santa Elisabetta d’Ungheria duchessa di Turingia, già da noi ricordata, che tutte le notti si rubava alle sante carezze del Duca, suo degno marito, per gustare le dolcezze della penitenza sulla nuda terra ai fianchi del letto coniugale con una mano m quella commossa di lui (2).
Intanto alla Chiesa di S. Basilio veniva eletto a nuovo rettore D. Badia Venturi, un’anima sacra, anch’essa ritornata da una strada che somigliava a quella battuta dalla nostra santa ne’ suoi giorni indegni, e oggi grondante di lagrime e spezzata dalla contrizione. Ella lo ebbe per sette anni confessore. Chiedevano perdono insieme e piangevano insieme. Lontani entrambi dal mondo di cui avevano sentito l’amaro, andavano con voli ardenti verso Dio.
Ma anche questo conforto sublime, doveva essere trammezzato da sublimi dolori. Le gioie in questo cuore inquieto non potevano durare. Sola, in cima a un monte, con l’ala soltanto di quell’angelo della penitenza che la sorreggeva mentre ella stessa gli comunicava la forza di sorreggerla, pareva che nulla le mancasse per gustare Iddio. E sarebbe stato così se Dio stesso non si fosse ritirato per farsi trovare da lei unicamente col merito della aridità di spirito. Due anni ella visse così, chiamando ad alta voce il suo Signore, scongiurando D. Badia a parlarle di lui, uscendo in certe ore di sole sui prati alti, a cercar Dio alle roccie e alle nubi per ritirarsi senza averlo incontrato, per sentirsi crescere lo spasimo della cancrena che le incominciava a torturare la bocca. Non era soltanto la natura che le teneva il cuore così nobilmente inquieto, era Dio che la amava così, che la aiutava a farsi in tal modo più degna di possederlo. Le permise tentazioni tremende di disperazione con mille fantasmi della sua antica vita di peccato. La gettò nel più basso concetto di sè, fino a che, un giorno, la si vide scendere un tratto la china del monte, tutta in pianto, chiamando Cortona ad aiutarla ad andarsene, pregando che la cacciassero via perchè era stata e si sentiva una indegna. Fu allora che Cortona si commosse e capì chi scendeva dal monte incarnando in se la legge e il consiglio di Dio, e le si improvvisò una di quelle processioni, che raramente si leggono avvenute nella storia dei popoli. Ella dovette ritirarsi confusa, e Dio la ritornò nella pace.
Si era ormai agli ultimi due o tre anni della sua vita. In città scoppiarono nuovamente gli odi di parte tra Guelfi e Ghibellini. Ella scrisse al Giunta che chiedesse licenza dai superiori di ritornare in Cortona a predicarvi la pace. Nelle parole della Santa c’era la volontà di Dio. Il Giunta, chiamato dal superiore, tornò, ricompose le famiglie dei Ranaldi, dei Rossi, dei Recabeni, e ripartì avendo nel cuore la profezia di lei che non sarebbe morta prima di un altro suo ritorno.
La Santa scrisse una, due, tre volte al vescovo di Arezzo Guglielmino perchè desistesse dalle sue lotte: egli non l’ascoltò, e i nemici lo finirono.
Si distese allora la calma su Cortona e sulle vicine città. Non guerre al di fuori, non lotte intestine. L’ospedale, le poverelle, la fraternità della misericordia, spandevano olezzi di carità. La Santa non era solo amata, era adorata; il figlio suo avanzava nella virtù; suo fratello Bortolomeo si preparava a farsi terziario; le figlie sue spirituali andavano e venivano in torno a lei come angeli raggianti. Anche la cancrena alla bocca si era arrestata. L’anima era in una quiete immensa.
Preludio dunque immediato della fine.
Il Giunta fu chiamato da quelli stessi che l’avevano da lei allontanato, pentiti d’averla privata lunghi anni della sua dotta e santa assistenza. Egli non abbandonò più il letto della santa penitente. I loro colloqui furono raccolti dagli angeli e cantati nel cielo dove un dì speriamo, ne sentiremo gli echi.
Ella era là, sulla sua montagna, nella sua cella, come in una barca sopra la cresta di un’onda del tempo. Era per entrare nella eternità e, anche nella pace, quel cuore vi anelava con ardore. Ella parlava di Dio come stesse per darle la mano. Sorrideva col labbro, e i suoi grandi occhi avevano sempre una lagrima. La febbre ormai l’aveva consunta. Quando le si portò il Viatico, fuori della cella era tutta Cortona. Ella si chiuse nell’anima il suo Amore, come nella conchiglia la perla. Benedisse a tutti e si abbandonò a un dolce assopimento che parve riflesso di estasi.
Il 22 febbraio, alla prima punta dell’alba, spalancò più grandi gli occhi. Cercava, cercava un’ultima volta, quel cuore. Il Giunta capì, sollevò il braccio additandole il cielo. Ella brillò un istante nel suo volto diafano. Diede l’ultima lagrima e andò. Aveva cinquant’anni; sedici li aveva passati nella casa paterna; nove nel peccato; nove nella prima cella in palazzo Moscari nella penitenza; tredici nel fervore della carità nel rustico della seconda cella, gli ultimi nove alla rocca del monte; tutti nella inquietudine del cuore. Oggi è finalmente quieta.
Suonavano le Ave-Marie pei colli toscani. La primavera di quell’anno 1297 si annunciava tra gli uliveti. Gli angeli avevano colto sulla cima di quella montagna, il calice puro che aveva sempre anelato ai cieli dal suo stelo agitato.
Innocenti, imparate quanto sia preziosa la vostra virtù se questa grande fece tanto per riaverla.
Peccatori, noi abbiamo capito.
O Santa, lasciami dire il tuo nome finalmente, che non ho pronunciato fin qui, perchè non ti avrei detta tutta finchè eri inquieta; o Santa Margherita da Cortona, che veramente riposi beata in Dio, ricordati di noi che abbiamo ancora il cuore che trema.
Can. Pietro Gorla.
PAGINE AGIOGRAFICHE
Il Buon Cuore non ha ancora segnalato ai suoi lettori una pubblicazione, che certo li deve interessare, non fosse altro perchè rieorda una delle pagine più celebri della storia milanese: vogliamo dire la «Vita di San Carlo Borromeo» (3) del sac. dott. Cesare Orsenigo. Siamo lieti di adempiere oggi questo compito, pubblicando la recensione esatta e geniale al tempo stesso, che ci favorisce il can. Pietro Gorla:
«I devoti scendono nella cripta del Duomo, guardano con riverenza traverso il cristallo dell’urna le spoglie del gran Santo Arcivescovo e vi appoggiano la loro mano, come a trarne sostegno, e ii lasciano le loro lagrime.
«Don Orsenigo ci ha dato nel suo volume un’urna nuova, piena delle memorie del Santo, reliquie preziosissime sulle quali si era avanzata la polvere dei secoli. La sua scrupolosità storica, che ha saputo sceverare il vero dal falso, il certo dall’incerto, la lucidità della frase sempre nobile, i fili d’oro delle discrete riflssioni morali con cui ha legate quelle sante reliquie spirituali, hanno reso le sue pagine un vero cristallo, traverso al quale si vede tutta l’anima del Borromeo.
«È un libro questo, che merita d’esser studiato, perchè molto vi si impara: sono ventisei capitoli, suddiviso ciascuno in paragrafi, quasi a formare altrettante miniature della vita del Santo, cosicchè, mentre vi si ammira il complesso dell’opera, il pensiero non si stanca, grazie a quel frequente intervenire di soste, che permettono di portarsi via il libro pagina a pagina assorbendone facilmente tutte le bellezze.
«L’Autore più che l’ordine cronologico, il quale è però accuratamente segnato in fine al volume, ha seguito nella narrazione quello logico dell’avanzarsi della figura morale del Santo; e — leggendo — si vede veramente il Borromeo ingrandire man mano come un sole della Chiesa e della Santità, Vi si ammirano i tesori della grazia corrisposti, dalla energica, invincibile volontà. L’anima del fanciullo, del giovinetto, del cardinale, dell’arcivescovo, del pastore, del martire vi è studiata con cura veramente amorosa; e si vedono crescere sulle membra vivificate da quell’anima grande, i segni della mortificazione, ingrandendosi coll’ingrandirsi dei sacri ornamenti della dignità, nell’ambiente sempre fedelmente ritratto in cui l’uomo si fece santo. E il santo passa sempre vivo, sempre vero, traverso quelle bellissime pagine, finchè lo vedi reclinare il capo e, morto, essere portato sulle braccia e sui cuori di tutta Milano.
«Ringraziamo don Orsenigo che l’ha preso da quei sacri sostegni e l’ha portato fino a noi, dopo d’averci tenuti vicini a Lui per tutta la sua mirabile vita di 46 anni. Il chiarissimo Dottore ce lo presenta in mezzo a tutti i ricordi storici più interessanti del suo tempo e finalmente nell’aureola della santità proclamata solennemente dalla Chiesa.
«Auguriamo che questo bellissimo e dottissimo libro trovi gran numero di lettori, che informino sopra un tanto modello di uomo e di santo, la loro vita cittadina e cristiana in cerca della vera grandezza».
PENSIERI
Cosa curiosa! due grandi massime: del risparmio del tempo («Diem perdidi») e del rispetto alle leggi («Legum servi sumus ut liberi esse possimus»), sono nate in Italia, il paese del perditempo e della noncuranza delle leggi.
L’errore di molti costituisce una legge.
«Digesto».
Don ACHILLE FARINELLI
PREFETTO DEL TEMPIO DI S. M. PRESSO S. CELSO
Mercoledì, nella Chiesa Parrocchiale di S. Eufemia, sotto la cui giurisdizione è il Tempio di Santa Maria presso San Celso, si fecero i solenni funerali del can. sacerdote don Achille Farinelli. Numerosi furono i fedeli convenuti, numerosissimi i sacerdoti. Solo da pochi giorni il Farinelli era stato colpito da polmonia, e molti seppero della sua morte prima di saperlo ammalato. Sua Eminenza l’Arcivescovo fu a visitarlo e confortarlo della sua benedizione. Nella stazione funeraria di Porta Romana, prima che il feretro partisse pel Cimitero, il, nostro Direttore, antico amico del defunto, lesse il seguente discorso:
«La commozione che è sul volto e nell’animo di tutti, ben ci fa conoscere quanto grave sia la perdita che noi abbiamo fatta in Don Achille Farinelli, la cui salma ci sta dinnanzi. Ed io, che da più di cinquant’anni gli sono stato amico, io posso ben proclamare a voce alta la ragione di questo universale consenso di stima e di amore: una parola dice tutto: egli fu il vero sacerdote di Cristo.
«Missione di Cristo fu la salute delle anime colla manifestazione della verità, colla comunicazione della grazia, col conforto delle coscienze, coll’esempio del sacrificio. Ora la cura di anime può dirsi che sia stato l’esercizio principale e continuato della vita di Don Achille. Coadiutore per molti anni nella popolosa Parocchia di S. Stefano, con residenza da ultimo nella Chiesa sussidiaria dei Crociferi, chi può dire appieno l’assiduità, il fervore, lo zelo, il gusto che egli poneva in tutti gli esercizi del sacerdotale ministero! Egli era sempre pronto alla predicazione, pronto al confessionale, pronto, assiduo, affettuoso nell’assistenza degli infermi, pronto ad ascoltare tutti quelli che venivano a richiederlo dei suoi consigli. Il decoro della Chiesa era come l’espressione della sua fede, ed uno dei mezzi con cui voleva ridestata ra fede negli altri; e la Chiesa dci Crociferi così linda, così animata di frequenti e pie pratiche, ne era una edificante, splendida prova. La stima e la fiducia del ricco e del povero egualmente lo circondavano. Quando abbandonò S. Stefano, fu uno schianto dei cuori: del cuore suo e del cuore di molti parocchiani che avevano come immedesimata la loro vita spirituale colla sua.
«Una nota speciale del suo ministero, espressione di un doppio intuito dello spirito del Vangelo e del bene sociale, era l’amore che egli portava alla gioventù. I primi passi della sua carriera sacerdotale furono anzi nella fondazione e nella direzione di un Collegio maschile, e chi ebbe il bene di averlo rettore, ritraendo il frutto duraturo di una cristana educazione, ricorda con riconoscenza il suo indirizzo, misto di fermezza e di dolcezza. Molte scuole private e pubbliche l’ebbero catechista: fu per molti anni direttore spirituale dell’importante Collegio della Guastalla, e a più riprese e in difficili circostanze, direttore spirituale e catechista nell’Orfanotrofio Maschile, pregato istantemente di mutare in permanente la sua provvisoria prestazione.
«E i bambini dell’Asilo Infantile di via Chiossetto, che l’ebbero per molti anni ispettore? Oh con quale amore egli si portava, si intratteneva in mezzo di loro, si rendeva conto di tutti i loro bisogni, li abbracciava, li baciava: Gesù Cristo osservandolo doveva essere lieto di vedere nel suo sacerdote ripetuta l’immagine sua!
«L’amor della Chiesa non si scompagnò nell’animo suo dall’amor della patria: giovine di età nel momento eroico del Risorgimento Nazionale, egli vi partecipò con tutto lo slancio dell’animo: la sua casa era come il fidato convegno di altri sacerdoti dello stesso spirito; ed egli ebbe la compiacenza di vedere negli ultimi anni accettato, benedetto dalle Autorità superiori della Chiesa, il programma, che unisce insieme i due ideali della sua vita: Religione e Patria. Il momento attuale, che ha fatto potentemente rivivere il sentimento patrio nel cuore della nazione, ritrovò ancora giovine il suo cuore; fin nell’ultimo giorno di vita volle essere informato delle vicende della guerra che, colla grandezza della patria, col trionfo della civiltà cristiana porta indirettamente il bene della Chiesa.
«Nominato l’anno scorso Prefetto di S. Celso tutti applaudirono a quella nomina come un giusto compenso ai meriti del distinto sacerdote: accompagnato dall’amore de’ suoi antichi parocchiani, che, sebben lontano, lo invocavano spesso pei loro bisogni spirituali; col suo zelo, col suo criterio, col suo spirito equanime, egli aveva veduto una nuova aureola di stima e di affetto, formarsi intorno a lui nel luogo nuovo del suo ministero: l’anima sua intimamente pia si trovava come all’unisono con un Tempio così caratteristico per la pietà dei Milanesi verso Maria: il Santuario elevava lui; egli avrebbe elevato il Santuario.
«Quanto bene avrebbe ancor potuto fare! Iddio altrimenti dispose: lo trovò già pronto pel premio in cielo. Ed egli fu pronto e sereno alla chiamata: un solo dolore lo afflisse, il pensiero di lasciare qui sola la sorella, colla quale aveva sempre diviso e divideva, in stretta comunanza di aspirazioni e di affetti, la vita:
«Povera sorella, a te vola in questo momento il mio memore pensiero, col pensiero di tutti gli astanti: la sventura che ti ha colpito è ben grave: ma quanti motivi hai di conforto: pensa che il tuo dolore è diviso da tutti: pensa che il bene, che il tuo fratello faceva, continua, nel buon esempio che ha lasciato, nel ricordo perenne delle anime credenti e pie: pensa che se tu non l’hai più al tuo fianco colla persona, l’hai sempre vicino a te col suo spirito. La vita presente è un’ombra che passa: la sola vera realtà è il cielo: egli è là che prega e ti attende.
«Caro amico, addio: jeri ho deposto un bacio sulla tua fredda fronte, un bacio che non fu corrisposto: voglia Gesù Cristo, pel suo amore e pe’ suoi meriti infiniti, disporre che quel bacio tu me lo abbia a corrispondere un giorno, che non può essere troppo lontano, nell’abbraccio eterno del cielo!».
- ↑ Un religioso che in preghiera aveva avuta visione simbolica dell’apostolato del Giunta.
- ↑ Comte de Motalembert, Histoire de S. Élisabeth de Hongrie. Douxieme édition, tonte premier, pagg. 248-249. Paris, Ambroise Bray, 1867.
- ↑ Un volume di 504 pagine; Milano, Tip. Santa Lega Eucaristica, 1911. — Prezzo L. 3. — Vendibile anche presso la Casa Edit. L. F. Cogliati.