Il caos del triperuno/De aurea urna qua includitur Eucharistia

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De aurea urna qua includitur Eucharistia

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De aurea urna qua includitur Eucharistia
Selva terza Indice

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DE AVREA VRNA

qua includitur Eucharistia

Urnula, quam gemmis auroque nitere videmus,
quaeritur angusto quid ferat illa sinu.
Haud ea, pestifero Pandorae infecta veterno,
intulit omnivagas orbe adaperta febres!
At pretium, quo non aliud pretiosius, ipsa haec
quod rerum amplexus non capit, urna capit.

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MIRA DUORUM AMICITIA

F ortius an posset domus A rdua calce tener I,
R oboraque an piceum fir M a ratis oblita glute N,
A rctius, amborum, ut vide O, se vestra catheni S
N ectere amicitiae tum R arae pectora? et alt O
C olle fidem vestram stabile E rexisse tribuna L?
I nstat enim quercum dum T aurus veliere corn V,
S axaque spumosis in F luctibus ardua dum su B
C autibus unda quatit, magis I ma e sede mover I
O mnia tunc possent, quam D ivum haec unio, qua ni L
R ectius humanis viget, E t ferit aethera laud E,
UM braque post cineres con S tat per saecula grandi S.


de Georgio Anselmo

G randi vectus equo ruit E cce Georgius, hast A
E recta in colubri le T hum, cui guttur et ingue N
O ra per abrumpit tum in D ignos virginis artu S
R egalis bibitura. Quod E t tibi nomen honosqu E
G loriaque obtingit, iacu L is cum, Phoebe, nigrum fe L
I ngentes per agros furis I n pytona vomente M
V atem ergo ad tantum facit U num id nomen, ut act V
S it pro eodem Phoebus ver S u tituloque Georgiu S


tumulus marci

F elicem ingenio, lin G ua, patria, patre, Marcu M
I mmatura secat mors E cce, tuumque sub arc A
L umen obiisse gemis, stirps O Cornelia, nec cu R
I ngratae possis te R omae credere postha C
V ideris: ipse quidem dum G rato ad maxima vult V
S ceptra galeratus volat, I tur. . . . . . . . . . .1 S.


  1. Lacuna in tutte le edizioni [Ed.].
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A l'integerrimo signor Alberto da Carpo

Signore mio, l’altissima cui fama
sin oltra ’l ciel ottavo s’alza e gira,
amor mi sprona e la ragion mi tira
dir quanto in terra ognun v’onora ed ama.
E mentre son per adempir mia brama,
giungendo rime al sòn di bassa lira,
mi resto e dico: — Ahi! mente mia delira,
che gir ti credi ove ’l desio ti chiama!
Chi salirá tant’alto? né la lingua
di Tullio e di Virgilio l’aurea tromba
potria montar di sua vertude al giogo! —
E pur, come che ’l stile mio soccomba
a quell’altezza tanta, non si estingua
di lui cantar un desioso fuogo.

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Ad un altro Alberto da Carpo

di tal nome indegno

limerno

Caro germano, potriati facilmente pervegnire a le orecchie che, favoleggiando noi, Fúlica e Triperuno insieme, ed io con loro, de la miracolosa dottrina de uno asino, mi occorse adducerti in testimonio o sia esempio di coloro li quali, non sapendo parlare, si intromettono temerariamente fra gli saputi e savi uomini a ragionare de li altrui fatti e costumi, volendosi elli con lo biasmar altri mostrarsi di qualche onore e reputazione degni. E perché tu da me ti chiamarai forse oltraggiato essere e vituperato, ti rispondo, nanti tratto, che con l’altre tue bone condizioni matto ancora ti mostrarai, quando in te non voglia patire quello che in altro giammai non cessi adoperare, io dico ne l’altrui fama e onore. Dimmi, uomo dappocaggine che tu ti sei, con che ragione, con che giustizia, con qual caritade tu con quell’altro che fiorentino si fa, Sebastiano «puzzabocca», e con altri toi simili furfanti, a li quali ben sta quella sentenzia del mio barbato Girolamo: «Possident opes sub paupere Christo, quas sub locuplete diabolo non habuerint»; per qual, dico, necessaria cagione non mai vi straccate di cercare far danno ne la fama ed onore del giovene innocente Triperuno? in che cosa egli vi offende, diavoli che voi siete? Ah maladetta rabbia di questa invidia! come se indraca piú, come se invipera nel sangue innocente, perché sa, perché vede lui aver posseduto di libertade lo paradiso terrestre, de lo evangelio la luce anti smarrita, d’un Orso mansuetissimo la grazia! Roditi dunque da te istessa, o conscienzia diabolica, la quale, per tua soperbia, lo perduto seggio a l’uomo esser donato vedi! Lasciatelo stare in vostra [p. 387 modifica] malora, arrabbiati cani, ché egli non pur non vi offende, ma si sdegna pensar cosí bassamente de voi, malvagi e invidiosi spiriti, non tutti dico, non tutti appello, anzi lodo e reverisco li uomini quantunque rari conscienzienti. Ma tu, Alberto, al quale un tal nome di quello non pur accostumato e saputo signore ma profondissimo filosofo cosí conviene come ad uno asino la sella d’un bel destriero, per mio consiglio studiati avanti di meglio raffrenar la lingua, che non facevi lo tuo cavallo grosso, al tempo de le barde, essendo soldato vecchio; che noi facendo, mostrarotti una penna di oca piú eloquente essere che la lingua d’uno baboino. Guardati!

fine del volume primo.