Il metodo dell'economia pura nell'etica/III

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Capitolo III

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II IV


Posto, adunque, che fosse costruita questa Scienza pura della giustizia, si potrebbero muovere ad essa, fondandole sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali: di essere una costruzione arbitraria, oziosa e, in ogni caso, monca.

Di queste obbiezioni occorre chiarire la portata.

1. - L’arbitrarietà della costruzione supposta può essere intesa in due sensi: nel senso che la validità delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il cui valore è bensì assunto come un dato di fatto, ma senza una ragione perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difforme dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata universalmente e costantemente all’esigenza della giustizia.

a) Se si intende l’arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è arbitraria; perché il valore del postulato fondamentale (ossia del motivo, o del fine, o del criterio di valutazione) quale si sia, è sempre ammesso o assunto, ossia si suppone o si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica può compiere il miracolo di obbligare ad accettarlo. Perché, la ragione perentoria — se è una ragione — non può consistere che nel ricondurre il valore del postulato a quello di un altro fine o di un’altra esigenza ulteriore, della quale si ammette o si suppone ancora che la validità sia riconosciuta. E se si dice che è proprio del fine o dell’esigenza morale il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si ammette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l’esigenza è riconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente, appunto perché vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è sempre in ultima analisi il valore morale dell’esigenza che è preso come un dato primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso, qualsivoglia dottrina etica è, perché etica, arbitraria.

Se poi si pone come caratteristica del valore morale la possibile validità universale della massima corrispondente, nessuna esigenza è più radicalmente universale di quella che esprime la condizione stessa di questa possibilità.

b) Che all’esigenza assunta sia o no riconosciuto in effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda o non corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato della realtà psicologica rivelato dall’analisi della coscienza morale, è una questione diversa. E se l’arbitrarietà s’intende in questo secondo senso, come difetto totale o parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non nel considerare come morale l’esigenza della giustizia, ma nell’assumere questo motivo come il motivo morale, mentre la realtà empirica ne presenta anche altri; e nel considerarlo isolato da questi, mentre nella realtà sono più o meno strettamente connessi e cooperanti o contrastanti con quello.

Non ho nessuna difficoltà a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo rispetto, arbitraria; al modo stesso che è sempre più o meno arbitrario qualunque sistema di deduzioni ricavate da un’ipotesi. Ma un’arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché non si pretende che essa esprima la realtà del mondo morale dato; e finché la costruzione si dà per quel che è, cioè per una scienza che sarebbe la «vera scienza» della morale com’è, se le condizioni dell’ipotesi rispecchiassero la realtà. — Intendo quel che si può dire: — Perché supporre che il motivo ege- monico sia la giustizia, e non un altro, poniamo il motivo altruistico? O, meglio, perché non assumere come motivi morali, o rispondenti all’esigenza morale, tutti i motivi che la realtà psicologica rivela valere in effetto come tali? La risposta all’una e all’altra domanda non è difficile.

L’assumere come rispondenti all’esigenza morale i criteri molteplici che si rivelano nelle norme empiricamente date come morali costringerebbe in ultimo ad assumere l’esigenza stessa morale come in sé contraddittoria e a costruire non una scienza, ma una veste da Arlecchino. Perché la morale empiricamente data rivela criteri non di rado opposti, e del medesimo criterio le applicazioni più artificiose e variabili1. Ora, che, l’esigenza morale possa comportare criteri diversi e anche opposti di valutazione senza cessare di essere morale, si potrà anche ammettere (purché si sia disposti ad accettarne le conseguenze); ma nessuno vorrà sostenere che si possa, assumendo criteri contraddittori, costruire una dottrina coerente.

Bisogna dunque scegliere; e la scelta del motivo della giustizia, se è arbitraria in quanto è scelta di uno fra più, non è arbitraria in quanto manchino le ragioni della scelta. Poiché è facile rilevare che il motivo della giustizia è il solo al quale si possa supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente tutta la condotta senza che l’osservanza da parte degli uni richieda o presupponga l’inosservanza da parte degli altri. L’altruismo, come fu già notato, non potrebbe essere osservato universalmente, se non a patto che fosse subordinato alla sua volta a una norma di giustizia. Infatti, affinché sia possibile l’abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agli altri, bisogna che gli uni si sacrifichino e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio; cioè bisogna che gli uni osservino la massima dell’altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba poter sacrificarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eliderebbero) bisogna che la condotta altruistica di ciascuno non impedisca una pari condotta altruistica degli altri; cioè bisogna che l’attività altruistica alla sua volta sia governata da una norma di giustizia.

Ciò viene a dire che la famosa formula kantiana, se si considera nella possibilità della sua applicazione simultanea per tutti a tutta la condotta esterna non è suscettiva d’altra interpretazione che di massima universale di giustizia nel senso sopra chiarito2.


***


2. — Assumetelo dunque, se così vi piace, codesto vostro postulato, e costruitevi la vostra Scienza pura della giustizia. Che ne farete poi? —

A che cosa propriamente potrebbe servire, costruita che fosse, non si può con esattezza determinare in precedenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta, o, piuttosto, a mano a mano che si venga facendo. Troppe ricerche del resto non si farebbero se si aspettasse di averne dimostrato l’utilità; e di troppe altre i risultati portarono frutti del tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riuscisse inconcludente, nessuno dirà che sia né la prima né l’unica in questo genere, specialmente nel campo della morale. E tra le molte curiosità, perché non dovrebbe trovar posto anche questa: di sapere come andrebbero le faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita soprattutto e prima di tutto giusti?

Ma è pur naturale d’altra parte che debba intravvederne almeno qualche possibilità di applicazione chi la propone, e che ne debba dire qualche cosa.

Le applicazioni possono essere principalmente due: come mezzo di interpretazione o di sistemazione scientifica della realtà morale data; e come fondamento di una disciplina precettiva; ossia di un’Etica applicata della giustizia.

a) Se l’osservazione psicologica dimostra che è arbitraria, nel senso che s’è detto, l’assunzione del motivo della giustizia come unico motivo morale, dimostra pure che quel valore gli è però realmente riconosciuto; e che, se non si riconduce ad esso effettivamente ogni valutazione etica, esso entra però come elemento o fattore di valutazione in qualunque giudizio morale. Può essere dunque opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero unicamente ad essa; e considerare con un artifizio di cui tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come deviazioni o limitazioni risultanti dalla presenza di altri motivi, le norme che non coincidono con quelle astrattamente dedotte.

Sarebbero per un verso da considerare come tali le norme della condotta politica interna ed esterna ispirate dall’interesse dello stato, o del maggior numero, o di una classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia attribuito valore morale3.

E sarebbe, per un altro verso, possibile interpretare le norme della beneficenza come espressioni della stessa esigenza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano l’inosservanza, e le deviazioni o le limitazioni.

b) Ma l’applicazione più rilevante riguarderebbe l’Etica propriamente intesa come disciplina normativa.

La «Scienza pura della giustizia» appunto perché considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini equivalenti, fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna che ne impedisca o ne limiti l’efficacia, configura un sistema di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle condizioni contemplate dall’ipotesi; vale a dire non sono suscettive di applicazione, sic et simpliciter, a condizioni diverse. Ma se si ammette che l’ordine di relazioni ipoteticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette come normativa l’esigenza della giustizia, vi sarà luogo a cercare e a determinare (benché questa determinazione debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e complicata) quale sia in condizioni reali storicamente date la condotta, che nei limiti imposti da queste è più atta a favorirne la trasformazione nella direzione segnata dalle condizioni ideali contemplate nell’ipotesi.

Ossia si potrà ricavarne un’Etica applicata della giustizia, alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei mezzi ai quali deve adeguarsi, per essere praticamente efficace, la condotta rivolta a quel fine; così come darà la conoscenza delle varie specie di attività che l’esigenza della giustizia è chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla forma della giustizia il contenuto materiale.

E le norme, così ricavate da questa applicazione a una realtà data delle leggi della giustizia pura, saranno valide, se si accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè precedente a ogni altro fine generale e speciale, l’attuazione del sistema di relazioni contemplato da quella, e come morale la condotta corrispondente.


Note

  1. Tralasciando pure di insistere, come già ho osservato altrove, perché è cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti, tragici talvolta, tra i «doveri» familiari e i «doveri» sociali, bisogna osservare che le norme date e accettate come morali possono contemplare e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi, derivate, le quali esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a cercare quale sia la posizione migliore per il portante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo. Il criterio seguito qui è un criterio di equità; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere tutte le comodità per sé senza tenere in conto le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito nello stabilire la condotta migliore, data quella condizione diversa dei due) fosse applicato a determinare la relazione tra i due, prima che siano divenuti rispettivamente portatore e portato, questa condizione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle proprie gambe. Ossia la norma morale regola nel caso supposto un rapporto che non esisterebbe o sarebbe al tutto diverso, se essa fosse applicata al sorgere di quel rapporto.
  2. In un Saggio originale e suggestivo, che vale bene più di qualche grosso volume inconcludente, Mario Calderoni illustrò recentemente una concezione economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giustamente come la maggior parte delle azioni «virtuose» non siano considerate come tali se non perché «sono prodotte in quantità inferiori alla domanda»: e son per noi un «dovere» appunto perché gli altri uomini non le fanno, e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e volenterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la conseguenza che la formula di Kant è del tutto inapplicabile.
    Ora è certo che il Kant intendeva di parlare di validità universale del motivo a cui si informa l’azione, la quale può essere quindi variabile secondo le circostanze pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta: e che non può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si tratti della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni esterne.
    Ma quando si supponga avverato questo caso, si troverà che l’unico motivo il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo della giustizia; e che intesa così, la formula di Kant resisterebbe alla critica anche dal punto di vista del Calderoni. (Disarmonie economiche e Disarmonie morali, Firenze, Lumachi, 1906. Ved. Cap. III: La marginalità nella Morale).
  3. Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella trattazione teorica — certe contraddizioni o antinomie, davanti alle quali si arrestano solitamente i filosofi del diritto quando ne determinano le «esigenze razionali».