Il tesoro della Montagna Azzurra/IV - La zattera

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IV — La zattera

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IV — La zattera


Il capitano aveva appena dato l'ordine, che già tutto l'equipaggio, sotto la direzione del bosmano e del carpentiere di bordo, armatosi di scuri e di seghe, smontava l'alberatura e le murate per preparare il materiale necessario alla costruzione della zattera. Lavoravano con vero furore, spronati dal timore di dover soffrire la fame prima di approdare alla Nuova Caledonia. Cento miglia non erano un gran che, ma su una zattera potevano diventare enormemente lunghe. E poi poteva sopraggiungere una nuova bufera. Il sole si era alzato splendido, tuttavia il cielo non era del tutto sgombro verso ponente e il vento soffiava ancora irregolarmente. Anche il barometro non rassicurava troppo e non saliva che con grande fatica. A mezzogiorno i travi inferiori degli alberi, i soli che la tromba marina aveva risparmiati, cadevano in mare, insieme a una enorme quantità di legname strappato alle murate del casotto di poppa, alle cabine del quadro e a un certo numero di barili e di botti destinate a rendere la zattera più leggera. Subito metà dell'equipaggio, con il carpentiere, si era impossessato di tutto quel materiale, formando lo scheletro del galleggiante. Fortunatamente il mare era abbastanza tranquillo, ciò che permetteva di procedere rapidamente alla costruzione. Alle tre del pomeriggio la prima piattaforma era finita e alle cinque anche la seconda era a posto, formata con gli usci delle cabine e con i boccaporti.

— È il momento di prendere il largo, — disse don Josè che osservava, non senza una certa inquietudine, il cielo. — Questa calma non mi persuade affatto e vi dico che di colpi di vento ne avremo ancora, prima di vedere le coste della Nuova Caledonia. Che cosa ne dici tu, bosmano, che hai sempre un barometro in testa?

— Eh! — fece il vecchio, facendo un gesto vago. — Tutto non deve essere finito, a quanto pare. Imbarchiamoci alla lesta, capitano. Saremo più sicuri sulla zattera che non su questa carcassa immobilizzata.

— Giù le provviste! — comandò don Josè.

— Le abbiamo in tasca, — risposero i marinai.

— L'acqua?

— Abbiamo già calati tre barili di cento litri ciascuno, — disse Reton.

— Prima la señorita, allora.

Mina si aggrappò saldamente a una fune e si calò sulla zattera, sulla quale si trovavano radunati già alcuni marinai che erano occupati a rizzare un pennone che doveva servire a una vela. Pedro fu il secondo, poi a loro volta si calarono i marinai portando le carte e gli strumenti di bordo. Non erano rimasti sull'Andalusia che il capitano ed Emanuel.

— Sbrigati, — comandò il primo. — Che cosa aspetti?

— Se voi capitano me lo permettete, — disse il giovane, — preferirei rimanere qui a guardia della vostra nave.

— Tu sei pazzo!

— Forse meno di quello che credete, capitano. Mio padre un giorno naufragò non so su quale scogliera della Terra del Fuoco e si salvò solo perché era rimasto a bordo della nave, mentre dei suoi compagni, che si erano affidati a una zattera, non si udì parlare mai più.

— Questione di fortuna.

— Lasciatemi provare dunque.

— Io non ho fiducia nella fortuna e perciò non commetterò la sciocchezza di lasciare qui il mio mozzo... Tu non sei ancora un uomo e io rispondo della tua vita. Scendi sulla zattera, ti dico, o ti afferro e ti getto giù.

— Capitano! — esclamò Emanuel. — Ho diciassette anni!

— Se tu ne avessi anche venti non ti lascerei egualmente qui... Giù, comando io qui!

Il mozzo borbottò qualcosa, poi vedendo che don Josè avanzava per afferrarlo, si aggrappò alla fune calandosi rapidamente sulla zattera.

— Troveranno il segnale, — borbottò, mentre un lampo maligno gli balenava negli occhi nerissimi.

Il capitano, dopo aver percorso tutta la tolda della sua povera nave, si calò a sua volta sul galleggiante, mormorando a più riprese:

— Addio, mia povera Andalusia!

Quando mise i piedi sulla zattera era molto commosso. Diede con voce ferma il comando di troncare la gomena, l'ultimo legame che ancora li univa all'Andalusia. L'albero, formato da un robusto pennone di gabbia, era stato rizzato, spiegando una vela di pappafico, l'unica trovata a bordo. La zattera, investita da un fresco vento di sud-est, si staccò dalla nave, rollando fortemente e lasciando addietro una grossa scia spumeggiante. Avanzava però lentissima, e il bosmano la dirigeva con un lungo remo, che bene o male, gli serviva da timone. Il capitano, dopo aver dato la rotta, avendo portato con sé le bussole e anche gli strumenti necessari per il punto, si era diretto verso poppa dove il carpentiere aveva fatto rizzare un pezzo di murata, per mettere al coperto dalle onde almeno il timoniere. Mina e don Pedro si trovavano là anche loro, l'uno accanto all'altra, guardando con occhi pieni di tristezza l'Andalusia sempre inchiodata sulla scogliera.

— Coraggio, ragazzi, — disse don Josè, posando le mani sulle loro spalle. — La baia e l'isola di Bualabea non sono lontane: se Dio lo permette, fra tre o quattro giorni sbarcheremo alla foce del Diao. E la tribù dei Krahoa e la Montagna Azzurra non si trovano appunto presso le sorgenti di quel fiume?

— Sì, don Josè — rispose il giovane.

— Voi conservate il talismano?

— Lo porto sul mio petto.

— Perdete tutto fuorché quello, poiché altrimenti invece di acquistare il tesoro accumulato da vostro padre, potreste acquistarvi una buona graticola per arrostirvi.

— Lo so che ai kanaki piace la carne umana.

Mil Diables! La ritengono più squisita di quella dei loro maialetti.

— E non incontreremo, prima di raggiungere la sorgente del Diao, altre tribù che non avranno nulla a che fare con i Krahoa?

— È possibile don Pedro, e per questo ho fatto imbarcare sulla zattera una mezza dozzina di carabine e più di trenta libbre fra polvere, piombo e pallettoni.

— Purché non arrivi prima don Ramirez, — osservò Pedro, che era diventato pensieroso. — Quello ha del coraggio da vendere e non ha scrupoli.

— Lo so, — rispose il capitano.

— Come vedere, don Josè, dobbiamo sbarcare il più presto possibile.

— Se quel maledetto uragano non ci avesse sorpresi, questa sera avremmo potuto dormire tranquillamente nella baia di Bualabea, al sicuro fra l'isola e la costa della Nuova Caledonia. Non è però il caso di guastarci il sangue per ora. Forse quel galeotto di Ramirez è ancora lontano. Possiede una buona goletta, mi avete detto?

— La migliore di tutte quelle che navigano fra Iquique e Valparaiso.

— Anche la mia Andalusia filava come una rondine. L'avete vista alla prova... Lasciamo per il momento il tesoro della Montagna Azzurra e don Ramirez e occupiamoci della zattera.

Veramente non ce n'era bisogno, poiché il galleggiante filava discretamente bene, nonostante dovesse rimorchiare una dozzina di grossi barili. Però andava alla deriva verso settentrione, malgrado gli sforzi del bosmano, a causa della velatura imperfetta e della sua mole. Il mare fortunatamente era tranquillo. Solo di quando in quando una lunga ondata, piuttosto violenta, giungeva da levante e scuoteva il galleggiante facendolo scricchiolare minacciosamente e mandando a gambe all'aria i marinai, specialmente quelli che stavano lungo l'orlo della zattera con la speranza di sorprendere qualche pesce, muniti di fiocine che potevano servire benissimo contro gli sword-fish che abbondano in quei mari. Nessuna terra e nessuna nave appariva in vista, nemmeno una di quelle doppie piroghe delle quali si servono gli isolani del Pacifico e che si allontanano spesso dalle isole per parecchie centinaia di miglia. Solamente pochi uccelli marini svolazzavano rapidissimi e tenendosi anche ben lontani dal galleggiante, come se si fossero accorti che la loro vita era in pericolo. Poiché il caldo si era fatto intensissimo, don Josè, che non si era dimenticato di far imbarcare alcuni pennoncini, delle manovelle, dei cordami e dei velacci, aveva fatto innalzare verso poppa una piccola tenda destinata a Mina. La fanciulla non sembrava preoccuparsi un gran che dei gravi rischi che correvano i naufraghi. Forse non aveva ancora ben compresa la gravità della situazione e credeva si trattasse semplicemente di una breve passeggiata su quel galleggiante, che per lei non differiva molto dalla tolda dell'Andalusia. Seduta davanti alla tenda, chiacchierava tranquillamente con Emanuel, per il quale aveva una predilezione per il suo inalterabile buonumore. A mezzogiorno don Josè, dopo aver fatto il punto e avere verificato che la zattera aveva guadagnato nella mattinata undici miglia verso ponente, marcia sufficiente se si tiene conto della forte deriva, procedette alla prima distribuzione dei viveri: dodici biscotti divisi fra diciassette persone con pochi grammi di formaggio salato per ciascuno. La razione d'acqua però fu abbondante, essendo stati imbarcati cinque barili ben pieni e quella fu forse meglio accolta dei viveri, perché il caldo era molto forte. Durante il pomeriggio la marcia della zattera si ridusse quasi a zero, dato che era sopraggiunta una calma assoluta, che non doveva cessare che dopo il calar del sole e che il capitano, pratico di quelle regioni, aveva già previsto. I marinai tentarono di rifarsi di quell'ozio forzato pescando, ma con completo insuccesso. Nessun sword-fish si era fatto vedere, nemmeno un pesce veliero. Parere che perfino gli abitanti del mare, come quelli dell'aria, si tenessero ben lontani da quella zattera della fame. Dopo il tramonto il vento tornò a farsi sentire, ma non soffiava più da sud-est, ma da settentrione, ciò che richiedeva una manovra faticosissima e con nessun vantaggio per i naviganti.

— Si direbbe che il cielo congiura contro di noi, — disse don Josè a don Pedro. — E pensare che non abbiamo viveri che fino a domani!

— E che siamo destinati a provare le torture della fame se non quelle della sete?

— Sono sempre preferibili, don Pedro, — rispose il capitano. — Alla fame, per un certo tempo, si può resistere. Alla mancanza d'acqua, sotto questi climi infuocati, assolutamente no.

— E nulla da pescare!

— I pescicani non tarderanno a mostrarsi nelle nostre acque. Quei dannati fiutano i naufraghi a distanze incredibili: purtroppo non si lasciano accostare. Bah! Chissà che domani le cose non cambino.

Poiché erano tutti molto stanchi e avevano rinunciato alla manovra delle bordate per non affaticarsi inutilmente, si coricarono in mezzo alle tele e ai barili, dopo aver messo quattro uomini di guardia sotto il comando del bosmano, dato che poteva accadere che qualche nave in rotta per l'Australia settentrionale passasse in vista della zattera. Fra gli uomini di guardia era stato scelto anche il mozzo, che godeva fama di avere una vista meravigliosa. Il chiquiyo, come lo chiamava Reton, a cui non si sa per quale motivo era sempre stato antipatico, si era seduto sull'estrema sponda tenendo i piedi immersi nell'acqua, senza curarsi dei pescicani che potevano emergere da un momento all'altro e troncarglieli. Guardava attentamente in tutte le direzioni, non dimenticandosi di volgersi di quando in quando indietro per non perdere di vista i suoi camerati che stavano a poppa, presso il lungo remo che serviva da timone, discutendo con il bosmano. Ogni tanto canterellava sottovoce, poi bruscamente si interrompeva per dare una rapida occhiata dietro le spalle. Era una buona mezz'ora che si trovava in osservazione, quando sollevò una tavola della piattaforma traendone sette o otto pezzi di sughero, di forma piatta, simili a quelli che i balenieri chiamano doghe, e che nel mezzo portavano, segnata rozzamente con un ferro infuocato un'A.

— Le correnti e i venti le disperderanno, — mormorò. — Ne ho gettate già più di duecento in quindici giorni. Possibile che nessuna sia stata raccolta? Oh, mio caro bosmano, il chiquiyo, sebbene giovane, è più chiquiyo di quello che tu credi!

Gettò uno di quei pezzi di sughero, osservando la direzione che prendeva, poi ne gettò, a intervalli di cinque o sei minuti, altri quattro. Stava per lanciare il sesto, quando una mano pesante gli piombò su una spalla mentre una voce rauca, quella del bosmano, gli domandava con tono minaccioso:

— Ehi, mozo cocido, che lavoro misterioso, stai facendo?

— Oh, siete voi, Reton? — rispose il giovane marinaio senza voltarsi. — Come vedete, getto in mare dei pezzi di sughero.

— Perché?

— Per vedere se qualche sword-fish li abbocca. Ho una fiocina presso di me e vi assicuro che so servirmene.

— Dove hai trovato quelle doghe?

— In mezzo alle vele e ai cordami.

— Non sapevo che ce ne fossero a bordo.

Il mozzo alzò le spalle.

— Ciò non mi riguarda. Io non cerco altro che di sprofondare la mia lancia nel ventre di quei pesci deliziosi.

Il bosmano, soddisfatto di quella risposta, riaccese la pipa e tornò verso i camerati che stavano accoccolati presso il timone, consumando anche loro le ultime foglie di tabacco. Non aveva così potuto notare né il lampo maligno, né il sorriso ironico di Emanuel. La zattera intanto continuava ad avanzare lentamente, o meglio, a spostarsi verso settentrione, essendo la brezza irregolare e debole. Di quando in quando giungeva la solita ondata, il cavallone eterno del Pacifico che si ripercuote incessantemente sulle coste dei due continenti: l'Asiatico e l'Americano, e che più che altro sembra causato dal flusso e riflusso. Il galleggiante si scuoteva bruscamente, obbligando gli uomini di guardia ad aggrapparsi alla piccola murata poppiera o ai cordami dell'albero, poi ritornava ad acquistare il suo equilibrio più o meno perfetto. Alle undici la luna sorse, ma invano il bosmano e i suoi compagni aguzzarono lo sguardo con la speranza di scorgere qualche nave o qualche isola. L'immensità deserta avvolgeva i naufraghi come se fossero lontani molte migliaia di miglia dalle terre abitate.

— Amici, — disse Reton, scotendo più volte la testa, come era sua abitudine. — Se per domani sera non incontriamo qualche isola o qualche veliero, domani l'altro saremo costretti a stringerci per bene la cintura.

— Che la Nuova Caledonia sia scomparsa? — chiese un marinaio. — Eppure il capitano aveva affermato che solo qualche centinaio di miglia ci dividevano da quella terra!

— Siamo zoppicanti, mio caro, e questa carcassa preferisce riposarsi invece che navigare.

— Che siamo destinati a far la fine dell'equipaggio della Medusa?

— Non mi fare accapponare la pelle, amico.

— Non ne ho alcuna intenzione. Dico solo che se continua così, chissà come finiremo?

In quell'istante un grido strano, che sembrava una nota metallica, echeggiò sul mare, giungendo distintamente agli orecchi degli uomini di guardia. I marinai erano balzati in piedi, spingendo lo sguardo in tutte le direzioni, mentre a prora si faceva udire la voce beffarda di Emanuel che diceva:

— Ehi, bosmano, avete udito il diavolo?

La luna, che si era alzata già molto sull'orizzonte, illuminava l'Oceano quasi come fosse l'alba, eppure nessun essere vivente si vedeva galleggiare sulla superficie argentea.

— Che ci siamo ingannati? — aveva chiesto finalmente il bosmano. — O che quel furfante di Emanuel abbia detto il vero?

— Il grido l'abbiamo udito tutti, è vero, compagni? — chiese un marinaio.

— Sì, sì, Alonzo, — risposero gli altri.

— Zitti, — disse il bosmano.

Trascorse qualche minuto, poi il grido di prima, più tagliente, più vibrante, si fece nuovamente sentire.

— Un dugongo! — esclamò il bosmano, facendo un salto. — Ecco la nostra salvezza!

— Purché possiamo catturarlo, — disse Alonzo.

— Quattro o cinquecento chilogrammi di carne squisita, — continuò il bosmano.

— Da mangiarsi cruda, se non vorremo bruciare la zattera.

— Basta non morire di fame.

Per la terza volta il grido si ripeté, poi un fiotto d'argento si sollevò a circa quattrocento metri dalla prora della zattera e tutti poterono scorgere un grosso corpo nero mostrarsi per un istante alla luce lunare, quindi scomparire.

— Amici, le carabine! — gridò il bosmano. — Doppia razione a chi lo colpisce.

Un marinaio si precipitò dietro la piccola tenda dove riposavano il capitano, don Pedro e Mina, e da una cassa aveva levato quattro fucili dalla canna lunghissima e dal calcio pesante, laminato in ferro.

— Sono carichi, — disse, distribuendoli ai compagni.

— Aspettiamo che si mostri, — rispose il bosmano. — Io, per mio conto, sono quasi sicuro del mio colpo, quantunque quel mammifero si trovi a una bella distanza. Certo che se avessi un paio di palle incatenate sarei più sicuro di colpirlo.

Tutti e quattro in piedi sull'orlo della zattera, spiavano attentamente la comparsa del mostro marino. È una specie di balenottero per le dimensioni, con una testa strana, che finisce come una specie di tubo. A differenza degli altri pesci allatta i piccoli e si incontra non di rado nei mari equatoriali. La sua cattura, come aveva giustamente detto il mastro, sarebbe stata la salvezza dei naufraghi. Seicento chili di carne, squisita quanto quella di un vitello. Pareva però che il mammifero si fosse accorto che quegli affamati contavano sulla sua morte per rifarsi dei primi patimenti, poiché si manteneva ostinatamente sommerso. Non mostrava che l'estremità del muso e solo per qualche istante, rendendo la mira impossibile. Quando sporgeva le narici e la bocca, lanciava, e sempre con maggior vigore, quelle note stridenti che avevano impressionato gli uomini di guardia.

— To'! — esclamò il bosmano, dopo cinque o sei minuti di attesa. — Io non ho mai udito in vita mia un dugongo urlare tanto. Che sia ferito o innamorato?

— Innamorato? — chiese Alonzo.

— Tu non hai mai udito i capodogli quando sono in cerca della femmina, — rispose il bosmano. — Urlano come belve feroci e anche i dugonghi manifestano a quel modo il loro amore.

— O che sia invece ferito, come hai detto? — chiese un altro marinaio. — Io credo bosmano, che tu abbia indovinato.

— Perché?

— Ho visto or ora delle scie apparire e scomparire là dove nuota il dugongo.

— Se ci sono dei pescicani laggiù non contate sulla colazione, amici, — rispose Reton. — La faranno loro invece di noi.

— Eppure non devono essere squali quelli che danno la caccia al dugongo! — esclamò Alonzo che osservava attentamente, tenendosi ritto su un barile. — Si vedrebbero le bocche fosforescenti di quegli animalacci, mentre non vedo che i raggi della luna riflessi sull'acqua.

— Ragione di più per ingannarsi, — disse Reton.

In quell'istante il dugongo lanciò un urlo così acuto da svegliare perfino il capitano, il quale fu pronto ad accorrere armato di un paio di pistole.

— Il povero mammifero è stato colpito, — osservò il bosmano.

Il capitano, informato di quanto accadeva, mandò a svegliare l'equipaggio per spingere la zattera là dove si svolgeva di certo qualche dramma marino. Voleva arrivare sul posto prima che i pescicani, ammesso che si trattasse di un assalto di quegli squali, avessero divorata interamente la gigantesca preda. I quattordici marinai, armatisi di manovelle e remi, si misero ad arrancare furiosamente, spingendo avanti, molto lentamente però, il pesantissimo galleggiante. Le urla del dugongo si ripetevano, ma sempre più deboli. Certo il disgraziato mammifero si esauriva. Si vedeva distintamente il luogo dove si trovava, poiché là si sollevavano di tanto in tanto delle ondate spumeggianti che si allontanavano in semicerchio. Don Pedro e Mina, avvertiti che l'equipaggio stava per assicurarsi una buona provvista di viveri, erano usciti dalla tenda per assistere alla cattura del mostro. Non doveva avvenire però tanto presto, poiché la zattera, malgrado gli sforzi disperati dei rematori, non riusciva a guadagnare che pochi metri ogni tanto. Sarebbe stato necessario un equipaggio triplo per spingere quella carcassa. Le grida del dugongo erano cessate e anche i fiotti di spuma non si scorgevano quasi più.

— Deve essere morto, — disse il capitano a don Pedro e a Mina che lo interrogavano.

— Lo troveremo? — chiese il primo.

— Almeno lo spero.

— Da chi sarà stato ucciso?

Don Josè invece di rispondere si curvò in avanti, fissando lo sguardo su parecchi scie luminose che solcavano il mare intorno al luogo dove doveva galleggiare il dugongo.

— Gli sword-fish! — esclamò.

— Che cosa sono? — chiese Mina.

— Specie di pescispada pericolosissimi e eccellenti da mangiare.

— Che siano stati loro a uccidere il dugongo?

— Certo! Assalgono perfino le grosse balene affondando nel loro ventre la loro spada ossea. Fanno il paio con i pescicani, quantunque assalgano molto difficilmente gli uomini che cadono in mare. Se giungiamo in tempo in mezzo a loro, poiché viaggiano sempre in buon numero, aumenteremo le nostre provviste... Ma... tò! Che cosa succede ancora laggiù? Non vedete, ragazzi?

Sembrava che ci fosse qualche battaglia intorno al dugongo. Si vedeva l'acqua alzarsi qua e là e spumeggiare furiosamente e di quando in quando apparivano delle grosse code nerastre che si agitavano rabbiosamente. Anche il bosmano si era accorto di quel fatto.

— Si battono, — disse, accostandosi al capitano.

— E chi hanno assalito gli sword-fish? — si domandò don Josè.

— Scommetto di indovinarlo.

— Spiegati dunque.

— Scommetterei la mia pipa, che mi è più preziosa in questo momento di quattro once d'oro, che dei pescicani hanno dato addosso al cadavere del dugongo e che si sono incontrati con gli sword-fish.

— Purché lascino a noi qualcosa, che si distruggano pure a vicenda, — rispose il capitano. — Gli uni non sono migliori degli altri. Forza, ragazzi! Ancora cinque minuti e arriveremo.

I marinai facevano sforzi disperati, ben sapendo che dalla cattura del dugongo, dipendeva la loro salvezza, poiché se fossero riusciti a prenderlo prima che i pescicani avessero potuto divorarlo, la carne non sarebbe certamente mancata per parecchie settimane. Intorno alle coste della Nuova Caledonia, non è raro incontrare questi cetacei, che hanno una lunghezza da cinque a sei metri e una circonferenza di tre. Anzi gli indigeni, pur essendo non meno antropofagi di quelli del gruppo delle isole Salomone e della Nuova Islanda e della Nuova Bretagna, danno loro una caccia accanita, essendo ghiottissimi della loro carne. Preferiscono prenderli vivi per dimostrare alle loro donne la loro bravura come nuotatori. Non si servono perciò né di piroghe, né di arpioni. Lo circondano, costringendolo a salire alla superficie, lo spaventano con urla selvagge, si aggrappano alle sue larghe pinne ed alla coda e lo spingono verso la riva dove lo finiscono a colpi delle loro scuri di pietra. Dopo cinque minuti, la zattera, che procedeva a balzi, rompendo fragorosamente le onde, arrivava sul luogo del combattimento. Il bosmano non si era ingannato e avrebbe vinta la scommessa e conservata la sua cara pipa. Una vera battaglia accadeva in quel tratto di mare, ed erano enormi pescicani che lottavano ferocemente contro una grossa banda di sword-fish. Del dugongo invece nessuna traccia. Era stato divorato dagli squali in pochi minuti? Era molto probabile, poiché quei mostruosi pesci possono inghiottire in due bocconi anche un uomo. I marinai, furiosi di non aver potuto raccogliere la preda tanto sospirata, avevano afferrato i remi menando colpi tremendi sulle code, sulle teste e sui dorsi dei combattenti.

— Prendiamone almeno uno!... — gridavano tutti.

Alcuni marinai si erano armati di ramponi e scagliavano colpi in tutte le direzioni, con la speranza di colpire qualche pescecane. Le mosse però degli squali e soprattutto degli sword-fish erano così fulminee che riusciva impossibile toccarli. A un tratto un marinaio, che si trovava sull'orlo della zattera, mandò un urlo terribile e fu visto stramazzare all'indietro, mentre sul suo corpo si dibatteva disperatamente una massa bruno argentea. Tre o quattro uomini, che si trovavano a poca distanza, erano balzati avanti brandendo i coltelli e urlando a squarciagola.

— Cardozo! Cardozo!

Don Josè che si trovava in quel momento a poppa, accanto al bosmano che teneva il remo, udendo quelle urla si era precipitato verso la prora, seguito subito da don Pedro, il quale si era impadronito di una scure. Il marinaio si dibatteva sempre, mandando grida disperate che diventavano di momento in momento più fioche. Sul suo petto si agitava ancora la massa bruno-argentea, malgrado i colpi di coltello che le vibravano i compagni del ferito.

— Che cosa succede? — chiese il capitano, precipitandosi avanti con una pistola in pugno. — Chi uccidete, miserabili?

— È uno sword, signore, che ha piantato la sua spada nel petto di Cardozo, — rispose un marinaio, alzando il coltello grondante di sangue. — Il maledetto pesce lo ha ferito e forse mortalmente... muori cane!

Lo sword-fish, crivellato da numerose coltellate, aveva cessato di agitarsi. Era uno dei più grossi della specie, poiché misurava non meno di tre metri e doveva pesare duecento chili. Era morto, ma la sua spada acuta era rimasta piantata profondamente nel petto del disgraziato marinaio, spezzandogli la colonna vertebrale e producendo terribili lesioni interne che dovevano cagionarne la morte a breve distanza. Non c'era da stupirsi di un simile fatto. Lo sword-fish, quando è irritato, può diventare pericolosissimo per i pescicani. Si scaglia all'impazzata perfino contro le scialuppe che attraversa con la sua solidissima spada, che raggiunge talvolta perfino i due metri di lunghezza. Don Josè, addoloratissimo per la disgrazia, dopo aver fatto scostare il terribile pesce, si era curvato sul povero marinaio, un bel giovane di venticinque anni tentando di frenare il sangue che sgorgava dalla ferita. Don Pedro e il bosmano cercavano di aiutarlo.

— È inutile capitano, — balbettò il moribondo. — La mia vita se ne va: solo Dio potrebbe fermarla. Possa almeno la mia morte aver servito di qualche aiuto ai miei camerati. Poiché se lo sword non mi colpiva non avreste potuto prenderlo, e allora...

Si era interrotto, guardando il comandante con gli occhi già vitrei, poi un fiotto di sangue gli irruppe dalle labbra contorte dagli ultimi spasimi dell'agonia, macchiandogli la casacca di tela bianca. Allargò le braccia e cadde dolcemente fra le braccia del bosmano che gli si era inginocchiato accanto, senza mandare un gemito.

— Morto? — chiese don Pedro che aveva le lacrime agli occhi.

Don Josè fece con il capo un cenno affermativo.

— Era uno dei migliori! — esclamò il bosmano con voce triste. Prese un velaccio e lo stese sul morto, borbottando una preghiera a cui risposero sottovoce i marinai che si erano raccolti intorno al cadavere.

— Dopo lo spuntare del sole, la sepoltura, — disse don Josè, allontanandosi con don Pedro.

— Triste principio del nostro viaggio, — osservò il giovane.

— Sono disgrazie che toccano agli uomini di mare, — rispose il comandante il quale nondimeno appariva preoccupato. — Non fate cattivi auguri per la morte di quel disgraziato giovane. Noi abbiamo bisogno di coraggio in questi terribili momenti.

— Eppure mi sembra che con la scomparsa dell'Andalusia tutto ormai debba finire male. Che il tesoro della Montagna Azzurra porti sfortuna?

— La Nuova Caledonia non è molto lontana, ve lo ripeto... A mezzogiorno farò il punto e accerterò la posizione della zattera. Può darsi che ci siamo spostati di venti o trenta miglia verso settentrione, una distanza però che non deve spaventarci e che possiamo riconquistare in poche ore se i venti di levante cominceranno a soffiare.

— E se don Ramirez nel frattempo arrivasse alla baia?

— Siamo in buon numero per tenere testa ai suoi uomini e per disputargli il tesoro, — disse il capitano. — Voi avete il talismano?

— Lo porto sempre addosso, insieme al documento.

— Vi ripeto, perdete pure tutto, fuorché quello, poiché la sua scomparsa segnerebbe la rovina della nostra impresa.

Si erano avvicinati alla tenda davanti alla quale stava seduta Mina con la fronte pensierosa e con il viso appoggiato alle mani.

— Morto, è vero? — chiese la giovane.

— Una disgrazia, señorita, che poteva toccare a me, a voi o a qualunque altro e che non deve impressionarvi, — rispose il capitano. — Don Pedro, tenete compagnia a vostra sorella. Poiché il sole sta per sorgere, voglio vedere se riesco a scoprire le montagne dell'isola.

Stava per allungare la mano verso il cannocchiale, quando gli sfuggì una sorda imprecazione mentre il suo volto diventava rapidamente pallidissimo e livido.

— Il cronometro non batte più! — esclamò con accento di terrore. — È impossibile che si sia fermato da sé. L'ho caricato dodici giorni fa.

Prese l'orologio e se lo accostò a un orecchio. I battiti non si udivano più. Il capitano rimase muto per alcuni istanti, guardando con smarrimento la cassetta di vetro che racchiudeva il delicato strumento, senza cui non poteva ormai fare più il punto per conoscere esattamente la latitudine e la longitudine; poi lo depose e si impadronì del sestante. Un'altra imprecazione, che parve un ruggito, gli proruppe dalle labbra. Tre specchietti dello strumento erano spezzati e i loro frammenti giacevano in fondo alla cassa. Il capitano gettò intorno uno sguardo di furore. Tutti i marinai erano inginocchiati presso il cadavere di Cardozo. Solo Emanuel, il mozzo, se ne stava a poppa, seduto presso l'orlo della zattera e occupato, a quanto pareva, a sorprendere qualche pesce.

— Qui è stato commesso un infame tradimento! — esclamò. — il sestante e il cronometro sono stati guastati da qualche mano nemica. Ma da chi? Da chi? Io non ho mai dubitato della lealtà dei miei uomini che conosco da molti anni. E poi perché privarmi di questi strumenti?... Reton! A me!

Il bosmano, che stava in quel momento attraversando la zattera per riprendere il suo posto al lungo remo che serviva da timone, si fermò.

— Vieni qui insieme a don Pedro, — gli disse il capitano con voce alterata.

— Che cosa avete, signore? Mi sembrate atterrito.

— Taci, fa presto.

Il bosmano corse verso la tenda, chiamando il giovane che stava discorrendo con Mina, poi entrambi raggiunsero il comandante il quale teneva l'indice della mano destra puntato verso la sfera piccola del cronometro, ripetendo:

— Le undici e venti! Le undici e venti! Non un secondo!