Il tesoro della Montagna Azzurra/VII - Pesci velenosi

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VII — Pesci velenosi

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VII — Pesci velenosi


Il marinaio, appena lasciato cadere, aveva allargate le braccia come per cercare di aggrapparsi a qualche cosa, mandando dei gemiti. Dai due tronconi delle cosce, qua e là sbrindellati dai terribili denti dello squalo, sfuggivano, con rapide pulsazioni, due getti di sangue spumoso che si spandevano sulle tavole della zattera. Don Josè, fattosi largo fra i marinai, che stavano immobili, come istupiditi, si era curvato sul disgraziato, dicendo con voce commossa:

— Mio povero Escobedo... coraggio!

Il marinaio lo fissò in viso con due occhi già velati dalla morte: poi, alzando una mano, disse con voce fioca:

— Prima... o dopo... ma non così... soffro... soffro troppo... uccidetemi... per pietà...

— Vediamo prima, si può forse ancora salvarti. Ho visto altri uomini sopravvivere a queste ferite.

— Uccidetemi... capitano... sono un uomo finito, — continuava a gemere il disgraziato. — Non tentate nulla... finitemi...

— Un pezzo di vela, — disse il capitano. — cerchiamo prima di tutto di arrestare il sangue.

— Non fate altro che prolungare l'agonia di Escobedo, — osservò il pilota, che lanciava sguardi bramosi sul moribondo.

— Non importa, — rispose don Josè. — Io debbo tentare tutto.

— Sì, per strapparci anche quella carne, — mormorò ferocemente Hermos. — Invoca la morte: uccidetelo e avremo il nostro pasto.

Il capitano, aiutato da Reton e da Pedro, avvolse le spaventose ferite, non con la speranza di strappare alla morte il disgraziato, ma per fermare il sangue e farlo soffrire meno. Sapeva già che era ormai irrimediabilmente condannato. Aveva però appena finita la fasciatura quando Escobedo mandò un urlo così spaventoso da far indietreggiare i marinai che lo avevano circondato.

— Dategli una coltellata, capitano! — gridò il pilota. — Non vedete che soffre troppo? Fategli questa grazia.

— Mai, — rispose don Josè. — Non ho il diritto di sopprimere una vita umana.

— Ormai è condannato.

— Attenda la sua sorte.

— Se voleste...

— Taci, miserabile. Lascialo morire in pace.

La morte non era lontana. Escobedo pareva fosse stato colto da una sincope, poiché aveva chiusi gli occhi e le sue labbra rimanevano mute. Solo un lungo brivido, che di quando in quando scuoteva quel misero corpo e che causava una nuova uscita di sangue, indicava che lo sventurato era ancora vivo. Il capitano aveva fatto allontanare Mina, poi si era inginocchiato presso il moribondo, senza abbandonare la carabina. I marinai, muti, profondamente impressionati, erano rimasti in piedi, seguendo attentamente quei brividi che diventavano di momento in momento meno intensi. Quell'agonia straziante durò un paio di minuti, poi il corpo del mutilato s'irrigidì.

— Morto! — esclamò don Josè, dopo aver posato una mano sul cuore del defunto. — Ed è il secondo.

— Questo servirà almeno a qualche cosa, — disse il pilota a mezza voce.

Fortunatamente né il capitano né Reton avevano udito quelle parole.

— Copritelo con un pezzo di tela, — comandò don Josè. — Lo getteremo in mare questa sera.

Hermos si era fatto avanti insieme a sette od otto compagni, i più affamati e anche i più esasperati.

— Vorreste offrire a quel pescecane del malanno anche la cena? — chiese a denti stretti. — Non ne ha avuto abbastanza delle due gambe?

— Cercagli un'altra tomba tu, — rispose il capitano, volgendogli le spalle.

— Ah, la vedremo! — brontolò il pilota. Poi, volgendosi verso i suoi amici, soggiunse: — Mettete una guardia d'onore intorno a questo cadavere. Che nessuno lo tocchi. Appartiene a noi e lo avremo.

Il capitano, ancora profondamente scosso per il tragico avvenimento, si era ritirato sotto la tenda dove già si trovavano Mina e don Pedro tenendo avanti a loro le carabine e le munizioni. Reton si era fermato di fuori, di sentinella, temendo qualche brutto tiro da parte dei ribelli, i quali non riconoscevano più alcuna autorità. Il capitano, seduto davanti ai due giovani, tenendo il fucile fra le ginocchia.

— Miei poveri amici, — disse. — Questa è la guerra. D'ora in poi, se vi preme la vita, sarete anche voi costretti a vigilare attentamente. Ringraziamo Dio di essere noi soli in possesso delle armi da fuoco.

— Che la follia abbia colpito quegli uomini? — chiese don Pedro. — Ancora pochi giorni fa vi obbedivano ciecamente e avevano in voi una immensa fiducia.

— I lunghi patimenti rendono spesso gli uomini feroci come belve. Se una notte o l'altra ci sorprendono, per noi è finita. La fame, implacabile, li avventerà contro di noi.

— Avranno il coraggio di cibarsi di carne umana? — chiese Mina, facendo un gesto di ribrezzo. — A me sembrerebbe impossibile.

— Ebbene, vi dico che non rispondo del cadavere di quel povero Escobedo.

— Non lo farete gettare in acqua?

— Mi proverò, señorita, ma temo purtroppo di trovare una feroce resistenza da parte di tutti.

— E lo lascerete divorare?

Il capitano crollò il capo senza rispondere, poi si alzò e uscì dietro la tenda. I marinai si erano sdraiati fra i barili e le travi, coprendosi con dei lembi di tela per ripararsi dagli implacabili raggi solari che cadevano a piombo, inondando l'oceano di una luce così accecante da far dolorare gli occhi. Una calma pesante gravava sulla disgraziata zattera, fluttuante sulla sconfinata distesa d'acqua. Era sempre l'immensità deserta, senza navi, senza terre, senza pesci: l'immensità della disperazione. Il capitano contemplava tristemente da parecchi minuti quel deserto d'acqua, non meno terribile del grande Sahara, quando scorse una fregata sorgere dai confini dell'orizzonte e avviarsi in direzione della zattera. Il rapidissimo volatile fendeva lo spazio con la velocità del fulmine tenendo le ali spiegate e quasi immobili. Il capitano, che non aveva lasciato la sua carabina a due colpi, si era prontamente alzato.

— È Dio che la manda, — disse. — Sarà poca cosa, appena un boccone per ciascuno, ma forse basterà a calmare la ferocia di questi affamati.

Aveva caricata rapidamente la carabina. La fregata non si trovava che a cento passi e stava per passare, rapida come una saetta, al di sopra della zattera. Due spari rimbombarono e l'uccello, arrestato di colpo nel suo volo, venne a cadere presso l'albero, fulminato da una scarica di piombo. I marinai, che sonnecchiavano sotto le tende, credendo che si trattasse di un attacco improvviso, erano balzati fuori, tenendo in pugno i coltelli di manovra, le navaje e le scuri. La voce del pilota si fece subito udire beffarda, insolente:

— Tanto baccano per un così miserabile uccello! Non valeva la pena che vi disturbaste, capitano, mentre c'è un morto a bordo.

Don Josè, udendo quelle parole, era indietreggiato verso la tenda, sulla cui soglia, attirati dagli spari, s'eran presentati don Pedro, Mina e il bosmano, gridando:

— Un'altra carabina!

— Ecco la mia, capitano, — rispose Reton. — È carica con due palle incatenate.

Il capitano la impugnò e mosse verso Hermos, che sembrava lo sfidasse sogghignando. Una collera terribile aveva alterati i lineamenti di don Josè.

— Cosa hai detto, tu? — chiese al pilota.

I marinai, prevedendo che stava per succedere qualcosa di grave, si erano affrettati ad alzarsi e a radunarsi dietro il loro nuovo capo.

— Parla, — ripeté il capitano, mentre, a loro volta, il bosmano e don Pedro accorrevano in suo soccorso.

Hermos esitò qualche istante ancora a rispondere, poi, vedendosi spalleggiato dai suoi, rispose:

— Ho detto che non valeva la pena di sprecare della polvere per abbattere un uccello che non potrà servire nemmeno di colazione a due o tre persone, con la fame che abbiamo in corpo.

— Hai aggiunto qualche altra cosa, furfante.

— Sì, che a bordo c'è un morto che potrebbe fornire un pasto ben più abbondante. Voi tenetevi pure la fregata, se siete diventato schizzinoso; noi ci terremo Escobedo.

— E cosa volete farne? — urlò il capitano.

— Mangiarlo, signore, — rispose audacemente il capo dei ribelli.

— E hai il coraggio di dirmelo sul viso?

— Eh, vivaddio, noi non vogliamo crepare di fame, signore, e per noi, nelle condizioni in cui ci troviamo, carne umana o carne di pescecane è tutt'uno! È vero, camerati?

Un mormorio di approvazione fu la risposta.

— Miserabili! Osereste tanto? Dove sono i miei fedeli marinai che fino a pochi giorni fa obbedivano al loro capo? Siete diventati tanti bruti?

— Ve l'ho già detto, signore: la fame non ragiona.

— Voi non commetterete una simile infamia davanti ai miei occhi.

— Se non volete vedere, ritiratevi sotto la tenda e lasciate fare a noi, — disse John il pescatore.

— Voi non toccherete quel cadavere che è quello di un vostro camerata; più ancora, di un vostro amico. Gettatelo subito in acqua.

— No, capitano, — risposero otto o dieci voci.

— Obbedite o faccio fuoco contro chi mi rifiuta obbedienza.

— Sarete costretto a ucciderci tutti, signore, perché nessuno vi obbedisce più, — disse il pilota. — Nella sventura si diventa tutti eguali.

— È una ribellione?

— Chiamatela come volete, a noi non importa. Qui ormai non regna che la fame.

— Gettate in acqua quel cadavere! — ripeté il capitano, alzando la carabina. — Io sono sempre il comandante dell'Andalusia e mi farò rispettare a colpi di fucile, se sarà necessario.

I marinai invece di obbedire, si schierarono davanti alla salma del povero Escobedo, per impedire che il bosmano e don Pedro, i quali si erano già fatti avanti, eseguissero l'ordine.

— Sgombrate! — urlò il capitano.

— Rayo de dios! Finiamola con quest'uomo che ci impedisce di sfamarci! — gridò Hermos, levando la navaja e balzando in avanti. — Sotto camerati!

Don Josè aveva puntato rapidamente il fucile. Uno sparo rintronò e il capo dei ribelli stramazzò sulla tolda, con il cranio fracassato dalle due palle incatenate. Un urlo di orrore e di rabbia si era alzato fra i marinai, poi seguì un profondo silenzio. Tutti sembravano paralizzati dallo stupore.

— Dio mi perdoni! — esclamò don Josè. — Quell'uomo lo ha voluto.

I ribelli si ritiravano davanti a lui, atterriti dall'atto audace, stringendo furiosamente i coltelli e le scuri, che a nulla valevano contro le armi da fuoco. In quel momento si udì un forte scricchiolio, poi si udì il bosmano gridare:

— Il vento! Il vento! Alla vela, camerati! La terra dei Kanaki sta davanti a noi!

A quel grido, i ribelli si guardarono l'un l'altro con un certo stupore, poi si gettarono come un sol uomo verso l'albero, issando rapidamente la vela. Sembrava d'un tratto avessero dimenticata la fame, la morte del loro capo improvvisato e ogni idea di vendetta. Solo Emanuel era rimasto immobile, mordendosi le labbra a sangue. Il vento, una fresca brezza che spirava da levante, si era alzato increspando fortemente la superficie dell'oceano. Il bosmano e don Josè erano accorsi al timone, dopo aver fatto segno a Mina e a don Pedro di seguirli, nel timore di qualche altra brutta sorpresa. Ormai non si fidavano più dei loro marinai, anche se privati del loro capo e istigatore. La zattera si era messa a correre, ballonzolando pesantemente sulle piccole ondate che si formavano, lasciandosi a poppa una larga scia spumeggiante. La fiducia rinasceva in tutti i cuori. Se quella brezza durava era la salvezza, poiché nessuno dubitava che la terra dei Kanaki si trovasse ormai a una distanza relativamente breve.

— Questo vento ha salvata la situazione e impedito un massacro, — disse il bosmano a don Josè. — Sia dunque benedetto!

— Temo tuttavia che questa calma sia passeggera. Se non troveremo nulla da mangiare i nostri uomini torneranno alla carica.

— Il loro capo è morto, — osservò don Pedro.

— Non tarderanno a nominarne un altro. È quel John ora che mi dà da pensare.

— Abbatteremo anche lui, — disse il bosmano.

— Uccidere mi ripugna. Quegli uomini fino a ieri sono stati i miei bravi marinai. Mi pesa già di avere sulla coscienza un omicidio.

— E se tardavate un po', capitano, quel furfante vi squarciava il ventre con un buon colpo di navaja.

— Non dico di no, Reton, sarei però stato più lieto se l'avessi risparmiato... State in guardia, amici, perché se prima di questa sera non scopriremo le coste della Nuova Caledonia, avremo un'altra ribellione.

— E noi vi terremo testa, — rispose Reton. — To'! E la fregata?

— Se la sono già presa e divorata, — disse Mina.

— Mi rincresce per voi, señorita.

— Soffro meno di quello che credete, mio buon Reton. Sento solo un'estrema debolezza.

— Povera sorella! — mormorò don Pedro.

— Non disperiamo, amici, — disse il capitano. — Io ho la ferma fiducia di arrivare ben presto alla terra dei Kanaki e allora tutti i nostri patimenti saranno finiti.

Il capitano aveva ragione di sperare, poiché la Nuova Caledonia non doveva essere infatti molto lontana. Tutto lo indicava: una certa fragranza nell'aria, la presenza di uccelli costieri svolazzanti a stormi e anche l'incontro frequente di pezzi di legno portati al largo dal riflusso e strappati dalle onde alle immense rizophore mangle che circondano, in enormi ammassi, le spiagge e le scogliere dell'isola. Quasi per rianimare i marinai, di tanto in tanto dei pesci si mostravano a non poca distanza dalla zattera: però, vedendo avanzare quella strana baracca che procedeva a balzi, con uno strano fragore prodotto dall'urtarsi dei barili, si affrettavano a tuffarsi. Erano per lo più dei delfini liercorhamphus, lunghi un buon metro e mezzo, mancanti della spina dorsale, di forme svelte, il rostro ottuso, con una cappa di velluto nero che si stendeva lungo tutto il dorso. Salutavano il passaggio della zattera con una specie di nitrito, poi scomparivano, dopo aver spiccato un gran salto fuori dall'acqua, lasciando i marinai delusi. Forse quella fuga era sempre causata, più che dal fragore e dalla vista della vela, dalla presenza di quell'ostinato pescecane, che non si decideva a lasciare il galleggiante. Non c'era nulla di straordinario in questa ostinazione in quanto è noto a tutti che gli squali sono sempre stati i compagni inseparabili dei naufraghi. La zattera intanto continuava la sua corsa, quantunque al solito si spostasse sempre per la sua difettosa costruzione e anche per l'imperfezione del timone. Nondimeno faceva i suoi tre o quattro nodi all'ora, velocità abbastanza considerevole, data la sua forma, la sua pesantezza e la sua scarsa velatura. I marinai, che sembrava avessero tutto dimenticato, si erano sdraiati a prora, sotto una specie di tenda, spiando ansiosamente l'orizzonte. Era tanta la loro attenzione, che non si scambiavano nemmeno una parola e non rivolgevano neppure uno sguardo ai due cadaveri che il fortissimo calore già gonfiava, indizio di una non lontana decomposizione. Il capitano che temeva un nuovo scatenarsi della terribile fame antropofaga, avrebbe ben desiderato di gettarli in mare, ma il timore di provocare un'altra ribellione e di dover far uso delle armi, lo tratteneva dal farlo.

— Non li irritiamo — aveva detto fra sé. — Lasciamo fare al sole. Vedremo se dopo oseranno cibarsi di carne umana e per di più putrefatta.

A mezzogiorno il vento cessò quasi bruscamente per tornare a soffiare verso il tramonto, un po' più debole del mattino. Prima che il sole tramontasse, il capitano e Reton esplorarono nuovamente l'orizzonte e per poco non si lasciarono sfuggire un grido che avrebbe potuto causare una nuova delusione. Avevano scorto una forma indecisa, che prima avevano creduto la cresta di una montagna, ma dopo una osservazione più attenta si erano accorti che si trattava invece di una nuvola.

— Non ci mancherebbe altro che un salto di vento ora! — esclamò il capitano, preoccupato. — Sarebbe la fine delle nostre speranze e anche dei nostri patimenti, poiché questa zattera non potrebbe resistere nemmeno un'ora all'assalto delle onde.

— E si gonfia rapidamente, — aggiunse Reton che non staccava lo sguardo dalla nube che scompariva fra le tenebre. — Uhm! Avremo una pessima notte!

— Non dir nulla a nessuno.

— Sarò muto come un pesce, capitano.

Ritornarono a poppa, dove Mina e don Pedro vegliavano con i fucili in mano, e si lasciarono cadere su una cassa, tristi e scoraggiati. Una nuova calma era sopravvenuta. La zattera fluttuava senza più avanzare. A prora si udivano le imprecazioni dei marinai, e sembrava che discutessero animatamente sulla probabilità di raggiungere le coste della Nuova Caledonia. L'oscurità intanto era diventata intensa e le onde rumoreggiavano sinistramente al largo. Il capitano, Reton e i loro compagni tacevano, accasciati da tristi presentimenti. I marinai invece non cessavano di bestemmiare. Un'afa pesante, soffocante, foriera di qualche uragano, gravitava sull'oceano. A un tratto, verso le nove di sera, quando già il cielo si era tutto coperto, nascondendo le stelle, una luce strana comparve verso levante. Era una fosforescenza splendida, come se miriadi di nottiluche si fossero radunate per fare da scorta alla zattera. Il capitano, scorgendo quei bagliori, con uno sforzo supremo si era alzato, esclamando:

— Dei pesci! È una fortuna che arriva.

Nello stesso istante udì distintamente come uno scricchiolio di ossa.

— Reton! — gridò. — Mangiano i morti!

Afferrò la carabina e avanzò attraverso il buio con il cuore angosciato. Un gruppo di uomini stava presso i cadaveri di Escobedo e di Hermos. Un urlo di orrore era uscito dalle labbra del capitano.

— Miserabili! Che cosa fate?

Una voce stridula, beffarda, si alzò fra le tenebre:

— Mangiamo la nostra cena, capitano.

— Finitela o vi uccido tutti!...

Non fu Emanuel questa volta che rispose, ma John il pescatore, il nuovo capo dei ribelli:

— La fregata è già digerita, senza calmare la nostra fame. Lasciateci finire tranquillamente il nostro pasto. Meglio un braccio di Hermos a me che al pescecane. Quello aspetterà il suo turno.

— Siete impazziti, miserabili?

— Dateci qualcos'altro.

— Non vedete che arrivano i pesci?

— I pesci!... Che pesci d'Egitto!

— Stupido! — gridò Reton. — Hai mai pescato una sardina tu? E ti vanti di essere un abile pescatore! Guarda là dunque!

L'americano lasciò cadere un braccio umano che aveva già in parte intaccato e si alzò penosamente, poiché la sua debolezza era tale che non si poteva quasi reggere sulle gambe.

— La fosforescenza! — balbettò.

— Non sono pesci quelli e che giungono a battaglioni? — chiese il capitano.

— Ma sì! Sono sardine!

— E che noi potremo prendere con le mani.

— Sì, sì, tante, tante! ... Camerati, ecco la salvezza! Gettate i cadaveri i mare... è orribile quello che abbiamo commesso.

I suoi compagni aiutandosi l'un l'altro, si erano alzati e guardavano come istupiditi, quel fiume fosforescente che si dirigeva verso la zattera su una larghezza di cinquanta o sessanta metri. Erano veramente sardine? Era quello che si chiedeva il capitano con una certa apprensione; poiché aveva conosciuto dei pesci rassomiglianti alle sardine dei mari nordici, ma pericolosissimi a mangiarsi. Tutti si erano trascinati verso la prora, pronti a tuffare le mani in quelle schiere che avanzavano fitte fitte, coprendo l'oceano di bagliori meravigliosi che spiccavano nell'oscurità. Anche Mina e don Pedro erano accorsi e guardavano con ammirazione quel fiume argenteo che pareva si prolungasse per moltissimi chilometri. Veniva da settentrione e scendeva verso sud, rasentando forse le coste della Nuova Caledonia.

— Che siano proprio dei pesci o dei polipi fosforescenti? — chiese don Pedro al capitano.

— Se fossero meduse o nottiluche, la tinta sarebbe diversa, — rispose don Josè. — Quelle sono sardine; non è possibile ingannarsi.

— E potremo prenderne? — chiese Mina.

— Basterà tuffare le mani per raccoglierne finché vorremo. Le colonne delle sardine sono così fitte, che a volte impediscono alle imbarcazioni di avanzare.

— Allora siamo salvi, — disse don Pedro.

— Non correte tanto.

— E perché, capitano? Quei pesci si dirigono appunto verso di noi e fra poco la zattera ne sarà circondata.

— E se non fossero veramente sardine?

— Che cosa volete dire?

— Che presso le coste della Nuova Caledonia, in certe epoche dell'anno, emigrano in grandi masse certi pesci, simili alle sardine pericolosissimi da mangiarsi. I marinai del grande navigatore Cook, che per primi le assaggiarono, corsero il pericolo di morire tutti avvelenati.

— Li conoscete?

— Sì, don Pedro. Mi sono stati mostrati dai calcedoni, durante un viaggio che ho fatto lungo queste coste due anni or sono e me li ricordo benissimo. Si distinguono d'altronde facilmente, avendo dei puntini neri sulle loro squame argentee. Mi dissero che in certe stagioni si possono mangiare senza pericolo, ma non saprei dirvi quale sia questa stagione.

— Che Dio ci serbi ancora una così terribile delusione? Che le nostre disgrazie non debbano finire?

— Pare di no, señor Pedro, — disse Reton che gli stava accanto. — Poiché avremo qualche cos'altro dopo le sardine.

— Perché dite ciò, bosmano? Che cos'altro ci minaccia!

— Il tempo cambia, caro signore. Non vedete che le stelle sono scomparse? Avremo ancora degli uragani. Che Dio ce la mandi buona!

La sua voce fu coperta dalle urla di gioia dell'equipaggio. Il fiume argenteo aveva toccata la zattera e si era diviso in due, scivolando lungo il babordo e il tribordo, per tornare poi a riunirsi dietro la poppa. I marinai si erano messi all'opera, senza pensare che il pescecane poteva comparire improvvisamente e troncare loro le braccia. Le mani si tuffavano e si ritiravano piene di pesci, che venivano gettati nei barili già pronti sulla zattera. Il capitano aveva preso una di quelle sardine e si era messo ad esaminarla alla scarsa luce di una cordicella incatramata che Reton aveva accesa. Fu una vera imprecazione quella che uscì dalle labbra di don Josè.

— Maledizione! Amici, lasciate andare quei pesci: sono velenosi! Non li mangiate, ve lo ordino.

Le sue parole furono accolte da uno scoppio di risa.

— Il capitano è impazzito! — gridò John. — Raccogliete, camerati, questa è una vera manna.

Il capitano si era slanciato fra i suoi uomini, tentando di trattenerli.

— Sono pesci velenosi, disgraziati! Io li conosco!

— Tanto meglio, — disse un marinaio. — Creperemo più presto, però con la pancia piena.

— Stupidi! — gridò il bosmano. — Volete morire mentre siamo così vicini alla terra?

— Al diavolo la Nuova Caledonia!

— Va a raggiungerla con il tuo capitano!

— Va a riempirti le tasche dell'oro di Krahoa!

— Vi ordino di non toccare quei pesci, — gridò il capitano cercando di rovesciare un barile che era già pieno.

Vedendo quell'atto, i marinai si erano alzati furiosi, con i coltelli in pugno urlando ferocemente.

— I pesci sono nostri! Morte a chi li tocca!

— Non sono più dunque il vostro capitano?

— No!

— Volete morire? Ebbene fate quello che credete.

— Non gli badate, amici, — disse John il pescatore. — Che cosa viene a raccontarci di pesci velenosi! Ha il cervello guasto quel disgraziato! Mangiamo! Ne rispondo io, io che ho mangiato pesci anche quando poppavo.

Si erano gettati come forsennati sui barili, dentro i quali si dibattevano le sardine caledoniane e si erano messi a divorarle avidamente, sordi alle preghiere e alle minacce del capitano, di Mina e di Pedro. A ogni intimazione rispondevano con sghignazzate e mandavano giù pesci su pesci, mangiandoli vivi.

— Ah! Disgraziati! Disgraziati! — esclamava il povero don Josè, strappandosi i capelli. — Corrono incontro alla morte!

In quel momento un colpo di tuono rumoreggiò fra le nubi, che si erano a poco a poco accavallate nel cielo, seguito quasi subito da una raffica violenta che impresse alla zattera una scossa poderosa.

— Ecco la fine, — mormorò Reton, lanciando uno sguardo d'angoscia verso Mina e don Pedro. — Chi uscirà vivo da questa ultima prova?

Si guardò intorno. Il capitano, accasciato, si era seduto su un barile, tenendosi stretto il capo fra le mani e pareva che singhiozzasse. A poppa, la giovane Mina e suo fratello, guardavano il cielo che incominciava a illuminarsi di lividi lampi. A prora, i marinai, pieni da scoppiare, giacevano intorno ai barili come se fossero stati sorpresi dalla morte. Solo uno vegliava ancora: era Emanuel.