Il tesoro della Montagna Azzurra/XIV - La caverna degli antropofaghi

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XIV — La caverna degli antropofaghi

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XIV — La caverna degli antropofaghi


Un'afa pesante, irrespirabile, regnava nella foresta. Sembrava imminente lo scoppio di uno di quei terribili uragani che sconvolgono in pochi minuti le isole del Pacifico. Il prigioniero, che era fiancheggiato da Matemate e da Koturé, che lo tenevano ben stretto per le liane che portava ai fianchi per impedirgli di fuggire, avanzava con passo rapido attraverso la fitta oscurità. Il capitano e don Pedro gli venivano dietro tenendo le carabine armate. La traversata della grande foresta durò un'ora buona, poi il keto rallentò il passo, dicendo ai suoi guardiani:

— Non fate rumore e non parlate. Passiamo in mezzo ai villaggi.

— È a te che raccomando di non gridare, — rispose Matemate. — Se dai l'allarme, la mia scure ti spaccherà il cranio.

— Poiché non mi avete fatto divorare vivo, non vi tradirò e vi condurrò alla caverna dove avrà luogo il pilù-pilù.

— Siamo vicini? — chiese don José, che aveva sentito le parole scambiate fra il prigioniero e i suoi guardiani.

— Più di quello che credi, uomo bianco, — rispose il keto. — È là verso la spiaggia.

— Ci saranno di già i tuoi?

— Non si raduneranno che dopo la comparsa della luna.

— Guidaci, dunque.

La grande foresta cominciava a diradarsi, e le piante d'alto fusto erano scomparse. Solo i kauris e gli alberi del cocco s'incontravano ancora. Di tanto in tanto, alla luce dei primi lampi, apparivano gruppi di capanne. Erano i villaggi dei Keti. Il piccolo gruppo avanzava con infinite precauzioni, senza parlare, cercando soprattutto di evitare quelle catapecchie formate di cortecce di niaulis e di melalenco, che rassomigliavano nella forma a grossi alveari. Quantunque il grande pilù-pilù dovesse essere già stato annunciato, le abitazioni, sembravano deserte. Probabilmente tutti gli abitanti erano andati per tempo nel villaggio principale, volendo prendere parte alla danza e assaggiare almeno un pezzettino di carne del povero bosmano. Cominciava a tuonare in lontananza, quando il prigioniero additò a Matemate una piccola altura che si ergeva isolata, quasi al margine dell'interminabile zona di rhizophore che si stende lungo le spiagge di tutta la grande isola.

— È là, — disse.

— Che si siano già radunati?

— La luna non c'è ancora, — rispose. — Forse giungeremo prima di loro.

Un fragoroso rullio di tamburi che sembrava uscisse di sottoterra, lo fece fermare.

— È troppo tardi, — disse, guardando con ansia i due kanaki. — Questo fragore annuncia la danza in onore del dio Tiki.

— Che cosa dici? — chiese don José facendosi avanti.

— Che i miei hanno anticipata l'ora della riunione, — rispose il keto, il quale appariva spaventato.

— Che siano già radunati nella caverna?

— Sì, uomo bianco: eppure la luna non è ancora comparsa.

— C'è una sola entrata?

— Due ma una è quasi impraticabile.

— La preferisco a quella principale, se mi assicuri di poter arrivare nell'interno della caverna.

— Dovremo strisciare.

— Non ti occupare di questo. Noi dobbiamo sorprenderli, non assalirli direttamente.

— Allora seguimi, uomo bianco, — disse il prigioniero, che sembrava avesse preso una decisione.

— Bada che i miei guerrieri sorveglieranno ogni tua mossa.

— Io sono diventato il tuo schiavo, — rispose il keto con una certa nobiltà. — Io debbo a te della riconoscenza. Affrettiamoci o arriveremo troppo tardi. La grande danza è cominciata e, quando sarà finita, il tuo amico verrà ucciso.

Don José raccomandò ai suoi uomini di mantenere il più assoluto silenzio e si misero tutti dietro al prigioniero, il quale si avviava a passi rapidi verso la collinetta che era coperta da bellissimi alberi di cocco e da fitti cespugli. I grossi tamburi di legno degli antropofaghi rullavano continuamente, segno evidente che il pilù-pilù era cominciato. Di tanto in tanto si sentivano delle urla acutissime che sembravano sorgere da un'immensa voragine.

— Quanti selvaggi ci saranno là dentro? — si chiedeva con inquietudine il capitano. — Riusciremo a strappare loro Reton?

Il keto che camminava sempre in fretta, tenuto d'occhio da Matemate e da Koturé, arrivato alla base della collina frugò in mezzo ai cespugli per qualche minuto, poi smosse una grossa pietra, mostrando al capitano un'apertura tenebrosa.

— Dovremo passare per di qua — disse.

— Possiamo accendere una torcia?

— Per ora sì.

— Non scorgeranno la luce?

— Il passaggio è tortuoso. La spegneremo dopo che avremo attraversato il canale sotterraneo che alimenta il lagoon.

— C'è un bacino nella caverna?

— Sì, uomo bianco.

Il capitano, che aveva ancora il suo acciarino e la sua esca, l'unica cosa che aveva salvato dal naufragio oltre alle armi, accese una torcia di niaulis, poi il piccolo drappello si inoltrò coraggiosamente nello stretto passaggio. Matemate, che temeva sempre qualche brutta sorpresa da parte del prigioniero, avanzava in testa a tutti, tenendo la torcia. Il keto gli veniva dietro, con Koturé alle spalle, in modo da rendergli impossibile un tentativo di fuga. I rullii dei tamburi e le urla dei danzatori si propagavano dentro il condotto, con un crescendo spaventoso. Sembrava che tutta la collina tremasse e fosse lì lì per sfasciarsi. Si mescolavano poi altri fragori cupi e prolungati che sembrava fossero prodotti da cascate d'acqua o da impetuosi torrenti rinchiusi dentro le pareti basaltiche dell'altura. Matemate affrettava il passo, quantunque mille ostacoli ingombrassero la via, rendendo la marcia penosissima. Ora la galleria, si restringeva in modo da rendere difficilissimo il passaggio: ora invece era la volta che si abbassava tanto da obbligare gli uomini a strisciare come serpenti; di quando in quando Matemate era obbligato a fermarsi, per rimuovere dei macigni che impedivano il passo. Percorsi trecento passi sempre in discesa, arrivarono finalmente davanti a una profonda spaccatura, in fondo alla quale si scorgeva dell'acqua che usciva da una galleria.

— Acqua dolce o di mare? — chiese il capitano al prigioniero.

— Di mare, — rispose il keto. — È questa che alimenta il lagoon interno quando l'alta marea la spinge.

La spaccatura era larga circa un metro e mezzo e i diciassette uomini la varcarono con un salto.

— Spegnete la torcia, — disse il prigioniero. — Siamo vicini.

— Matemate, tieni ben stretto il prigioniero, — suggerì il capitano alzando la voce.

— Rispondo io di lui, — rispose il kanako.

— È carica la vostra carabina, don Pedro?

— Sì, don José.

— Non fate fuoco, se non al mio comando... Avanti!

Il passaggio si era allargato e si svolgeva a zig-zag. Il frastuono aumentava d'intensità. Il capitano e i suoi compagni avevano rallentato il passo e avanzavano con prudenza, temendo che gli antropofaghi avessero collocato delle sentinelle presso l'uscita di quel passaggio. A un tratto un raggio di luce, si proiettò fino a loro. Avevano percorso una curva e si erano trovati improvvisamente davanti all'immensa caverna dove i Keti stavano eseguendo la loro danza.

— Fermi tutti! — comandò il capitano.

La caverna era grandissima e di una bellezza meravigliosa. Era una immensa sala, di forma quasi circolare, abbellita da una infinità di stalattiti e di stalagmiti e con le pareti incrostate di frammenti di vetro, che scintillavano sotto la luce di due o trecento torce piantate al suolo. Nel mezzo si apriva un grandissimo bacino naturale, colmo d'acqua, nel cui centro era una roccia sulla quale troneggiava una divinità scavata nel tronco d'un albero. Era il dio Tiki, un brutto mostro dalle gambe storte, la testa grossa e le braccia incrociate sul ventre. Attorno al lagoon i guerrieri danzavano furiosamente, percuotendo il suolo con le loro mazze mentre in fondo alla caverna stavano radunati circa trecento spettatori, fra uomini e donne. Una compagnia di suonatori animava i ballerini, picchiando colpi sonori sui tamburi di legno e lacerando gli orecchi con fischi acutissimi che traevano da certi lunghi zufoli formati da tibie umane.

— Questa è una bolgia infernale, — disse il capitano a don Pedro, che gli si era inginocchiato vicino, guardando attraverso le stalattiti. — Ma dov'è Reton?

— È là: lo vedete? Presso il lagoon, di fronte a quella brutta statua.

Il capitano si spinse più avanti, facendo cadere una stalattite e poté scorgere una grande gabbia fatta con bambù, nella quale se ne stava un uomo con le mani legate dietro la schiena. Gli bastò un solo sguardo per riconoscerlo.

— Il mio disgraziato bosmano! — esclamò, con voce commossa. — Chissà quali angosce proverà il povero vecchio!

— E non poterlo avvertire in alcun modo della nostra presenza, — aggiunse don Pedro.

— Non fate un passo o siamo perduti.

— E come faremo a salvarlo? Qui ci sono almeno quattrocento persone.

— Conto sulla sorpresa. Lasciamoli danzare per ora. Entreremo in scena al momento opportuno. Ho già preparato il mio piano.

Si volse verso Matemate, che gli stava dietro, tenendo sempre bene stretto il prigioniero.

— Si prolungherà ancora molto il pilù-pilù? — gli chiese.

— Sta per finire, uomo bianco. Ecco laggiù che avanza lo stregone della tribù, incaricato di offrire il sangue a Tiki.

— A quel brutto mostro che sta in mezzo al lagoon?

— Sì: si accontenterà di quella offerta.

— È lo stregone che darà il colpo mortale al prigioniero?

— Non vedi che ha una scure in mano?

— Sta bene. — disse il capitano. — Ora ascoltami attentamente. Quando io sparerò il primo colpo, tu gettati verso la gabbia e libera il prigioniero. Lascia qui due dei nostri affinché non ci taglino la ritirata.

— E gli altri?

— Mi seguiranno urlando più che possono, per far credere ai Keti che abbiamo con noi tutta la tribù dei Nuku.

— Sarai obbedito, — rispose il kanako.

La danza, alla quale avevano preso parte i più giovani della tribù, stava per terminare. I ballerini, completamente esausti, grondanti di sudore, si erano messi a correre intorno al lagoon, inseguendosi l'un l'altro e fingendo di uccidersi a vicenda a colpi di scure. Era l'ultima fase del pilù-pilù. Gli spettatori si erano alzati e avanzavano verso il centro della caverna preceduti dallo stregone della tribù, un vecchio rugoso a cui la lebbra aveva divorate parecchie falangi delle dita dei piedi. La testa era scoperta e i suoi capelli crespi e lunghi erano annodati da un lato solo e intrecciati con denti di marsuino e con perle di vetro, segno che quell'uomo aveva da compiere qualche vendetta. Dietro di lui venivano vigorosi indigeni, che reggevano a fatica un tronco d'albero che sembrava contenesse nell'interno qualche cosa.

— Che cosa vuol dire questo, Matemate? — chiese il capitano, mentre il frastuono cessava a un tratto e i ballerini si ritiravano in fondo alla caverna.

Il prigioniero, che aveva sentita la domanda, rispose prima del kanako:

— Conducono davanti a Tiki il cadavere del capo della tribù.

— Quello che l'uomo bianco ha ucciso?

— Sì.

— Tu mi hai detto che è stato ucciso molti giorni fa.

— Non è stato ancora imbalsamato, — rispose il keto — poiché l'uomo bianco l'aveva severamente proibito. Ora che è partito, lo stregone lo ha fatto togliere dalla cima della montagna per seppellirlo qui.

— Chissà in che stato sarà ridotto! Che sacrifichino il prigioniero in suo onore?

— È probabile, — disse Matemate.

— Divoreranno lo stregone se vorranno cenare, — rispose il capitano.

I quattro guerrieri che reggevano il tronco d'albero, scavato perché servisse da bara, erano arrivati sulla riva del lagoon, seguiti a breve distanza da tutta la tribù in religioso silenzio. La salma fu deposta di fronte al dio, fu levato un gran pezzo di corteccia e il cadavere venne tolto e posato a terra con infinite precauzioni. Un odore nauseante si era sparso per la caverna. Il disgraziato capo tribù, che era stato assassinato molti giorni prima, era in piena decomposizione. Dalle sue membra disfatte colava un liquido purulento di un fetore insopportabile. Lo stregone fece tre o quattro giri intorno alla salma pronunciando delle parole incomprensibili, mentre le donne prorompevano in altissimi lamenti, si strappavano i capelli e si sfregiavano il viso, le braccia e il petto con delle piccole conchiglie bianche, che dovevano essere molto taglienti. I guerrieri invece stavano immobili, appoggiati alle loro mazze, tenendo lo sguardo fisso sul capo defunto. A un cenno imperioso dello stregone, le grida e i pianti cessarono. Si sciolse il segnale di vendetta, lasciandosi ricadere i capelli, gettò nel lagoon le perle e i denti di marsuino che formavano una specie di pettine e dopo di avere mandato tre urli formidabili, che echeggiarono come tre colpi di tuono per la spaziosa caverna, brandì la scure e si avviò verso la gabbia dove si trovava rinchiuso, mezzo istupidito dal terrore, il povero Reton.

— A te, uomo bianco, — disse Matemate.

Il capitano, pallido ma risoluto aveva appoggiata la canna della carabina a una stalattite per essere più sicuro della mira. Don Pedro lo aveva imitato, pronto a sparare a sua volta sullo stregone, nel caso che don José avesse mancato il colpo. I due kanaki e i Nuku avevano impugnato le armi e non aspettavano che un segnale per scagliarsi, come tigri assetate di sangue, sui loro feroci avversari. Il momento era tragico. Un profondo silenzio regnava nell'immensa caverna. Solo l'acqua del lagoon che saliva con la marea, gorgogliava sordamente attorno alla roccia che serviva di piedistallo al dio Tiki. Lo stregone, dopo aver tracciato in aria con la scure di pietra, dei segni misteriosi, era avanzato verso la gabbia che serviva di prigione al disgraziato Reton. Contemplò per qualche istante il povero marinaio, che lo guardava con occhi dilatati dal terrore, poi con due poderosi colpi di mazza sfondò alcuni bambù e allungò la mano sinistra, strappandolo violentemente fuori. Quell'atto sembrò ridestare tutte le energie del vecchio marinaio. Con una mossa improvvisa si era liberato dalla stretta, poi aveva scaricato sullo stregone una terribile tempesta di pugni e di calci, provocando da parte degli spettatori un urlo d'indignazione.

— Bravo bosmano! — esclamò don Pedro. — Picchia sodo!

E il vecchio picchiava davvero come un demonio, alternando pugni e calci magistrali con una rapidità prodigiosa. Lo stregone, intontito, girava su se stesso come una trottola, non pensando nemmeno a far uso della scure. I guerrieri, furibondi, stavano per lanciarsi in aiuto del loro sacerdote, quando uno sparo che l'eco della caverna centuplicò, coperse le loro grida. Lo stregone, colpito dall'infallibile palla di don José era stramazzato al suolo fulminato, mentre Reton, passato il primo istante di sbalordimento, avendo compreso che degli uomini bianchi accorrevano in suo aiuto, si dava a precipitosa fuga verso il luogo dove aveva scorto il lampo. I selvaggi sentendo quello sparo che era sembrato un vero colpo di cannone, si erano fermati, guardandosi intorno con spavento, non sapendo, lì per lì, a che cosa attribuirlo, poi presi da un improvviso panico a loro volta fuggirono verso l'entrata della caverna rovesciando e calpestando le donne che erano state le prime a prendere il largo. Per qualche momento nell'immensa sala sotterranea regnò una confusione indescrivibile. Uomini e donne urlavano disperatamente, mentre verso il corridoio gli spari si seguivano a intervalli regolari, poiché don José, don Pedro e Matemate, non avevano interrotto il fuoco. Reton, compiuto il giro del lagoon, si era lanciato verso il passaggio, guidato dalla nuvola di fumo che si espandeva fra le stalattiti e dai lampi.

— Mio capitano! Amici! — urlò il vecchio marinaio, sfuggito così miracolosamente alla morte.

Don José, vedendo che la caverna si era vuotata, si era lanciato in avanti, gridando:

— Ah, mio bravo Reton! Quanto sono felice di averti salvato!

I due lupi di mare, molto commossi, si erano gettati l'uno nelle braccia dell'altro.

— E anche a me una buona stretta, bosmano, — disse don Pedro, facendosi avanti.

— Ah! signore! — gridò Reton, che aveva le lagrime agli occhi. — E vostra sorella?

— È al sicuro, — disse il capitano. — E ora via di corsa, prima che i selvaggi si rimettano dallo spavento e ritornino per vendicare il loro stregone... Amici, in ritirata!

Indugiare in quella caverna era estremamente pericoloso. Gli antropofaghi, cessato il panico causato da quei tuoni formidabili, potevano da un momento all'altro rientrare e scagliarsi contro il piccolo drappello e massacrarlo, cosa non difficile dato il loro numero. Una pronta ritirata era dunque necessaria.

— Lesti e trottiamo, — disse don José. — Sei ancora in gamba, Reton?

— Mi sono riposato perfino troppo e poi la gabbia era più comoda di quella dei polli.

— Allora, di corsa, vecchio mio!

Naufraghi e selvaggi s'erano ricacciati nel passaggio, procedendo rapidamente. Matemate e il prigioniero guidavano il drappello. Guadarono il canale, essendosi l'acqua molto alzata e entrarono nella seconda galleria, che doveva condurli al boschetto che sorgeva alla base della collina. Già l'apertura non doveva essere lontana, quando Matemate si fermò fiutando l'aria.

— Che cosa c'è? — chiese il capitano che gli veniva dietro, portando una torcia.

— Del fumo, — rispose il kanako facendo un gesto d'ira.

— Del fumo! — ribatté il capitano, inquieto.

— S'inoltra lungo la volta.

— Che sia scoppiato un incendio fra i boschetti della collina?

Matemate guardò il capitano aggrottando la fronte.

— Rispondi dunque, — riprese don José.

— Non sarà da questa parte che noi usciremo, — disse finalmente il kanako. — I Keti ci hanno chiuso il passo.

— Possibile?

— Lo vedi, uomo bianco. Cercano di rendere impraticabile il passaggio.

— Che si siano già accorti che siamo entrati nella caverna per di qua.

— È chiaro.

— Proviamo ad andare avanti.

— Morremo soffocati, — rispose Matemate, scuotendo il capo. — La galleria è stretta e presto sarà piena di fumo.

— E l'altro passaggio sarà egualmente chiuso?

— Certo, uomo bianco. I Keti, sono stati più veloci di noi.

— E ci assedieranno ora?

Matemate stava per rispondere, quando il capitano lo vide fare un salto indietro.

— Che cosa c'è ancora? — chiese don José maggiormente inquieto.

— Le none.

— Dove?

— S'inoltrano a sciami, cacciate dal fumo.

Una bestemmia sfuggì al capitano. Conosceva troppo bene quelle piccolissime mosche che nascono allo spuntare del giorno o alla sera e che non hanno che ventiquattro ore di esistenza e pure sono così terribili da far scappare perfino gli indigeni e da obbligarli ad abbandonare i loro villaggi. Le zanzare sono innocue in confronto a quei terribili e quasi microscopici insetti. Iniettano nelle carni un liquido così micidiale che rende pazzi di dolore quelli che vengono punzecchiati, e non è tutto. Quel liquido infernale, produce delle bollicine che se vengono grattate si tramutano in piaghe difficilissime a guarirsi. Come i Keti avevano introdotto nel passaggio quegli sciami? Nessuno avrebbe potuto dirlo. Il fatto è che le none, sospinte dal fumo, avanzavano in fitte nuvolette pronte a gettarsi sugli uomini.

— Fuggite! — gridò Matemate che aveva provati i primi morsi. — Queste sono peggiori del fumo e anche delle frecce.

I Nuku che erano nudi, furono i primi a darsela a gambe. Gli americani non tardarono a seguirli, mentre il fumo continuava a invadere la volta e le pareti della galleria mandando un acuto odore di resina che. provocava dei violentissimi colpi di tosse. Probabilmente i Keti bruciavano davanti all'apertura degli ammassi di scorze di melalenco, ricchissime di materie resinose e che sviluppano un fumo densissimo e acre. I fuggiaschi, ripassato il corso d'acqua, rientrarono nella spaziosa caverna. Là tutto era tranquillo. Nessuna nube di fumo penetrava dall'apertura principale e nessun selvaggio appariva. Certo però i nemici dovevano vegliare in buon numero davanti all'uscita, per impedire agli assediati la fuga.

— Va male — brontolò Reton. — Mi hanno salvato; e ora corriamo il pericolo di venire arrostiti tutti. Io almeno sono vecchio.

— Matemate, — disse il capitano che conservava una calma mirabile. — Fa' chiudere il passaggio perché le none non ci raggiungano. Questa via ormai per noi è diventata inutile, anzi pericolosa.

Il kanako, aiutato dai Nuku e da suo fratello barricò l'apertura elevando una vera muraglia di macigni, capace di resistere agli urti più violenti.

— Don Pedro, — proseguì il capitano — voi rimarrete qui di guardia con Koturé e quattro guerrieri. Se i Keti avanzano mi avvertirete subito.

— E voi, don José? — chiese il giovane.

— Voglio vedere che cosa fanno i nostri nemici. Se sarà possibile forzeremo l'uscita. Con due carabine, e Reton non tira male, si può fare qualcosa. Voi sapete che questi selvaggi hanno una paura indiavolata delle armi da fuoco.

— Purché non l'abbiano chiusa!

— È quello che purtroppo temo, — rispose il capitano con un sospiro.

— E allora come faremo a uscire?

— Abbiamo tempo di pensarci, don Pedro.

— Siamo senza viveri e senz'acqua.

— Per l'acqua non vi preoccupate; ne troveremo sempre lungo le stalattiti... A me, Matemate! Andiamo a vedere che cosa altro ci preparano i Keti.