Ione (Euripide)/Prologo

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Prologo

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Euripide - Ione (413 a.C. / 410 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Prologo
Personaggi Parodo
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli


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Entra Ermete e si rivolge agli spettatori.

ermete

Atlante, quei che su le bronzee spalle
sostiene il ciel, dei Numi antichi albergo,
da una Dea generò Maia, che a Giove
me procreò, ministro ai Numi, Ermète.
E a Delfi or giungo, dove l’umbilico
de la terra fissò Febo, e ai mortali
pel presente e il futuro auspici canta.
Ché fra gli Elleni sorge una città
non ignobile, ed ha nome da Pàllade
dall’asta d’oro, dove Febo a nozze
forzò Creúsa, figlia d’Erettèo,
dove sorgon le rupi a Borea volte,
cui de l’Èllade i prenci eccelse chiamano;
e ignoto al padre, ché lo volle il Nume,
portò nel grembo il peso; e, giunto il giorno,
nella sua casa a luce un figlio diede
Creúsa, e lo portò nell’antro stesso
dove giacque col Nume; e lo depose,
sacro alla morte, d’incavata cesta
nel tondo giro, degli antichi padri

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ossequïosa al rito, e d’Erittònio
nato dal suol. Ché Pallade a costui
due serpi accompagnò, che custodissero
il corpicciuolo, e alle vergini figlie
d’Aglàuro l’affidò: quindi il costume
che gli Erettídi1 i pargoletti crescono
fra serpi d’oro a sbalzo. E quanti aveva
la fanciulla gioielli, accanto al bimbo
che a morte sacro ella credeva, pose.
Ma Febo mio germano mi pregò:
«Muovi, fratello, al popolo aborigeno
della celebre Atene, la città,
che ben conosci, della Diva, il pargolo
prendi, or mo’ nato, dalla cava rupe,
col cestello e le fasce ond’è ravvolto,
e all’oracolo mio portalo, a Delfo,
del tempio mio sopra la soglia ponilo.
Al resto io penserò: però che il pargolo,
sappilo, è mio». Non rifiutai tal grazia
al Nume ambiguo, al fratel mio. Raccolsi
l’intrecciato cestello, e lo portai,
e il fanciullo posai sopra i gradini
di questo tempio, del canestro aprendo
il curvo grembo, ché visibil fosse
il pargoletto. Or, giunse, insieme al disco
del galoppante sol, la profetessa,
per entrare nel tempio, e gittò gli occhi
sopra il pargolo infante, e sbigottí
che ardito avesse il suo furtivo parto
recar del Dio nella dimora qualche
giovinetta di Delfo; ed a gittarlo
fuor del sacrario s’apprestava, quando
pietà rattenne la crudezza; e il Dio

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anche operò, perché non fosse il pargolo
fuor del tempio gittato. Or lo raccolse
e lo nutrí; né seppe mai che Febo
generato l’avea, né da che madre;
né conosce il fanciullo i genitori.
Or giovinetto egli scherzava, in giro
all’ara ed all’offerte; e poi che pubere
fu divenuto, del tesoro i Delfi
lo elessero custode, e fedelissimo
tesoriere; e qui, nei penetrali
del Dio, santa una vita ognor trascorre.
Creúsa poi, che die’ la vita al giovine,
a Xuto sposa andò, per tali eventi.
Fra quei d’Atene, e quelli che discendono
da Calcodónte, ed abitan l’Eubèa,
di guerra un flutto surto era. Il travaglio
Xuto affrontò, lo dissipò con l’armi;
e in premio ebbe le nozze di Creúsa,
egli che non d’Atene era, ma d’Èolo
figlio, di Giove nato, Achèo. Ma dopo
lunga seminagione, il letto sterile
a lui rimase, ed a Creúsa. Ed ora,
per ciò, per brama di figliuoli, vengono
d’Apollo al tempio; e il Nume obliquo, a ciò
spinse gli eventi, e non è, sembra, immemore;
poi che a Xuto, che giunge a quest’oracolo,
il proprio figlio esso darà, dicendolo
nato da lui: sicché, quando alla reggia
giunto egli sia, Creúsa lo conosca,
e le nozze del Dio restino occulte,
e ciò che deve abbia il fanciullo. E Ione
farà ch’ei sia chiamato in tutta l’Ellade,
e delle genti d’Asia capostipite.

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In questi anfratti ora entrerò, di lauri
velati, per saper quale il destino
del fanciullo sarà: ché dell’Ambiguo
giungere il figlio vedo qui, che gli aditi
del tempio renderà netti, con rami
d’ulivo. Io primo fra i Celesti, il nome
gli darò ch’egli deve avere: Ióne.
Entra nel boschetto di lauri.

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Entra Ione seguito da alcuni ministri del tempio. Indossa belle vesti, porta su la spalla un arco, e stringe una frasca d’alloro ornata di bende, che gli serve a spazzare l’adito sacro del tempio.

ione

La quadriga sua fulgida il sole
lampeggiare fa già su la terra.
Fuggon gli astri dinanzi al suo vampo,
dall’ètere, verso
la notte divina.
Del Parnaso le vette inaccesse
riscintillano, e il disco del giorno
rifrangono agli uomini;
e d’arida mirra vapore
si leva ai fastigi di Febo.
Sul santissimo tripode, siede
la donna di Delfo,
e canta agli Ellèni i responsi
che Febo le grida.
Ai ministri.

Via, Delfi, ministri d’Apollo,
agli argentëi gorghi castalî

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movete, di caste rugiade
spruzzatevi, e al tempio tornate.
E la bocca ad augurî di bene
custodite, e scoprite, a chi vuole
consultarli, i felici responsi
dalle labbra di Giove. Io, frattanto,
all’opera intento
a cui sin da pargolo intesi,
sacre bende e rametti d’alloro
adopero, a fare che puro
sia l’atrio del tempio di Febo,
e molle per umidi spruzzi
la soglia; e le schiere d’aligeri
che recano danno alle statue
votive, fuggiasche disperdo
con queste mie frecce:
ch’io, privo di padre e di madre,
il tempio di Febo
custodisco che m’ha nutricato.
Dà di mano alla frasca d’alloro.

Strofe
Su via, del bellissimo lauro
or ora fiorito rampollo,
che il suolo purifichi
vicino all’altare d’Apollo,
cresciuto nei sacri giardini
dove fonti prorompono roride
perenni, ed umèttano
del mirto i santissimi crini,
io con te vo’ spazzando ogni giorno
del Nume il vestibolo

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con cura perenne,
appena scintillano
del sole le rapide penne!

O Peàn, o Peàn,
che da Latona sei nato,
beato sii, beato.

Antistrofe
O Febo, m’è caro, se famulo
sono io del tuo tempio, se onoro
la sede fatidica:
mi par glorïoso lavoro,
se debbo servire Celesti
signori, e non uomini effimeri;
né stanco a sí nobile
fatica sarà ch’io mai resti.
Fu Febo mio padre: chi me
nutriva, io magnifico:
chi a me porse aiuto
nel tempio d’Apolline,
col nome di padre io saluto.

O Peàn, o Peàn,
che da Latona sei nato,
beato sii, beato.
Depone la frasca d’alloro, prende un’anfora d’oro, e versa acqua sul pavimento.

Or tregua abbia questo lavoro,
piú solchi non tracci l’alloro.
Adesso, le polle terrígene
dall’anfora d’oro

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io gitto, che il gorgo
castalïo versa,
ne spargo la rorida
rugiada, io che sorgo
dal talamo puro.
Deh, ch’io mai non cessi
dal culto di Febo; e, se pure
desister dovessi,
m’arridano fauste venture.
Come colpito da un rumore improvviso, alza gli occhi verso il cielo.

Ahi, ahi!
Già vengon gli aligeri,
del Parnaso i giacigli abbandonano.
Volate lontano, io ve l’ordino,
dai recinti e dall’auree case.
Dà di mano all’arco e alle frecce.

Io te colpirò con le frecce,
araldo di Giove, che vinci
col rostro la forza
di tutti gli alati.
Un altro, a quest’ara, ecco, remiga:
un cigno. Non volgi
altrove il purpureo pie’?
Neppure la cetra sonora,
compagna di Febo,
potrebbe sottrarti dall’arco.
Le penne distogli,
va’ sopra lo stagno di Delo.
Di sangue, se tu non m’ascolti,
saranno gli armonici
tuoi canti bagnati.

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Ehi, eh!
Che uccello è mai questo che approssima?
Vuoi forse sottessi i fastigi
dei muri, adunar pel tuo nido
festuche? La corda sonora
dell’arco t’allontanerà.
Vuoi dunque obbedire? Ritràggiti,
d’Alfèo presso i gorghi nidifica,
tra i boschi e le valli dell’Istmo,
ché i templi di Febo e le statue
non soffrano danno.
Ritegno ho d’uccidervi,
ché voi le parole dei Numi
annunciate ai mortali; ma quello
che compiere io debbo,
compirò: son di Febo ministro,
né mai cesserò dal servire
chi me sostentò.

Note

  1. [p. 336 modifica]Erettidi sono gli Ateniesi, cosí detti da un re loro Eretteo.