Istorie fiorentine/Libro ottavo/Capitolo 36

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Libro ottavo

Capitolo 36

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Libro ottavo - Capitolo 35

Ma i Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al 1492 che Lorenzo de’ Medici morì, in una felicità grandissima: perché Lorenzo, posate l’armi d’Italia, le quali per il senno e autorità sua si erano ferme, volse l’animo a fare grande sé e la sua città, e a Piero, suo primogenito, l’Alfonsina, figliuola del cavaliere Orsino, congiunse; di poi Giovanni, suo secondo figliuolo, alla dignità del cardinalato trasse. Il che tanto fu più notabile, quanto, fuora d’ogni passato esemplo, non avendo ancora quattordici anni, fu a tanto grado condotto; il che fu una scala da potere fare salire la sua casa in cielo, come poi ne’ seguenti tempi, intervenne. A Giuliano, terzo suo figliuolo, per la poca età sua e per il poco tempo che Lorenzo visse, non potette di estraordinaria fortuna provedere. Delle figliuole, l’una a Iacopo Salviati, l’altra a Francesco Cibo, la terza a Piero Ridolfi congiunse; la quarta, la quale egli, per tenere la sua casa unita, aveva maritata a Giovanni de’ Medici, si morì. Nelle altre sue private cose fu, quanto alla mercanzia, infelicissimo; perché per il disordine de’ suoi ministri, i quali, non come privati, ma come principi le sue cose amministravano, in molte parti molto suo mobile fu spento; in modo che convenne che la sua patria di gran somma di danari lo suvvenisse. Onde che quello, per non tentare più simile fortuna, lasciate da parte le mercatantili industrie, alle possessioni, come più stabili e più ferme ricchezze, si volse; e nel Pratese, nel Pisano e in Val di Pesa fece possessioni, e per utile e per qualità di edifizi e di magnificenza, non da privato cittadino, ma regie. Volsesi, dopo questo, a fare più bella e maggiore la sua città; e per ciò, sendo in quella molti spazi sanza abitazioni, in essi nuove strade, da empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde che quella città ne divenne più bella e maggiore. E perché in nel suo stato più quieta e secura vivesse, e potesse i suoi nimici, discosto da sé, combattere o sostenere, verso Bologna, nel mezzo delle alpi, il castello di Fiorenzuola affortificò; verso Siena dette principio ad instaurare il Poggio Imperiale e farlo fortissimo; verso Genova, con lo acquisto di Pietrasanta e di Serezana, quella via al nimico chiuse. Di poi, con stipendi e provisioni, manteneva suoi amici i Baglioni in Perugia, i Vitelli in Città di Castello; e di Faenza il governo particulare aveva: le quali tutte cose erano come fermi propugnacoli alla sua città. Tenne ancora, in questi tempi pacifici, sempre la patria sua in festa; dove spesso giostre e rappresentazioni di fatti e trionfi antichi si vedevano; e il fine suo era tenere la città abbondante, unito il popolo, e la nobiltà onorata. Amava maravigliosamente qualunque era in una arte eccellente; favoriva i litterati, di che messer Agnolo da Montepulciano, messer Cristofano Landini e messer Demetrio greco ne possono rendere ferma testimonianza, onde che il conte Giovanni della Mirandola, uomo quasi che divino, lasciate tutte l’altre parti di Europa che egli aveva peragrate, mosso dalla munificenzia di Lorenzo, pose la sua abitazione in Firenze. Della architettura, della musica e della poesia maravigliosamente si dilettava; e molte composizioni poetiche, non solo composte, ma comentate ancora da lui appariscono. E perché la gioventù fiorentina potesse negli studi delle lettere esercitarsi, aperse nella città di Pisa uno studio, dove i più eccellenti uomini che allora in Italia fussero condusse. A fra’ Mariano da Ghinazzano, dell’ordine di Santo Agostino, perché era predicatore eccellentissimo, uno munistero propinquo a Firenze edificò. Fu dalla fortuna e da Dio sommamente amato, per il che tutte le sue imprese ebbono felice fine e tutti i suoi nimici infelice: perché oltre ai Pazzi, fu ancora voluto, nel Carmine da Batista Frescobaldi, e nella sua villa da Baldinotto da Pistoia, ammazzare; e ciascuno d’essi, insieme con i consci de’ loro segreti, dei malvagi pensieri loro patirono giustissime pene. Questo suo modo di vivere, questa sua prudenza e fortuna, fu dai principi, non solo di Italia, ma longinqui da quella, con ammirazione cognosciuta e stimata: fece Mattia re d’Ungheria molti segni dell’amore gli portava, il Soldano con i suoi oratori e suoi doni lo vicitò e presentò; il gran Turco gli pose nelle mani Bernardo Bandini, del suo fratello ucciditore. Le quali cose lo facevano tenere in Italia mirabile. La quale reputazione ciascuno giorno, per la prudenzia sua cresceva; perché era, nel discorrere le cose eloquente e arguto, nel risolverle savio, nello esequirle presto e animoso. Né di quello si possono addurre vizi che maculassero tante sue virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse di uomini faceti e mordaci, e di giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si convenisse, in modo che molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole intra i loro trastulli mescolarsi. Tanto che, a considerare in quello e la vita leggieri, voluttuosa e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile coniunzione congiunte. Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni, causati dalla malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto, perché era da intollerabili doglie di stomaco oppresso; le quali tanto lo strinsono che di aprile, nel 1492, morì, l’anno quarantaquattro della sua età. Né morì mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama di prudenza, né che tanto alla sua patria dolesse. E come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne mostrò il cielo molti evidentissimi segni: intra i quali, l’altissima sommità del tempio di Santa Reparata fu da uno fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò, con stupore e maraviglia di ciascuno. Dolfonsi adunque della sua morte tutti i suoi cittadini e tutti i principi di Italia: di che ne feciono manifesti segni, perché non ne rimase alcuno che a Firenze, per suoi oratori, il dolore preso di tanto caso non significasse. Ma se quelli avessero cagione giusta di dolersi, lo dimostrò poco di poi lo effetto; perché, restata Italia priva del consiglio suo, non si trovò modo, per quegli che rimasono, né di empiere né di frenare l’ambizione di Lodovico Sforza, governatore del duca di Milano. Per la quale, subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi gli sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia.