Istorie fiorentine/Libro quinto/Capitolo 29

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Libro quinto

Capitolo 29

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Niccolò Piccino, in questo mezzo, seguitava il suo viaggio, e già era giunto in Romagna; e aveva operato tanto con i figliuoli di messer Pandolfo Malatesti, che, lasciati i Viniziani, si erano accostati al Duca. Questa cosa dispiacque a Vinegia; ma molto più a Firenze; perché credevono, per quella via, potere fare resistenza a Niccolò; ma veduti i Malatesti ribellati, si sbigottirono, massimamente perché temevono che Pietrogiampaolo Orsino, loro capitano, il quale si trovava nelle terre de’ Malatesti, non fusse svaligiato, e rimanere disarmati. Questa novella medesimamente sbigottì il Conte, perché temeva di non perdere la Marca, passando Niccolò in Toscana; e disposto di andare a soccorrere la casa sua, se ne venne a Vinegia; e intromesso al Principe, mostrò come la passata sua in Toscana era utile alla lega, perché la guerra si aveva a fare dove era lo esercito e il capitano del nimico, non dove erano le terre e le guardie sue: perché, vinto l’esercito, è vinta la guerra; ma vinte le terre, e lasciando intero lo esercito, diventa molte volte la guerra più viva; affermando la Marca e la Toscana essere perdute, se a Niccolò non si faceva gagliarda opposizione; le quali perdute, non aveva rimedio la Lombardia; ma quando l’avesse rimedio, non intendeva di abbandonare i suoi sudditi e i suoi amici; e che era passato in Lombardia signore, e non voleva partirsene condottiere. A questo fu replicato da il Principe come gli era cosa manifesta che s’egli, non solamente partisse di Lombardia, ma con lo esercito ripassasse il Po, che tutto lo stato loro di terra si perderebbe; e loro non erano per spendere più alcuna cosa per difenderlo, perché non è savio colui che tenta di difendere una cosa che si abbia a perdere in ogni modo; ed è, con minore infamia, meno danno perdere gli stati solo, che li stati e i danari. E quando la perdita delle cose loro seguisse, si vedrebbe allora quanto importa la reputazione de’ Viniziani a mantenere la Toscana e la Romagna. E però erano al tutto contrari alla sua opinione, perché credevono che chi vincesse in Lombardia vincerebbe in ogni altro luogo, e il vincere era facile, rimanendo lo stato del Duca, per la partita di Niccolò, debile in modo che prima si poteva fare rovinare che gli avesse o potuto rivocare Niccolò, o provedutosi di altri rimedi. E che chi esaminasse ogni cosa saviamente, vedrebbe il Duca non avere mandato Niccolò in Toscana per altro che per levare il Conte da queste imprese, e la guerra che gli ha in casa farla altrove; di modo che, andandogli dietro il Conte, se prima non si veggia una estrema necessità, si verrà ad adempiere i disegni suoi e farlo della sua intenzione godere, ma se si manterranno le genti in Lombardia e in Toscana si provvegga come e’ si può, e’ si avvedrà tardi del suo malvagio partito, e in tempo che gli arà sanza rimedio perduto in Lombardia e non vinto in Toscana. Detta adunque e replicata da ciascuno la sua opinione, si concluse che si stesse a vedere qualche giorno per vedere questo accordo de’ Malatesti con Niccolò quello partorisse, e se di Pietrogiampaulo i Fiorentini si potevono valere, e se il Papa andava di buone gambe con la lega, come gli aveva promesso. Fatta questa conclusione, pochi giorni apresso furono certificati, i Malatesti avere fatto quello accordo più per timore che per alcuna malvagia cagione, e Pietrogiampaulo esserne ito con le sue genti verso Toscana, e il Papa essere di migliore voglia per aiutare la lega che prima. I quali avvisi feciono fermare lo animo al Conte. E fu contento rimanere in Lombardia; e Neri Capponi tornassi a Firenze con mille de’ suoi cavagli e con cinquecento degli altri; e se pure le cose procedessino in modo, in Toscana, che la opera del Conte vi fusse necessaria, che si scrivesse, e che allora il Conte, sanza alcuno rispetto, si partisse. Arrivò pertanto Neri con queste genti in Firenze di aprile, e il medesimo dì giunse Giampaulo.