Istorie fiorentine/Libro quinto/Capitolo 8

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Libro quinto

Capitolo 8

../Capitolo 7 ../Capitolo 9 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

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Queste cose così governate, dove nel principio avieno sbigottiti i principi di Italia, temendo che il Duca non diventasse troppo potente, dettono loro vedendo il fine che ebbono, speranza di potere tenerlo in freno, e non ostante la lega di nuovo fatta, i Fiorentini e i Viniziani con i Genovesi si accordorono. Onde che messer Rinaldo degli Albizzi e gli altri capi de’ fuori usciti fiorentini vedendo le cose perturbate, e il mondo avere mutato viso, presono speranza di potere indurre il Duca ad una manifesta guerra contro a Firenze; e andatine a Milano, messer Rinaldo parlò al Duca in questa sentenza: - Se noi, già tuoi nimici, vegniamo ora confidentemente a supplicare gli aiuti tuoi per ritornare nella patria nostra, né tu né alcuno altro che considera le umane cose come le procedono, e quanto la fortuna sia varia, se ne debbe maravigliare; non ostante che delle passate e delle presenti azioni nostre, e teco, per quello che già facemmo, e con la patria, per quello che ora facciamo, possiamo avere manifeste e ragionevoli scuse. Niuno uomo buono riprenderà mai alcuno che cerchi di difendere la patria sua, in qualunque modo se la difenda. Né fu mai il fine nostro di iniuriarti, ma sì bene di guardare la patria nostra dalle ingiurie: di che te ne può essere testimone che, nel corso delle maggiori vittorie della lega nostra, quando noi ti cognoscemmo volto ad una vera pace, fummo più desiderosi di quella che tu medesimo: tanto che noi non dubitiamo di avere mai fatto cosa da dubitare di non potere da te qualunque grazia ottenere. Né anche la patria nostra si può dolere che noi ti confortiamo ora a pigliare quelle armi contro a di lei, dalle quali con tanta ostinazione la difendemmo; perché quella patria merita di essere da tutti i cittadini amata la quale ugualmente tutti i suoi cittadini ama, non quella che, posposti tutti gli altri, pochissimi ne adora. Né sia alcuno che danni le armi in qualunque modo contro alla patria mosse, perché le città ancora che sieno corpi misti, hanno con i corpi semplici somiglianza, e come in questi nascono molte volte infirmità che sanza il fuoco o il ferro non si possono sanare, così in quelle molte volte surge tanti inconvenienti che uno pio e buono cittadino, ancora che il ferro vi fusse necessario, peccherebbe molto più a lasciarle incurate che a curarle. Quale adunque puote essere malattia maggiore ad uno corpo d’una republica che la servitù? quale medicina è più da usare necessaria che quella che da questa infirmità la sullevi? Sono solamente quelle guerre giuste che sono necessarie, e quelle armi sono pietose dove non è alcuna speranza fuora di quelle. Io non so quale necessità sia maggiore che la nostra, o quale pietà possa superare quella che tragga la patria sua di servitù: è certissimo per tanto la causa nostra essere piatosa e giusta; il che debbe essere e da noi e da te considerato. Né per la parte tua questa giustizia manca; perché i Fiorentini non si sono vergognati, dopo una pace con tanta solennità celebrata, essersi con i Genovesi tuoi ribelli conlegati: tanto che, se la causa nostra non ti muove, ti muova lo sdegno. E tanto più veggendo la impresa facile: perché non ti debbono sbigottire i passati esempli, dove tu hai veduto la potenza di quel popolo e la ostinazione alla difesa; le quali due cose ti doverrebbono ragionevolmente ancora fare temere, quando le fussino di quella medesima virtù che allora: ma ora tutto il contrario troverrai: perché quale potenza vuoi tu che sia in una città che abbia da sé nuovamente scacciato la maggiore parte delle sue ricchezze e della sua industria? quale ostinazione vuoi tu che sia in uno popolo per sì varie e nuove nimicizie disunito? La quale disunione è cagione che ancora quelle ricchezze che vi sono rimase non si possono, in quel modo che allora si potevono, spendere; perché gli uomini volentieri consumono il loro patrimonio, quando ei veggono per la gloria, per l’onore e stato loro proprio consumarlo, sperando quello bene racquistare nella pace, che la guerra loro toglie, non quando ugualmente, nella guerra e nella pace, si veggono opprimere, avendo nell’una a sopportare la ingiuria degli nimici, nell’altra la insolenzia di coloro che gli comandano. E ai popoli nuoce molto più l’avarizia de’ suoi cittadini che la rapacità degli nimici; perché di questa si spera qualche volta vedere il fine, dell’altra non mai. Tu movevi adunque le armi, nelle passate guerre, contro a tutta una città, ora contro ad una minima parte di essa le muovi; venivi per torre lo stato a molti cittadini e buoni, ora vieni per torlo a pochi e tristi; venivi per torre la libertà ad una città, ora vieni per rendergliene. E non è ragionevole che, in tanta disparità di cagioni, ne seguino pari effetti; anzi è da sperarne una certa vittoria. La quale di quanta fortezza sia allo stato tuo facilmente lo puoi giudicare, avendo la Toscana amica e per tale e tanto obligo obligata, della quale più nelle imprese tue ti varrai che di Milano, e dove altra volta quello acquisto sarebbe stato giudicato ambizioso e violento, al presente sarà giusto e pietoso existimato. Non lasciare per tanto passare questa occasione, e pensa che se le altre tue imprese contro a quella città ti partorirono, con difficultà, spesa e infamia, questa ti abbia, con facilità, utile grandissimo e fama onestissima a parturire.