Istorie fiorentine/Libro secondo/Capitolo 37

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Libro secondo

Capitolo 37

../Capitolo 36 ../Capitolo 38 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

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Venuto adunque l’altro giorno, al suono di nona, secondo l’ordine dato, si prese le armi; e il popolo tutto, alla boce della libertà, si armò; e ciascuno si fece forte nelle sue contrade, sotto insegne con le armi del popolo, le quali dai congiurati secretamente erano state fatte. Tutti i capi delle famiglie, così nobili come popolane, convennono, e la difesa loro e la morte del Duca giurorono, eccetto che alcuni de’ Buondelmonti e de’ Cavalcanti e quelle quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse, i quali, insieme con i beccai e altri della infima plebe, armati, in Piazza, in favore del Duca concorsono. A questo romore armò il Duca il Palagio, e i suoi, che erano in diverse parti alloggiati, salirono a cavallo per ire in Piazza, e per la via furono in molti luoghi combattuti e morti; pure circa trecento cavagli vi si condussono. Stava il Duca dubio s’egli usciva fuori a combattere i nimici, o se, dentro, il Palagio difendeva. Dall’altra parte i Medici, Cavicciuli, Rucellai e altre famiglie state più offese da quello, dubitavano che, s’egli uscisse fuora, molti che gli avieno preso l’armi contro non se gli scoprissero amici, e desiderosi di torgli la occasione dello uscire fuora e dello accrescere le forze, fatto testa, assalirono la Piazza. Alla giunta di costoro, quelle famiglie popolane che si erano per il Duca scoperte, veggendosi francamente assalire, mutorono sentenza, poi che al Duca era mutata fortuna, e tutte si accostorono a’ loro cittadini, salvo che messer Uguccione Buondelmonti, che se ne andò in Palagio, e messer Giannozzo Cavalcanti il quale, ritiratosi con parte de’ suoi consorti in Mercato Nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il popolo che armato andava in Piazza, che in favore del Duca vi andasse; e per sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava che sarebbono tutti morti, se, ostinati, contro al Signore seguissero la impresa: né trovando uomo che lo seguitasse, né che della sua insolenza lo gastigasse veggendo di affaticarsi invano, per non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse. La zuffa intanto, in Piazza, intra il popolo e le genti del Duca, era grande; e benché questa il Palagio aiutasse, furono vinte; e parte di loro si missono nella podestà de’ nimici, parte, lasciati i cavagli, in Palagio si fuggirono. Mentre che la Piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati, con parte del popolo, ruppono le Stinche, le scritture del podestà e della publica camera arsono, saccheggiorono le case de’ rettori, e tutti quelli ministri del Duca che poterono avere ammazzorono. Il Duca da l’altro canto, vedendosi avere perduta la Piazza, e tutta la città nimica, e sanza speranza di alcuno aiuto, tentò se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo; e fatto venire a sé i prigioni, con parole amorevoli e grate gli liberò; e Antonio Adimari, ancora che con suo dispiacere, fece cavaliere; fece levare le insegne sue sopra il Palagio e porvi quelle del popolo: le quali cose, fatte tardi e fuora di tempo, perché erano forzate e senza grado, gli giovorono poco. Stava per tanto mal contento, assediato in Palagio, e vedeva come, per avere voluto troppo, perdeva ogni cosa; e di avere a morire fra pochi giorni o di fame o di ferro temeva. I cittadini, per dare forma allo stato, in Santa Reparata si ridussono, e creorono quattordici cittadini, per metà grandi e popolani, i quali, con il Vescovo, avessero qualunque autorità di potere lo stato di Firenze riformare. Elessono ancora sei, i quali l’autorità dei podestà, tanto che quello che era eletto venisse, avessero. Erano in Firenze, al soccorso del popolo, molte genti venute, intra i quali erano Sanesi con sei ambasciadori, uomini assai nella loro patria onorati. Costoro intra il popolo e il Duca alcuna convenzione praticorono; ma il popolo recusò ogni ragionamento d’accordo, se prima non gli era nella sua potestà dato messer Guglielmo d’Ascesi, e il figliuolo insieme con messer Cerrettieri Bisdomini, consegnato. Non voleva il Duca acconsentirlo; pure, minacciato dalle genti che erano rinchiuse con lui, si lasciò sforzare. Appariscono senza dubbio gli sdegni maggiori, e sono le ferite più gravi, quando si recupera una libertà che quando si difende: furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de’ nimici loro; e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni, non di meno la età, la forma, la innocenza sua non lo poté dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti; né saziati di straziargli con il ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perché tutti i sensi si sodisfacessero nella vendetta avendo udito prima le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le loro carni lacere, volevono ancora che il gusto le assaporasse, acciò che, come tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di dentro ancora se ne saziassero. Questo rabbioso furore quanto egli offese costoro, tanto a messer Cerrettieri fu utile; perché, stracca la moltitudine nelle crudeltà di questi duoi, di quello non si ricordò: il quale, non essendo altrimenti domandato, rimase in Palagio, donde fu la notte poi, da certi suoi parenti e amici, a salvamento tratto. Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro si concluse lo accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e di poi, fuora del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse. Dopo questo accordo, a dì 6 di agosto, partì di Firenze da molti cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino, alla renunzia, ancora che mal volentieri, ratificò; e non arebbe osservata la fede, se dal conte Simone non fusse stato di ricondurlo in Firenze minacciato. Fu questo Duca, come i governi suoi dimostrorono, avaro e crudele, nelle audienze difficile, nel rispondere superbo: voleva la servitù, non la benivolenza degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato desiderava. Né era da essere meno odiosa la sua presenza, che si fussero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba lunga e rada: tanto che da ogni parte di essere odiato meritava: onde che, in termine di dieci mesi, i suoi cattivi costumi gli tolsono quella signoria che i cattivi consigli d’altri gli avevono data.