Istorie fiorentine/Libro terzo

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Libro terzo

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Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché da questa diversità di umori tutte le altre cose che perturbano le republiche prendano il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze; avvenga che nell’una e nell’altra città diversi effetti partorissero: perché le nimicizie che furono nel principio in Roma intra il popolo e i nobili, disputando; quelle di Firenze combattendo si diffinivano, quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disaguaglianza grandissima quella città condussono, quelle di Firenze da una disaguaglianza ad una mirabile ugualità l’hanno ridutta. La quale diversità di effetti conviene che sia dai diversi fini che hanno avuto questi duoi popoli causata: perché il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava; quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne participassero, combatteva. E perché il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, tale che quella nobilità facilmente e sanza venire alle armi cedeva; di modo che, dopo alcuni dispareri, a creare una legge dove si sodisfacesse al popolo e i nobili nelle loro dignità rimanessero convenivano. Da l’altro canto, il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso e ingiusto, tale che la nobilità con maggiori forze alle sue difese si preparava, e per ciò al sangue e allo esilio si veniva de’ cittadini; e quelle leggi che di poi si creavano, non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da questo ancora procedeva che nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo i popolani essere alla amministrazione de’ magistrati, degli eserciti e degli imperii con i nobili preposti, di quella medesima virtù che erano quelli si riempievano, e quella città, crescendovi la virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo, i nobili privi de’ magistrati rimanevano; e volendo racquistargli, era loro necessario, con i governi, con lo animo e con il modo del vivere, simili ai popolani non solamente essere ma parere. Di qui nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de’ tituli delle famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che quella virtù delle armi e generosità di animo che era nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più umile e più abietto divenne. E dove Roma, sendosi quella loro virtù convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza avere un principe non si poteva mantenere, Firenze a quel grado è pervenuta, che facilmente da uno savio datore di leggie potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata. Le quali cose per la lezione del precedente libro in parte si possono chiaramente cognoscere, avendo mostro il nascimento di Firenze e il principio della sua libertà, con le cagioni delle divisioni di quella, e come le parti de’ nobili e del popolo con la tirannide del Duca di Atene e con la rovina della nobilità finirono. Restano ora a narrarsi le inimicizie intra il popolo e la plebe, e gli accidenti varii che quelle produssono.

Doma che fu la potenzia de’ nobili, e finita che fu la guerra con lo Arcivescovo di Milano, non pareva che in Firenze alcuna cagione di scandolo fusse rimasa. Ma la mala fortuna della nostra città e i non buoni ordini suoi feciono intra la famiglia degli Albizzi e quella de’ Ricci nascere inimicizia; la quale divise Firenze, come prima quella de’ Buondelmonti e Uberti, e di poi de’ Donati e de’ Cerchi aveva divisa. I pontefici, i quali allora stavano in Francia, e gli imperadori, che erano nella Magna, per mantenere la reputazione loro in Italia in varii tempi moltitudine di soldati di varie nazioni ci avevano mandati; tale che in questi tempi ci si trovavano Inghilesi, Tedeschi e Brettoni. Costoro, come, per essere finite le guerre, sanza soldo rimanevono, dietro ad una insegna di ventura, questo e quell’altro principe taglieggiavano. Venne per tanto, l’anno 1353, una di queste compagnie in Toscana, capitaneata da Monreale provenzale; la cui venuta tutte le città di quella provincia spaventò, e i Fiorentini, non solamente publicamente di gente si providdono, ma molti cittadini, intra’ quali furono gli Albizzi e i Ricci, per salute propria si armorono. Questi intra loro erano pieni di odio, e ciascuno pensava, per ottenere il principato nella repubblica, come potesse opprimere l’altro: non erano per ciò ancora venuti alle armi, ma solamente ne’ magistrati e ne’ Consigli si urtavano. Trovandosi adunque tutta la città armata, nacque a sorte una quistione in Mercato Vecchio, dove assai gente secondo che in simili accidenti si costuma, concorse. E spargendosi il romore, fu apportato ai Ricci come gli Albizzi gli assalivano, e agli Albizzi che i Ricci gli venivano a trovare; per la qual cosa tutta la città si sollevò, e i magistrati con fatica poterono l’una e l’altra famiglia frenare, acciò che in fatto non seguisse quella zuffa che a caso, e senza colpa di alcuno di loro, era stata diffamata. Questo accidente, ancora che debile, fece riaccendere più gli animi loro, e con maggiore diligenzia cercare ciascuno di acquistarsi partigiani. E perché già i cittadini, per la rovina de’ Grandi, erano in tanta ugualità venuti che i magistrati erano, più che per lo adietro non solevano, reveriti, disegnavano per la via ordinaria e sanza privata violenza prevalersi.

Noi abbiamo narrato davanti come, dopo la vittoria di Carlo I, si creò il magistrato di Parte guelfa e a quello si dette grande autorità sopra i Ghibellini; la quale il tempo, i varii accidenti e le nuove divisioni avevano talmente messa in oblivione, che molti discesi di Ghibellini i primi magistrati esercitavano. Uguccione de’ Ricci per tanto, capo di quella famiglia, operò che si rinnovasse la legge contro a’ Ghibellini; intra i quali era opinione di molti fussero gli Albizzi, i quali, molti anni adietro nati in Arezzo, ad abitare a Firenze erano venuti; onde che Uguccione pensò, rinnovando questa legge, privare gli Albizzi de’ magistrati, disponendosi per quella che qualunque disceso di Ghibellino fusse condannato se alcuno magistrato esercitasse. Questo disegno di Uguccione fu a Piero di Filippo degli Albizzi scoperto; e pensò di favorirlo, giudicando che, opponendosi, per se stesso si chiarirebbe ghibellino. Questa legge per tanto, rinnovata per la ambizione di costoro, non tolse, ma dette a Piero degli Albizzi riputazione, e fu di molti mali principio: né si può fare legge per una republica più dannosa che quella che riguarda assai tempo indietro. Avendo adunque Piero favorita la legge, quello che da i suoi nimici era stato trovato per suo impedimento gli fu via alla sua grandezza; perché, fattosi principe di questo nuovo ordine, sempre prese più autorità, sendo da questa nuova setta di Guelfi prima che alcuno altro favorito. E perché non si trovava magistrato che ricercasse quali fussero i Ghibellini, e per ciò la legge fatta non era di molto valore, provide che si desse autorità ai Capitani di chiarire i Ghibellini, e chiariti, significare loro, e ammunirgli, che non prendessero alcuno magistrato; alla quale ammunizione se non ubbidissero, rimanessero condennati. Da questo nacque che di poi tutti quelli che in Firenze sono privi di potere esercitare i magistrati si chiamano ammuniti. Ai Capitani adunque sendo con il tempo cresciuta la audacia, senza alcuno rispetto, non solamente quelli che lo meritavano ammunivano, ma qualunque pareva loro, mossi da qualsivoglia avara o ambiziosa cagione; e da il 1357, che era cominciato questo ordine, al ’66, si trovavano di già ammuniti più che 200 cittadini. Donde i Capitani e la setta de’ Guelfi era diventata potente, perché ciascuno, per timore di non essere ammunito, gli onorava, e massimamente i capi di quella, i quali erano Piero degli Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio e Carlo Strozzi. E avvenga che questo modo di procedere insolente dispiacesse a molti, i Ricci infra gli altri erano peggio contenti che alcuno, parendo loro essere stati di questo disordine cagione, per il quale vedevono rovinare la republica e gli Albizzi, loro nimici, essere, contro a’ disegni loro, diventati potentissimi.

Per tanto, trovandosi Uguccione de’ Ricci de’ Signori, volle por fine a quel male di che egli e gli altri suoi erano stati principio, e con nuova legge provide che a’ sei capitani di parte tre si aggiugnessero, de’ quali ne fussero duoi de’ minori artefici; e volle che i chiariti ghibellini avessero ad essere da ventiquattro cittadini guelfi a ciò deputati confermati. Questo provedimento temperò per allora in buona parte la potenza de’ Capitani; di modo che lo ammunire in maggiore parte mancò, e se pure ne ammunivano alcuni, erano pochi. Non di meno le sette di Albizzi e Ricci vegghiavano; e leghe, imprese, deliberazioni l’una per odio dell’altra disfavorivano. Vissesi adunque con simili travagli da il 1366 al ’71, nel qual tempo la setta de’ Guelfi riprese le forze. Era nella famiglia de’ Buondelmonti uno cavaliere chiamato messer Benchi, il quale, per i suoi meriti in una guerra contro ai Pisani, era stato fatto popolano, e per questo era a potere essere de’ Signori abile diventato; e quando egli aspettava di sedere in quel magistrato, si fece una legge, che niuno Grande fatto popolano lo potesse esercitare. Questo fatto offese assai messer Benchi, e accozzatosi con Piero degli Albizzi, deliberorono con lo ammunire battere i minori popolani e rimanere soli nel governo. E per il favore che messer Benchi aveva con la antica nobilità, e per quello che Piero aveva con la maggiore parte de’ popolani potenti, feciono ripigliare le forze alla setta de’ Guelfi, e con nuove riforme fatte nella Parte ordinorono in modo la cosa che potevono de’ Capitani e de’ ventiquattro cittadini a loro modo disporre. Donde che si ritornò ad ammunire con più audacia che prima; e la casa degli Albizzi, come capo di questa setta, sempre cresceva. Da l’altro canto, i Ricci non mancavano di impedire con gli amici, in quanto potevano, i disegni loro; tanto che si viveva in sospetto grandissimo, e temevasi per ciascuno ogni rovina.

Onde che molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San Piero Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di questi disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di più autorità, parlò in questa sentenza: - Dubitavamo molti di noi, magnifici Signori, di essere insieme, ancora che per cagione publica, per ordine privato; giudicando potere, o come prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi condannati; ma considerato poi che ogni giorno, e senza alcuno riguardo, molti cittadini per le logge e per le case, non per alcuna publica utilità, ma per loro propria ambizione convengano, giudicammo, poi che quegli che per la rovina della republica si ristringono non temano, che non avessino ancora da temere quelli che per bene e utilità publica si ragunano; né quello che altri si giudichi di noi ci curiamo, poi che gli altri quello che noi possiamo giudicare di loro non stimano. Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra ci ha fatti prima ristrignere e ora ci fa venire a voi per ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad aiutarvi spegnerlo. Il che vi potrebbe, ancora che la impresa paia difficile, riuscire, quando voi vogliate lasciare indietro i privati rispetti e usare con le publiche forze la vostra autorità. La comune corruzione di tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città; perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati. Da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono. In prima non si truova intra i loro cittadini né unione né amicizia, se non intra quelli che sono di qualche sceleratezza, o contro alla patria o contro ai privati commessa, consapevoli. E perché in tutti la religione e il timore di Dio è spento, il giuramento e la fede data tanto basta quanto l’utile: di che gli uomini si vagliano, non per osservarlo, ma perché sia mezzo a potere più facilmente ingannare; e quanto lo inganno riesce più facile e securo, tanta più gloria e loda se ne acquista: per questo gli uomini nocivi sono come industriosi lodati e i buoni come sciocchi biasimati. E veramente in nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quella avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni, esaltazioni de’ tristi. Perché i buoni, confidatisi nella innocenzia loro, non cercono, come i cattivi, di chi estraordinariamente gli difenda e onori, tanto che indefesi e inonorati rovinano. Da questo esemplo nasce lo amore delle parti e la potenza di quelle; perché i cattivi per avarizia e per ambizione, i buoni per necessità le seguano. E quello che è più pernizioso è vedere come i motori e principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o di popolare defendendo, opprimano. Perché il premio il quale della vittoria desiderano è, non la gloria dello avere liberata la città, ma la sodisfazione di avere superati gli altri e il principato di quella usurpato; dove condotti, non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare non ardischino. Di qui gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria utilità si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si deliberano. E se le altre città sono di questi disordini ripiene, la nostra ne è più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero, ma secondo la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si sono in quella sempre ordinati e ordinano. Onde nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione, ne surge un’altra; perché quella città che con le sette più che con le leggi si vuol mantenere, come una setta è rimasa in essa sanza opposizione, di necessità conviene che infra se medesima si divida; perché da quelli modi privati non si può difendere i quali essa per sua salute prima aveva ordinati. E che questo sia vero le antiche e moderne divisioni della nostra città lo dimostrano. Ciascuno credeva, destrutti che furono i Ghibellini, i Guelfi di poi lungamente felici e onorati vivessero; non di meno, dopo poco tempo, in Bianchi e in Neri si divisono. Vinti di poi i Bianchi, non mai stette la città sanza parti: ora per favorire i fuori usciti, ora per le nimicizie del popolo e de’ Grandi, sempre combattemmo; e per dare ad altri quello che d’accordo per noi medesimi possedere o non volavamo o non potavamo, ora al re Ruberto, ora al fratello, ora al figliuolo, e in ultimo al Duca di Atene, la nostra libertà sottomettemmo. Non di meno in alcuno stato mai non ci riposammo, come quelli che non siamo mai stati d’accordo a vivere liberi e di essere servi non ci contentiamo. Né dubitammo (tanto sono i nostri ordini disposti alle divisioni), vivendo ancora sotto la ubbidienza del Re, la maestà sua ad un vilissimo uomo nato in Agobio posporre. Del Duca di Atene non si debbe, per onore di questa città, ricordare; il cui acerbo e tirannico animo ci doveva fare savi e insegnare vivere: non di meno, come prima e’ fu cacciato, noi avemmo le armi in mano, e con più odio e maggiore rabbia che mai alcuna altra volta insieme combattuto avessimo, combattemmo; tanto che l’antica nobilità nostra rimase vinta e nello arbitrio del popolo si rimisse. Né si credette per molti che mai alcuna cagione di scandolo o di parte nascesse più in Firenze sendo posto freno a quelli che per la loro superbia e insopportabile ambizione pareva che ne fussero cagione; ma e’ si vede ora per esperienza quanto la opinione degli uomini è fallace e il giudizio falso; perché la superbia e ambizione de’ Grandi non si spense, ma da’ nostri popolani fu loro tolta i quali ora, secondo l’uso degli uomini ambiziosi, di ottenere il primo grado nella republica cercano; né avendo altri modi ad occuparlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento, e che era bene non fusse mai stato in questa republica, risuscitano. Egli è dato di sopra, acciò che nelle cose umane non sia nulla o perpetuo o quieto, che in tutte le republiche sieno famiglie fatali, le quali naschino per la rovina di quelle. Di queste la republica nostra, più che alcuna altra, è stata copiosa, perché non una, ma molte, l’hanno perturbata e afflitta, come feciono i Buondelmonti prima e Uberti, di poi i Donati e i Cerchi; e ora, oh cosa vergognosa e ridicula! i Ricci e gli Albizzi la perturbono e dividono. Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per ricordarvi le cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne potete ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare queste. Perché in quelle famiglie antiche era tanta grande la potenza, e tanti grandi i favori che le avevano dai principi, che gli ordini e modi civili a frenarle non bastavano; ma ora che lo Imperio non ci ha forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta e questa città è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si può reggere, non ci è molta difficultà. E questa nostra republica massimamente si può, non ostante gli antichi esempli che ci sono in contrario, non solamente mantenere unita, ma di buoni costumi e civili modi riformare, pure che Vostre Signorie si disponghino a volerlo fare. A che noi, mossi dalla carità della patria, non da alcuna privata passione, vi confortiamo. E benché la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini, ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La malignità della quale si può con la prudenza vincere, ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi. E siate contenti più tosto farlo ora con la benignità delle leggi, che, differendo, con il favore delle armi gli uomini sieno a farlo necessitati.

I Signori, mossi da quello che prima per loro medesimi cognoscevono, e di poi dalla autorità e conforti di costoro, dettono autorità a cinquantasei cittadini, perché alla salute della republica provedessero. Egli è verissimo che gli assai uomini sono più atti a conservare uno ordine buono che a saperlo per loro medesimi trovare. Questi cittadini pensorono più a spegnere le presenti sette che a torre via le cagioni delle future, tanto che né l’una cosa né l’altra conseguirono; perché le cagioni delle nuove non levorono, e di quelle che vegghiavano una più potente che l’altra, con maggiore pericolo della republica, feciono. Privorono per tanto di tutti i magistrati, eccetto che di quelli della Parte guelfa, per tre anni, tre della famiglia degli Albizzi e tre di quella de’ Ricci, intra i quali Piero degli Albizzi e Uguccione de’ Ricci furono; proibirono a tutti i cittadini entrare in Palagio, eccetto che ne’ tempi che i magistrati sedevano; providono che qualunque fusse battuto, o impeditagli la possessione de’ suoi beni, potesse, con una domanda, accusarlo ai Consigli e farlo chiarire de’ Grandi, e, chiarito, sottoporlo ai carichi loro. Questa provisione tolse lo ardire alla setta de’ Ricci e a quella degli Albizzi lo accrebbe; perché, avvenga che ugualmente fussero segnate, non di meno i Ricci assai più ne patirono; perché, se a Piero fu chiuso il palagio de’ Signori, quello de’ Guelfi, dove gli aveva grandissima autorità, gli rimase aperto; e se prima egli e chi lo seguiva erano allo ammunire caldi, diventorono, dopo questa ingiuria, caldissimi. Alla quale mala volontà ancora nuove cagioni si aggiunsono.

Sedeva nel pontificato papa Gregorio XI, il quale, trovandosi ad Avignone, governava, come gli antecessori suoi avevano fatto, la Italia per legati; i quali, pieni di avarizia e di superbia, avevano molte città afflitte. Uno di questi, il quale in quelli tempi si trovava a Bologna, presa la occasione dalla carestia che lo anno era in Firenze, pensò di insignorirsi di Toscana, e non solamente non suvvenne i Fiorentini di vivere, ma per torre loro la speranza delle future ricolte, come prima apparì la primavera, con grande esercito gli assaltò, sperando, trovandogli disarmati e affamati, potergli facilmente superare. E forse gli succedeva, se le armi con le quali quello gli assalì infedeli e venali state non fussero: perché i Fiorentini, non avendo migliore rimedio, dierono centotrentamila fiorini ai suoi soldati, e feciono loro abbandonare la impresa. Comincionsi le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole si finiscono. Questa guerra, per ambizione del Legato cominciata, fu dallo sdegno de’ Fiorentini seguita, e feciono lega con messer Bernabò e con tutte le città nimiche alla Chiesa; e creorono otto cittadini che quella amministrassero, con autorità di potere operare sanza appello e spendere sanza darne conto. Questa guerra mossa contro al Pontefice fece, non ostante che Uguccione fusse morto, risurgere quelli che avieno la setta de’ Ricci seguita, i quali, contro agli Albizzi, avevono sempre favorito messer Bernabò e disfavorita la Chiesa; e tanto più che gli Otto erano tutti nimici alla setta de’ Guelfi. Il che fece che Piero degli Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio, Carlo Strozzi e gli altri più insieme si strinsono alla offesa de’ loro avversarii; e mentre che gli Otto facevano la guerra, ed eglino ammunivano. Durò la guerra tre anni, né prima ebbe che con la morte del Pontefice termine; e fu con tanta virtù e tanta sodisfazione dello universale amministrata, che agli Otto fu ogni anno prorogato il magistrato; ed erano chiamati Santi, ancora che eglino avessero stimate poco le censure, e le chiese de’ beni loro spogliate, e sforzato il clero a celebrare gli uffizi: tanto quelli cittadini stimavano allora più la patria che l’anima. E dimostrorono alla Chiesa come prima, suoi amici, la avevano difesa, così, suoi nimici, la potevono affliggere; perché tutta la Romagna, la Marca e Perugia le feciono ribellare.

Non di meno, mentre che al Papa facevono tanta guerra, non si potevono dai Capitani di parte e dalla loro setta difendere; perché la invidia che i Guelfi avieno agli Otto faceva crescere loro l’audacia, e non che agli altri nobili cittadini, ma dall’ingiuriare alcuni degli Otto non si astenevano. E a tanta arroganza i Capitani di parte salirono, ch’eglino erano più che i Signori temuti, e con minore reverenza si andava a questi che a quelli, e più si stimava il palagio della Parte che il loro; tanto che non veniva ambasciadore a Firenze che non avesse commissione a’ Capitani. Sendo adunque morto papa Gregorio, e rimasa la città sanza guerra di fuora, si viveva dentro in grande confusione; perché da l’un canto la audacia de’ Guelfi era insopportabile, da l’altro non si vedeva modo a potergli battere: pure si giudicava che di necessità si avesse a venire alle armi, e vedere quale de’ duoi seggi dovesse prevalere. Erano dalla parte de’ Guelfi tutti gli antichi nobili, con la maggiore parte de’ più potenti popolani; dove, come dicemmo, messer Lapo, Piero e Carlo erano principi: da l’altra erano tutti i popolani di minore sorte, de’ quali erano capi gli Otto della guerra, messer Giorgio Scali, Tommaso Strozzi; con i quali Ricci, Alberti e Medici convenivano: il rimanente della moltitudine, come quasi sempre interviene, alla parte malcontenta si accostava. Parevano ai capi della setta guelfa le forze degli avversarii gagliarde, e il pericolo loro grande, qualunque volta una Signoria loro nimica volesse abbassargli; e pensando che fusse bene prevenire, si accozzorono insieme; dove le condizioni della città e dello stato loro esaminorono. E pareva loro che gli ammuniti, per essere cresciuti in tanto numero, avessero dato loro tanto carico che tutta la città fusse diventata loro nimica. A che non vedevano altro rimedio che, dove gli avieno tolto loro gli onori, torre loro ancora la città, occupando per forza il palagio de’ Signori e reducendo tutto lo stato nella setta loro, ad imitazione degli antichi Guelfi, i quali non vissono per altro nella città sicuri che per averne cacciati gli avversarii loro. Ciascuno si accordava a questo; ma discordavano del tempo.

Correva allora lo anno 1378, ed era il mese di aprile; e a messer Lapo non pareva di differire, affermando niuna cosa nuocere tanto al tempo quanto il tempo, e a loro massime, potendo nella seguente Signoria essere facilmente Salvestro de’ Medici gonfaloniere, il quale alla setta loro contrario cognoscevano. A Piero degli Albizzi, da l’altro canto, pareva da differire, perché giudicava bisognassero forze, e quelle non essere possibile, sanza dimostrazione, raccozzare, e quando fussero scoperti, in manifesto pericolo incorrerebbono. Giudicava per tanto essere necessario che il propinquo San Giovanni si aspettasse; nel quale tempo, per essere il più solenne giorno della città assai moltitudine in quella concorre, intra la quale potrebbono allora quanta gente volessero nascondere, e per rimediare a quello che di Salvestro si temeva, si ammunisse; e quando questo non paresse da fare, si ammunisse uno di Collegio del suo quartiere, e ritraendosi lo scambio, per essere le borse vote, poteva facilmente la sorte fare che quello o qualche suo consorte fusse tratto, che gli torrebbe la facultà di potere sedere gonfaloniere. Fermorono per tanto questa deliberazione; ancora che messer Lapo mal volentieri vi acconsentisse, giudicando il differire nocivo, e mai il tempo non essere al tutto commodo a fare una cosa, in modo che chi aspetta tutte le commodità, o e’ non tenta mai cosa alcuna, o, se la tenta, la fa il più delle volte a suo disavantaggio. Ammunirono costoro il collegio, ma non successe loro impedir Salvestro, perché, scoperte dagli Otto le cagioni, che lo scambio non si ritraesse operorono. Fu tratto per tanto gonfaloniere Salvestro di messer Alamanno de’ Medici. Costui, nato di nobilissima famiglia popolana che il popolo fussi da pochi potenti oppresso sopportare non poteva, e avendo pensato di porre fine a questa insolenza, vedendosi il popolo favorevole e di molti nobili popolani compagni, comunicò i disegni suoi con Benedetto Alberti, Tomaso Strozzi e messer Giorgio Scali, i quali per condurgli ogni aiuto gli promissono. Fermorono adunque secretamente una legge, la quale innovava gli ordini della giustizia contro ai Grandi, e l’autorità de’ Capitani di parte diminuiva, e a gli ammuniti dava modo di potere essere alle dignità rivocati. E perché quasi in un medesimo tempo si esperimentasse e ottenesse, avendosi prima infra i Collegi e di poi ne’ Consigli a deliberare, e trovandosi Salvestro proposto (il quale grado, quel tempo che dura, fa uno quasi che principe della città), fece in una medesima mattina il Collegio e il Consiglio ragunare; e a’ Collegi prima, divisi da quello, prepose la legge ordinata: la quale, come cosa nuova, trovò, in nel numero di pochi tanto disfavore che la non si ottenne. Onde che, veggendo Salvestro come gli erano tagliate le prime vie ad ottenerla, finse di partirsi del luogo per sue necessità, e senza che altri se ne accorgesse, ne andò in Consiglio; e salito alto, donde ciascuno lo potesse vedere e udire, disse come e’ credeva essere stato fatto gonfaloniere, non per essere giudice di cause private, che hanno i loro giudici ordinari, ma per vigilare lo stato, correggere la insolenza de’ potenti e temperare quelle leggi per lo uso delle quali si vedesse la republica rovinare; e come ad ambedue queste cose aveva con diligenzia pensato e, in quanto gli era stato possibile, proveduto; ma la malignità degli uomini in modo alle giuste sue imprese si opponeva, che a lui era tolta la via di potere operare bene, e a loro, non che di poterlo deliberare, ma di udirlo. Onde che, vedendo di non potere più in alcuna cosa alla republica né al bene universale giovare, non sapeva per qual cagione si aveva a tenere più il magistrato; il quale o egli non meritava, o altri credeva che non meritasse; e per questo se ne voleva ire a casa, acciò che quel popolo potesse porre in suo luogo un altro, che avesse o maggiore virtù o migliore fortuna di lui. E dette queste parole, si partì di Consiglio per andarne a casa.

Quelli che, in Consiglio, erano della cosa consapevoli, e quelli altri che desideravano novità, levorono il romore: al quale i Signori e i Collegi corsono; e veduto il loro Gonfaloniere partirsi, con prieghi e con autorità lo ritennano, e lo ferono in Consiglio, il quale era pieno di tumulto, ritornare: dove molti nobili cittadini furono con parole ingiuriosissime minacciati, intra i quali Carlo Strozzi fu da uno artefice preso per il petto e voluto ammazzare, e con fatica fu da’ circunstanti difeso. Ma quello che suscitò maggiore tumulto e messe in arme la città fu Benedetto degli Alberti; il quale, dalle finestre del Palagio, con alta voce chiamò il popolo alle armi; e subito fu piena la Piazza di armati; donde che i Collegi quello che prima, pregati, non avevono voluto fare, minacciati e impauriti feciono. I Capitani di parte, in questo medesimo tempo, avevono assai cittadini nel loro palagio ragunati, per consigliarsi come si avessero contro all’ordine de’ Signori a difendere; ma come si sentì levato il romore e si intese quello che per i Consigli si era deliberato, ciascuno si rifuggì nelle case sue. Non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo. Fu la intenzione di Salvestro creare quella legge e posare la città; e la cosa procedette altrimenti; perché gli umori mossi avevono in modo alterato ciascuno, che le botteghe non si aprivano, i cittadini si afforzavano per le case, molti il loro mobile per i munisteri e per le chiese nascondevano, e pareva che ciascuno temesse qualche propinquo male. Ragunoronsi i corpi delle Arti, e ciascuna fece un sindaco; onde i Priori chiamorono i loro collegi e quelli sindachi, e consultorono tutto un giorno come la città con sodisfazione di ciascuno si potesse quietare; ma per essere i pareri diversi, non si accordorono. L’altro giorno seguente, le Arti trassono fuora le loro bandiere: il che sentendo i Signori, e dubitando di quello che avvenne, chiamorono il Consiglio per porvi rimedio. Né fu ragunato a pena, che si levò il romore e subito le insegne delle Arti, con grande numero di armati dietro, furono in Piazza. Onde che il Consiglio, per dare alle Arti e al popolo di contentargli speranza, e torre loro la occasione del male, dette generale potestà, la quale si chiama in Firenze balia, ai Signori, Collegi, agli Otto, a’ Capitani di parte e a’ sindachi delle Arti, di potere riformare lo stato della città a comune benifizio di quella. E mentre che questo si ordinava, alcune insegne delle Arti, e di quelle di minori qualità, sendo mosse da quelli che desideravono vendicarsi delle fresche ingiurie ricevute dai Guelfi, dalle altre si spiccorono, e la casa di messer Lapo da Castiglionchio saccheggiorono e arsono. Costui, come intese la Signoria avere fatto impresa contro agli ordini de’ Guelfi, e vide il popolo in arme, non avendo altro rimedio che nascondersi o fuggire, prima in Santa Croce si nascose, di poi, vestito da frate, in Casentino se ne fuggì; dove più volte fu sentito dolersi di sé, per avere consentito a Piero degli Albizzi, e di Piero per avere voluto aspettare San Giovanni ad assicurarsi dello stato. Ma Piero e Carlo Strozzi, ne’ primi romori, si nascosono, credendo, cessati quelli, per avere assai parenti e amici, potere stare in Firenze securi. Arsa che fu la casa di messer Lapo, perché i mali con difficultà si cominciono e con facilità si accrescono, molte altre case furono, o per odio universale o per private nimicizie, saccheggiate e arse. E per avere compagnia che con maggiore sete di loro a rubare i beni d’altri gli accompagnasse, le publiche prigioni ruppono; e di poi il munistero degli Agnoli e il convento di Santo Spirito, dove molti cittadini avevono il loro mobile nascoso, saccheggiorono. Né campava la publica Camera dalle mani di questi predatori, se dalla reverenza d’uno de’ Signori non fusse stata difesa: il quale, a cavallo, con molti armati dietro, in quel modo che poteva alla rabbia di quella moltitudine si opponeva. Mitigato in parte questo populare furore, sì per la autorità de’ Signori, sì per essere sopraggiunta la notte, l’altro dì poi la Balia fece grazia agli ammuniti, con questo, che non potessero, per tre anni, esercitare alcuno magistrato: annullorono le leggi fatte in pregiudizio de’ cittadini dai Guelfi; chiarirono ribelli messer Lapo da Castiglionchio e i suoi consorti, e con quello più altri dallo universale odiati. Dopo le quali deliberazioni, i nuovi Signori si publicorono, de’ quali era gonfaloniere Luigi Guicciardini; per i quali si prese speranza di fermare i tumulti, parendo a ciascuno che fussero uomini pacifici e della quiete comune amatori.

Non di meno non si aprivono le botteghe, e i cittadini non posavano le armi, e guardie grandi per tutta la città si facevano; per la qual cosa i Signori non presono il magistrato fuora del Palagio, con la solita pompa, ma dentro, sanza osservare alcuna cerimonia. Questi Signori giudicorono niuna cosa essere più utile da farsi, nel principio del loro magistrato, che pacificare la città; e però feciono posare le armi, aprire le botteghe, partire di Firenze molti del contado stati chiamati da’ cittadini in loro favore; ordinorono in di molti luoghi della città guardie: di modo che, se gli ammuniti si fussero potuti quietare, la città si sarebbe quietata. Ma eglino non erano contenti di aspettare tre anni a riavere gli onori; tanto che, a loro sodisfazione, le Arti di nuovo si ragunorono e ai Signori domandorono che, per bene e quiete della città, ordinassero che qualunque cittadino, in qualunque tempo, de’ Signori, di Collegio, Capitano di parte, o Consolo di qualunque Arte fusse stato, non potesse essere ammunito per ghibellino; e di più, che nuove imborsazioni nella parte guelfa si facessero, e le fatte si ardessero. Queste domande, non solamente dai Signori, ma subito da tutti i Consigli furono accettate; per il che parve che i tumulti, che già di nuovo erano mossi, si fermassero. Ma perché agli uomini non basta ricuperare il loro, che vogliono occupare quello d’altri e vendicarsi, quelli che speravano ne’ disordini mostravano agli artefici che non sarebbono mai sicuri, se molti loro nimici non erano cacciati e destrutti. Le quali cose presentendo i Signori, feciono venire avanti a loro i magistrati delle Arti insieme con i loro sindachi; ai quali Luigi Guicciardini gonfaloniere parlò in questa forma: - Se questi Signori, e io insieme con loro, non avessimo, buon tempo è, cognosciuta la fortuna di questa città, la quale fa che, fornite le guerre di fuora, quelle di dentro cominciono, noi ci saremmo più maravigliati de’ tumulti seguiti, e più ci arebbono arrecato dispiacere. Ma perché le cose consuete portono seco minori affanni, noi abbiamo i passati romori con pazienza sopportati, sendo massimamente senza nostra colpa incominciati, e sperando quelli, secondo lo esemplo de’ passati, dovere avere qualche volta fine, avendovi di tante e sì gravi domande compiaciuti; ma presentendo come voi non quietate, anzi volete che a’ vostri cittadini nuove ingiurie si faccino, e con nuovi esili si condannino, cresce, con la disonestà vostra, il dispiacere nostro. E veramente, se noi avessimo creduto che, ne’ tempi del nostro magistrato, la nostra città, o per contrapporci a voi o per compiacervi, avesse a rovinare, noi aremmo con la fuga o con lo esilio fuggito questi onori; ma sperando avere a convenire con uomini che avessero in loro qualche umanità, e alla loro patria qualche amore, prendemmo il magistrato volentieri, credendo, con la nostra umanità, vincere in ogni modo l’ambizione vostra. Ma noi vediamo ora per esperienza che quanto più umilmente ci portiamo, quanto più vi concediamo, tanto più insuperbite, e più disoneste cose comandate. E se noi parliamo così, non facciamo per offendervi, ma per farvi ravvedere; perché noi vogliamo che uno altro vi dica quello che vi piace, noi vogliamo dirvi quello che vi sia utile. Diteci, per vostra fe’, qual cosa è quella che voi possiate onestamente più desiderare da noi? Voi avete voluto torre l’autorità a’ Capitani di parte: la si è tolta; voi avete voluto che si ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme: noi l’abbiamo acconsentito; voi volesti che gli ammuniti ritornassero negli onori: e si è permesso; noi, per i prieghi vostri, a chi ha arse le case e spogliate le chiese abbiamo perdonato, e si sono mandati in esilio tanti onorati e potenti cittadini, per sodisfarvi; i Grandi, a contemplazione vostra, si sono con nuovi ordini raffrenati. Che fine aranno queste vostre domande, o quanto tempo userete voi male la liberalità nostra? Non vedete voi che noi sopportiamo con più pazienza lo esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno queste vostre disunioni questa vostra città? Non vi ricordate voi, che quando l’è stata disunita, Castruccio, un vile cittadino lucchese, l’ha battuta? un Duca di Atene, privato condottiere vostro, l’ha subiugata? Ma quando la è stata unita, non l’ha potuta superare uno Arcivescovo di Milano e uno Papa; i quali, dopo tanti anni di guerra, sono rimasi con vergogna. Perché volete voi adunque che le vostre discordie quella città, nella pace, faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno, nella guerra, lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni vostre, altro che servitù? o de’ beni che voi ci avete rubati o rubasse, altro che povertà? perché sono quelli che, con le industrie nostre, nutriscono tutta la città; de’ quali sendone spogliati, non potreno nutrirla; e quelli che gli aranno occupati, come cosa male acquistata, non gli sapranno perservare: donde ne seguirà la fame e la povertà della città. Io e questi Signori vi comandiamo, e, se la onestà lo consente, vi preghiamo, che voi fermiate, una volta, lo animo; e siate contenti stare quieti a quelle cose che per noi si sono ordinate; e quando pure ne volesse alcuna di nuovo, vogliate civilmente, e non con tumulto e con le armi, domandarle, perché, quando le sieno oneste, sempre ne sarete compiaciuti, e non darete occasione a malvagi uomini, con vostro carico e danno, sotto le spalle vostre, di rovinare la patria vostra -. Queste parole, perché erano vere, commossono assai gli animi di quelli cittadini; e umanamente ringraziorono il Gonfaloniere di avere fatto l’ufficio con loro di buon Signore e con la città di buono cittadino, offerendosi essere presti ad ubbidire a quanto era stato loro commesso. E i Signori, per darne loro cagione, deputorono duoi cittadini per qualunque de’ maggiori magistrati, i quali, insieme con i sindachi delle Arti, praticassero se alcuna cosa fusse da riformare a quiete comune, e ai Signori la referissero.

Mentre che queste cose così procedevano, nacque un altro tumulto, il quale assai più che il primo offese la republica. La maggiore parte delle arsioni e ruberie seguite ne’ prossimi giorni erano state dalla infima plebe della città fatte; e quelli che infra loro si erano mostri più audaci temevano, quietate e composte le maggiori differenze, di essere puniti de’ falli commessi da loro, e come gli accade sempre, di essere abbandonati da coloro che al fare male gli avevano instigati. A che si aggiugneva uno odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi delle Arti, non parendo loro essere sodisfatti delle loro fatiche secondo che giustamente credevano meritare. Perché quando, ne’ tempi di Carlo primo, la città si divise in Arti, si dette capo e governo a ciascuna, e si provide che i sudditi di ciascuna Arte dai capi suoi nelle cose civili fussero giudicati. Queste Arti, come già dicemmo, furono nel principio dodici; di poi, col tempo, tante se ne accrebbono che le aggiunsono a ventuna; e furono di tanta potenza che le presono in pochi anni tutto il governo della città. E perché, intra quelle delle più e delle meno onorate si trovavano, in maggiori e minori si divisono; e sette ne furono chiamate maggiori e quattordici minori. Da questa divisione, e dalle altre cagioni che di sopra aviamo narrate, nacque l’arroganza de’ Capitani di parte; perché quelli cittadini che erano anticamente stati guelfi sotto il governo de’ quali sempre quello magistrato girava, i popolani delle maggiori Arti favorivano e quelli delle minori con i loro defensori perseguitavano; donde contro a di loro tanti tumulti quanti abbiamo narrati nacquono. Ma perché nello ordinare i corpi delle Arti molti di quelli esercizi in ne’ quali il popolo minuto e la plebe infima si affatica sanza avere corpi di Arti proprie restorono, ma a varie Arti, conformi alle qualità delli loro esercizi, si sottomessono, ne nasceva che quando erano o non sodisfatti delle fatiche loro, o in alcun modo dai loro maestri oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al magistrato di quella Arte che gli governava; dal quale non pareva loro fusse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse. E di tutte le Arti, che aveva e ha più di questi sottoposti, era ed è quella della lana; la quale, per essere potentissima, e la prima, per autorità, di tutte, con la industria sua la maggiore parte della plebe e popolo minuto pasceva e pasce.

Gli uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all’Arte della lana come alle altre, per le cagioni dette, erano pieni di sdegno: al quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da loro, convennono di notte più volte insieme, discorrendo i casi seguiti e mostrando l’uno all’altro ne’ pericoli si trovavano. Dove alcuno de’ più arditi e di maggiore esperienza, per inanimire gli altri, parlò in questa sentenza: - Se noi avessimo a deliberare ora se si avessero a pigliare le armi, ardere e rubare le case de’ cittadini, spogliare le chiese, io sarei uno di quelli che lo giudicherei partito da pensarlo, e forse approverei che fusse da preporre una quieta povertà a uno pericoloso guadagno; ma perché le armi sono prese e molti mali sono fatti, e’ mi pare che si abbia a ragionare come quelle non si abbiano a lasciare e come de’ mali commessi ci possiamo assicurare. Io credo certamente che, quando altri non ci insegnasse, che la necessità ci insegni. Voi vedete tutta questa città piena di rammarichii e di odio contro a di noi: i cittadini si ristringono, la Signoria è sempre con i magistrati: crediate che si ordiscono lacci per noi, e nuove forze contro alle teste nostre si apparecchiano. Noi dobbiamo per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre deliberazioni, duoi fini: l’uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne’ prossimi giorni gastigati, l’altro di potere con più libertà e più sodisfazione nostra che per il passato vivere. Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno perdonati gli errori vecchi, farne de’ nuovi, raddoppiando i mali, e le arsioni e le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo avere di molti compagni, perché dove molti errano niuno si gastiga, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano; e quando molti patiscono pochi cercano di vendicarsi, perché le ingiurie universali con più pazienza che le particulari si sopportono. Il multiplicare adunque ne’ mali ci farà più facilmente trovare perdono, e ci darà la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo. E parmi che noi andiamo a un certo acquisto, perché quelli che ci potrebbono impedire sono disuniti e ricchi: la disunione loro per tanto ci darà la vittoria, e le loro ricchezze, quando fieno diventate nostre, ce la manterranno. Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ei ci rimproverano; perché tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi, e da la natura sono stati fatti ad uno modo. Spogliateci tutti ignudi: voi ci vedrete simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle nostre: noi senza dubio nobili ed eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le ricchezze ci disaguagliano. Duolmi bene che io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscienza, si pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi fusse; perché né conscienza né infamia vi debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna. E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né debbe quella dello inferno capere. Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, di poi, ch’eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano. E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti. Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno. Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione. La quale non può essere a noi offerta dalla fortuna maggiore, sendo ancora i cittadini disuniti, la Signoria dubia, i magistrati sbigottiti: talmente che si possono, avanti che si unischino e fermino l’animo, facilmente opprimere: donde o noi rimarreno al tutto principi della città, o ne areno tanta parte che non solamente gli errori passati ci fieno perdonati, ma areno autorità di potergli di nuove ingiurie minacciare. Io confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l’audacia giudicata prudenza, e del pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi non tennono mai conto, perché sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo: ancora che io creda, dove si vegga apparecchiare le carcere, i tormenti e le morti, che sia da temere più lo starsi che cercare di assicurarsene; perché nel primo i mali sono certi, e nell’altro dubi. Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de’ vostri superiori e della ingiustizia de’ vostri magistrati! Ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro superiore, ch’eglino abbiano più a dolersi e temere di voi che voi di loro. La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarla. Voi vedete le preparazioni de’ vostri avversarii: preoccupiamo i pensieri loro; e quale di noi prima ripiglierà l’armi, sanza dubio sarà vincitore, con rovina del nimico ed esaltazione sua: donde a molti di noi ne risulterà onore, e securità a tutti -. Queste persuasioni accesono forte i già per loro medesimi riscaldati animi al male, tanto che deliberorono prendere le armi, poi ch’eglino avessero più compagni tirati alla voglia loro; e con giuramento si obligorono di soccorrersi, quando accadessi che alcuno di loro fusse dai magistrati oppresso.

Mentre che costoro ad occupare la republica si preparavano, questo loro disegno pervenne a notizia de’ Signori: per la qual cosa ebbono uno Simone dalla Piazza nelle mani, da il quale intesono tutta la congiura, e come il giorno seguente volevono levare il romore. Onde che, veduto il pericolo, ragunorono i Collegi e quelli cittadini che insieme con i sindachi delle Arti l’unione della città praticavano (e avanti che ciascuno fusse insieme era già venuta la sera), e da quelli i Signori furono consigliati che si facessero venire i consoli delle Arti: i quali tutti consigliorono che tutte le genti d’arme in Firenze venire si facessero, e i gonfalonieri del popolo fussero la mattina, con le loro compagnie armate in Piazza. Temperava l’oriolo di Palagio, in quel tempo che Simone si tormentava e che i cittadini si ragunavano, uno Niccolò da San Friano; e accortosi di quello che era, tornato a casa, riempié di tumulto tutta la sua vicinanza; di modo che, in un subito, alla piazza di Santo Spirito più che mille uomini armati si ragunorono. Questo romore pervenne agli altri congiurati; e San Piero Maggiore e San Lorenzo, luoghi deputati da loro, di uomini armati si riempierono. Era già venuto il giorno, il quale era il 21 di luglio, e in Piazza, in favore de’ Signori, più che ottanta uomini d’arme comparsi non erano; e de’ gonfalonieri non ve ne venne alcuno, perché, sentendo essere tutta la città in arme, di abbandonare le loro case temevono. I primi che della plebe furono in Piazza furono quelli che a San Piero Maggiore ragunati s’erano; allo arrivare de’ quali la gente d’arme non si mosse. Comparsono, appresso a questi, l’altra moltitudine; e non trovato riscontro, con terribili voci i loro prigioni alla Signoria domandavano; e per avergli per forza, poi che non erano per minacce renduti, le case di Luigi Guicciardini arsono; di modo che i Signori, per paura di peggio, gli consegnorono loro. Riavuti questi, tolsono il gonfalone della giustizia allo esecutore, e sotto quello le case di molti cittadini arsono, perseguitando quelli i quali o per publica o per privata cagione erano odiati. E molti cittadini, per vendicare loro private ingiurie, alle case de’ loro nimici li condussero: perché bastava solo che una voce, nel mezzo della moltitudine: - a casa il tale! - gridasse, o che quello che teneva il gonfalone in mano vi si volgesse. Tutte le scritture ancora dell’Arte della lana arsono. Fatti che gli ebbono molti mali, per accompagnarli con qualche lodevole opera, Salvestro de’ Medici e tanti altri cittadini feciono cavalieri, che il numero di tutti a sessantaquattro aggiunse; intra i quali Benedetto e Antonio degli Alberti, Tommaso Strozzi e simili loro confidenti furono; non ostante che molti forzatamente ne facessero. Nel quale accidente, più che alcuna altra cosa, è da notare lo avere veduto a molti ardere le case e quelli poco di poi, in un medesimo giorno, da quelli medesimi (tanto era propinquo il beneficio alla ingiuria) essere stati fatti cavalieri, il che a Luigi Guicciardini gonfaloniere di giustizia intervenne. I Signori, intra tanti tumulti, vedendosi abbandonati da le genti d’arme, dai capi delle Arti e dai loro gonfalonieri, erano smarriti; perché niuno secondo l’ordine dato gli aveva soccorsi, e di sedici gonfaloni solamente la insegna del Lione d’oro e quella del Vaio, sotto Giovenco della Stufa e Giovanni Cambi, vi comparsono; e questi poco tempo in Piazza dimororono, perché, non si vedendo seguitare dagli altri, ancora eglino si partirono. Dei cittadini dall’altra parte, vedendo il furore di questa sciolta moltitudine, e il Palagio abbandonato, alcuni dentro alle loro case si stavano, alcuni altri la turba degli armati seguitavano, per potere, trovandosi infra loro, meglio le case sue e quelle degli amici difendere: e così veniva la potenza loro a crescere e quella de’ Signori a diminuire. Durò questo tumulto tutto il giorno; e venuta la notte, al palagio di messere Stefano, dietro alla chiesa di San Barnaba, si fermorono. Passava il numero loro più che seimilia, e avanti apparisse il giorno, si feciono dalle Arti, con minacce, le loro insegne mandare. Venuta di poi la mattina, con il gonfalone della giustizia e con le insegne delle Arti innanzi, al palagio del podestà ne andorono; e ricusando il podestà di darne loro la possessione, lo combatterono e vinsono.

I Signori, volendo fare pruova di comporre con loro, poi che per forza non vedevono modo a frenargli, chiamorono quattro de’ loro Collegi e quelli al palagio del podestà, per intendere la mente loro, mandorono. I quali trovorono che i capi della plebe, con i sindachi delle Arti e alcuni cittadini, avevano quello che volevano alla Signoria domandare deliberato. Di modo che alla Signoria con quattro della plebe deputati e con queste domande tornorono: che l’Arte della lana non potesse più giudice forestiero tenere; che tre nuovi corpi d’arti si facessero, l’uno per i cardatori e tintori, l’altro per i barbieri, farsettai, sarti e simili arti meccaniche, il terzo per il popolo minuto; e che di queste tre Arti nuove sempre fussero duoi Signori, e delle quattordici Arti minori tre; che la Signoria alle case dove queste nuove Arti potessero convenire provedesse, che niuno a queste Arti sottoposto, infra duoi anni, potesse essere a pagare debito che fusse di minore somma che cinquanta ducati constretto; che il Monte fermasse gli interessi, e solo i capitali si restituissero; che i confinati e condannati fussero assoluti; che agli onori tutti gli ammuniti si restituissero. Molte altre cose, oltre a queste, in beneficio dei loro particulari fautori domandorono, e così, per il contrario, che molti de’ loro nimici fussero confinati e ammuniti vollono. Le quali domande, ancora che alla republica disonorevoli e gravi, per timore di peggio, furono dai Signori, Collegi e Consiglio del popolo subito deliberate. Ma a volere che le avessero la loro perfezione, era necessario ancora nel Consiglio del comune si ottenessero; il che, non si potendo in uno giorno ragunare duoi Consigli, differire all’altro dì convenne. Non di meno parve che per allora le Arti contente e la plebe sodisfatta ne rimanesse; e promissono che, data la perfezione alla legge, ogni tumulto poserebbe. Venuta la mattina di poi, mentre che nel Consiglio del comune si deliberava, la moltitudine, impaziente e volubile, sotto le solite insegne venne in Piazza, con sì alte voci e sì spaventevoli, che tutto il Consiglio e i Signori spaventorono. Per la qual cosa Guerriante Marignolli, uno de’ Signori, mosso più da il timore che da alcuna altra sua privata passione, scese, sotto colore di guardare la porta, da basso e se ne fuggì a casa. Né potette, uscendo fuora, in modo celarsi che non fusse da la turba ricognosciuto: né gli fu fatto altra ingiuria, se non che la moltitudine gridò, come lo vide, che tutti Signori il Palagio abbandonassero; se non, che ammazzerebbono i loro figliuoli e le loro case arderebbono. Era, in quel mezzo, la legge deliberata e i Signori nelle loro camere ridutti; e il Consiglio, sceso da basso e sanza uscire fuora, per la loggia e per la corte, desperato della salute della città, si stava, tanta disonestà vedendo in una moltitudine, e tanta malignità o timore in quelli che l’arebbono possuta o frenare o opprimere. I Signori ancora erano confusi e della salute della patria dubi, vedendosi da uno di loro abbandonati e da niuno cittadino, non che di aiuto, ma di consiglio suvvenuti. Stando adunque di quello potessero o dovessero fare incerti, messer Tommaso Strozzi e messer Benedetto Alberti, mossi o da propria ambizione, desiderando rimanere signori del Palagio, o perché pure così credevono essere bene, gli persuasono a cedere a questo impeto popolare e, privati, alle loro case tornarsene. Questo consiglio, dato da coloro che erano stati capi del tumulto, fece, ancora che gli altri cedessero, Alamanno Acciaiuoli e Niccolò del Bene, duoi de’ Signori, sdegnare; e tornato in loro un poco di vigore, dissono che se gli altri se ne volevono partire non possevono rimediarvi, ma non volevono già, prima che il tempo lo permettesse, lasciare la loro autorità, se la vita con quella non perdevano. Questi dispareri raddoppiorono a’ Signori la paura e al popolo lo sdegno; tanto che il Gonfaloniere, volendo più tosto finire il suo magistrato con vergogna che con pericolo, a messer Tommaso Strozzi si raccomandò, il quale lo trasse di Palagio e alle sue case lo condusse. Gli altri Signori in simile modo l’uno dopo l’altro si partirono; onde che Alamanno e Niccolò, per non essere tenuti più animosi che savi, vedendosi rimasi soli, ancora eglino se ne andorono; e il Palagio rimase nelle mani della plebe e degli Otto della guerra, i quali ancora non avevono il magistrato deposto.

Aveva, quando la plebe entrò in Palagio, la insegna del gonfaloniere di giustizia in mano uno Michele di Lando pettinatore di lana. Costui, scalzo e con poco indosso, con tutta la turba dietro salì sopra la sala, e come e’ fu nella audienza de’ Signori, si fermò, e voltosi alla moltitudine, disse: - Voi vedete: questo Palagio è vostro, e questa città è nelle vostre mani. Che vi pare che si faccia ora? - Al quale tutti, che volevono che fusse gonfaloniere e signore e che governassi loro e la città come a lui pareva, risposono. Accettò Michele la signoria; e perché era uomo sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna obligato, deliberò quietare la città e fermare i tumulti. E per tenere occupato il popolo, e dare a sé tempo a potere ordinarsi, che si cercasse d’uno ser Nuto, stato da messer Lapo da Castiglionchio per bargello disegnato, comandò: alla quale commissione la maggior parte di quelli aveva d’intorno andorono. E per cominciare quello imperio con giustizia, il quale egli aveva con grazia acquistato, fece publicamente che niuno ardesse o rubasse alcuna cosa comandare; e per spaventare ciascuno, rizzò le forche in Piazza. E per dare principio alla riforma della città, annullò i sindachi delle Arti e ne fece de’ nuovi, privò del magistrato i Signori e i Collegi; arse le borse degli ufici. Intanto ser Nuto fu portato dalla moltitudine in Piazza e a quelle forche per un piede impiccato: del quale avendone qualunque era intorno spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di lui altro che il piede. Gli Otto della guerra da l’altra parte, credendosi, per la partita de’ Signori, essere rimasi principi della città, avevano già i nuovi Signori disegnati; il che presentendo Michele, mandò a dire loro che subito di Palagio si partissero, perché voleva dimostrare a ciascuno come sanza il consiglio loro sapeva Firenze governare. Fece di poi ragunare i sindachi delle Arti, e creò la Signoria: quattro della plebe minuta, duoi per le maggiori e duoi per le minori Arti. Fece, oltra di questo, nuovo squittino, e in tre parti divise lo stato; e volle che l’una di quelle alle nuove Arti, l’altra alle minori, la terza alle maggiori toccasse. Dette a messer Salvestro de’ Medici l’entrate delle botteghe del Ponte Vecchio, a sé la podesteria di Empoli; e a molti altri cittadini amici della plebe fece molti altri benefizi, non tanto per ristorargli delle opere loro, quanto perché d’ogni tempo contro alla invidia lo difendessero.

Parve alla plebe che Michele, nel riformare lo stato, fusse stato a’ maggiori popolani troppo partigiano; né pareva avere loro tanta parte nel governo quanta, a mantenersi in quello e potersi difendere, fusse di avere necessario; tanto che, dalla loro solita audacia spinti, ripresono le armi, e tumultuando, sotto le loro insegne, in Piazza ne vennono; e che i Signori in ringhiera per deliberare nuove cose a proposito della securtà e bene loro scendessero domandavano. Michele, veduta la arroganza loro, per non gli fare più sdegnare, senza intendere altrimenti quello che volessero, biasimò il modo che nel domandare tenevano, e gli confortò a posare le armi, e che allora sarebbe loro conceduto quello che per forza non si poteva con dignità della Signoria concedere. Per la qual cosa la moltitudine, sdegnata contro al Palagio, a Santa Maria Novella si ridusse; dove ordinorono infra loro otto capi, con ministri e altri ordini che dettono loro e reputazione e reverenzia: tale che la città aveva duoi seggi ed era da duoi diversi principi governata. Questi capi infra loro deliberorono che sempre otto, eletti dai corpi delle loro Arti, avessero con i Signori in Palagio ad abitare, e tutto quello che dalla Signoria si deliberasse dovesse essere da loro confermato; tolsono a messer Salvestro de’ Medici e a Michele di Lando tutto quello che nelle altre loro deliberazioni era stato loro concesso, assegnorono a molti di loro ufici e suvvenzioni, per potere il loro grado con dignità mantenere. Ferme queste deliberazioni, per farle valide, mandorono duoi di loro alla Signoria, a domandare che le fussero loro per i Consigli conferme, con propositi di volerle per forza, quando d’accordo non le potessero ottenere. Costoro, con grande audacia e maggiore prosunzione, a’ Signori la loro commissione esposono; e al Gonfaloniere la dignità ch’eglino gli avieno data, e l’onore fattogli, e con quanta ingratitudine e pochi rispetti si era con loro governato, rimproverorono. E venendo poi, nel fine, dalle parole alle minacce, non potette sopportare Michele tanta arroganzia, e ricordandosi più del grado che teneva che della infima condizione sua, gli parve da frenare con estraordinario modo una estraordinaria insolenza; e tratta l’arme che gli aveva cinta, prima gli ferì gravemente di poi gli fece legare e rinchiudere. Questa cosa, come fu nota, accese tutta la moltitudine d’ira; e credendo potere, armata, conseguire quello che disarmata non aveva ottenuto, prese con furore e tumulto le armi, e si mosse per ire a sforzare i Signori. Michele, dall’altra parte, dubitando di quello avvenne, deliberò di prevenire, pensando che fusse più sua gloria assalire altri che dentro alle mura aspettare il nimico, e avere, come i suoi antecessori, con disonore del Palagio e sua vergogna, a fuggirsi. Ragunato adunque gran numero di cittadini, i quali già si erano cominciati a ravvedere dello errore loro, salì a cavallo e, seguitato da molti armati, n’andò a Santa Maria Novella per combattergli. La plebe, che aveva, come di sopra dicemmo, fatta la medesima deliberazione, quasi in quel tempo che Michele si mosse partì ancora ella per ire in Piazza; e il caso fece che ciascuno fece diverso cammino, tale che per la via non si scontrorono. Donde che Michele, tornato indietro, trovò che la Piazza era presa e che il Palagio si combatteva; e appiccata con loro la zuffa, gli vinse; e parte ne cacciò della città, parte ne constrinse a lasciare l’armi e nascondersi. Ottenuta la impresa, si posorono i tumulti, solo per la virtù del Gonfaloniere. Il quale d’animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i pochi che abbino benificata la patria loro: perché, se in esso fusse stato animo o maligno o ambizioso, la republica al tutto perdeva la sua libertà, e in maggiore tirannide che quella del Duca di Atene perveniva; ma la bontà sua non gli lasciò mai venire pensiero nello animo che fusse al bene universale contrario, la prudenza sua gli fece condurre le cose in modo che molti della parte sua gli cederono e quelli altri potette con le armi domare. Le quali cose feciono la plebe sbigottire, e i migliori artefici ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro che avevano doma la superbia de’ Grandi, il puzzo della plebe sopportare.

Era già, quando Michele ottenne contro alla plebe la vittoria, tratta la nuova Signoria; intra la quale erano duoi di tanta vile e infame condizione, che crebbe il desiderio agli uomini di liberarsi da tanta infamia. Trovandosi adunque, quando il primo giorno di settembre i Signori nuovi presono il magistrato, la Piazza piena di armati, come prima i Signori vecchi fuora di Palagio furono, si levò intra gli armati, con tumulto, una voce, come e’ non volevono che del popolo minuto alcuno ne fusse de’ Signori; tale che la Signoria, per sodisfare loro, privò del magistrato quelli duoi, de’ quali l’uno il Tria e l’altro Baroccio si chiamava; in luogo de’ quali messer Giorgio Scali e Francesco di Michele elessono. Annullorono ancora l’Arte del popolo minuto, e i subietti a quella, eccetto che Michele di Lando e Lorenzo di Puccio e alcuni altri di migliore qualità, degli ufici privorono; divisono gli onori in due parti, l’una delle quali alle maggiori, l’altra alle minori Arti consegnorono, solo de’ Signori vollono che sempre ne fusse cinque de’ minori artefici e quattro de’ maggiori, e il gonfaloniere ora all’uno ora all’altro membro toccasse. Questo stato così ordinato fece, per allora, posare la città; e benché la republica fusse stata tratta delle mani della plebe minuta restorono più potenti gli artefici di minore qualità che i nobili popolani; a che questi furono di cedere necessitati, per torre al popolo minuto i favori delle Arti, contentando quelle. La qual cosa fu ancora favorita da coloro che desideravano che rimanessero battuti quelli che, sotto il nome di Parte guelfa, avevono con tanta violenza tanti cittadini offesi. E perché infra gli altri che questa qualità di governo favorivano furono messer Giorgio Scali, messer Benedetto Alberti, messer Salvestro de’ Medici e messer Tommaso Strozzi, quasi che principi della città rimasono. Queste cose così procedute e governate la già cominciata divisione tra i popolani nobili e i minori artefici, per la ambizione de’ Ricci e degli Albizzi, confermorono: dalla quale perché seguirono in varii tempi di poi effetti gravissimi, e molte volte se ne arà a fare menzione, chiamereno l’una di queste parte popolare e l’altra plebea. Durò questo stato tre anni, e di esili e di morti fu ripieno, perché quelli che governavano, in grandissimo sospetto, per essere dentro e di fuora molti mali contenti, vivevano: i mali contenti di dentro o e’ tentavano o e’ si credevano che tentassino ogni dì cose nuove; quelli di fuora, non avendo rispetto che gli frenasse, ora per mezzo di quello principe, ora di quella republica, varii scandoli, ora in questa ora in quella parte, seminavano.

Trovavasi in questi tempi a Bologna Giannozzo da Salerno, capitano di Carlo di Durazzo, disceso de’ Reali di Napoli, il quale, disegnando fare la impresa del Regno contro alla reina Giovanna, teneva questo suo capitano in quella città, per i favori che da papa Urbano, nimico della Reina, gli erano fatti. Trovavansi a Bologna ancora molti fuori usciti fiorentini, i quali seco e con Carlo strette pratiche tenevano; il che era cagione che in Firenze per quelli che reggevano con grandissimo sospetto si vivesse, e che si prestasse facilmente fede alle calunnie di quelli cittadini che erano sospetti. Fu rivelato per tanto, in tale suspensione di animi, al magistrato, come Giannozzo da Salerno doveva a Firenze con i fuori usciti rappresentarsi e molti di dentro prendere l’armi e dargli la città. Sopra questa relazione furono accusati molti; i primi de’ quali Piero degli Albizzi e Carlo Strozzi furono nominati, e apresso a questi, Cipriano Mangioni, messer Iacopo Sacchetti, messer Donato Barbadori, Filippo Strozzi e Giovanni Anselmi; i quali tutti, eccetto Carlo Strozzi che si fuggì, furono presi; e i Signori, acciò che niuno ardisse prendere l’armi in loro favore, messer Tommaso Strozzi e messer Benedetto Alberti con assai gente armata a guardia della città deputorono. Questi cittadini presi furono esaminati, e secondo l’accusa e i riscontri, alcuna colpa in loro non si trovava; di modo che, non li volendo il Capitano condannare, gli inimici loro in tanto il popolo sollevorono, e con tanta rabbia lo commossono loro contro, che per forza furono giudicati a morte. Né a Piero degli Albizzi giovò la grandezza della casa, né la antica riputazione sua, per essere stato più tempo sopra ogni altro cittadino onorato e temuto: donde che alcuno, o vero suo amico, per farlo più umano in tanta sua grandezza, o vero suo nimico, per minacciarlo con la volubilità della fortuna, faccendo egli uno convito a molti cittadini, gli mandò uno nappo d’ariento pieno di confetti, e tra quelli nascosto un chiodo; il quale scoperto e veduto da tutti i convivanti, fu interpetrato che gli era ricordato conficcasse la ruota, perché, avendolo la Fortuna condotto nel colmo di quella, non poteva essere che, se la seguitava di fare il cerchio suo, che la non lo traesse in fondo: la quale interpetrazione fu, prima dalla sua rovina, di poi dalla sua morte verificata. Dopo questa esecuzione rimase la città piena di confusione, perché i vinti e i vincitori temevono; ma più maligni effetti da il timore di quelli che governavano nascevano, perché ogni minimo accidente faceva loro fare alla Parte nuove ingiurie, o condannando, o ammunendo, o mandando in esilio i loro cittadini; a che si aggiugnevano nuove leggi e nuovi ordini, i quali spesso in fortificazione dello stato si facevono. Le quali tutte cose seguivono con ingiuria di quelli che erano sospetti alla fazione loro; e per ciò creorono quarantasei uomini, i quali insieme con i Signori, la republica di sospetti allo stato purgassero. Costoro ammunirono trentanove cittadini, e feciono assai popolani Grandi, e assai Grandi popolani; e per potere alle forze di fuora opporsi, messer Giovanni Aguto, di nazione inghilese e reputatissimo nelle armi, soldorono, il quale aveva per il papa e per altri in Italia più tempo militato. Il sospetto di fuora nasceva da intendersi come più compagnie di gente d’arme da Carlo di Durazzo per fare l’impresa del Regno si ordinavano, con il quale era fama essere molti fuori usciti fiorentini. Ai quali pericoli, oltre alle forze ordinate, con somma di danari si provide; perché, arrivato Carlo in Arezzo, ebbe dai Fiorentini quarantamila ducati, e promisse non molestargli; seguì di poi la sua impresa, e felicemente occupò il regno di Napoli, e la reina Giovanna ne mandò presa in Ungheria. La quale vittoria di nuovo il sospetto a quelli che in Firenze tenevono lo stato accrebbe, perché non potevono credere che i loro danari più nello animo del Re potessero, che quella antica amicizia la quale aveva quella casa con i Guelfi tenuta, i quali con tanta ingiuria erano da loro oppressi.

Questo sospetto adunque, crescendo, faceva crescere le ingiurie; le quali non lo spegnevano, ma accrescevano; in modo che per la maggiore parte degli uomini si viveva in malissima contentezza. A che la insolenzia di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi si aggiugneva; i quali con la autorità loro quella de’ magistrati superavano, temendo ciascuno di non essere da loro, con il favore della plebe, oppresso. E non solamente a’ buoni, ma ai sediziosi pareva quel governo tirannico e violento. Ma perché la insolenzia di messer Giorgio qualche volta doveva avere fine, occorse che da uno suo familiare fu Giovanni di Cambio, per avere contro allo stato tenute pratiche, accusato; il quale da il Capitano fu trovato innocente; tale che il giudice voleva punire lo accusatore di quella pena che sarebbe stato punito il reo se si trovava colpevole; e non potendo messer Giorgio con prieghi né con alcuna sua autorità salvarlo, andò egli e messer Tommaso Strozzi, con moltitudine di armati, e per forza lo liberorono, e il palagio del Capitano saccheggiorono, e quello volendo salvarsi, a nascondersi constrinsono. Il quale atto riempié la città di tanto odio contro a di lui, che i suoi nimici pensorono di poterlo spegnere e di trarre la città, non solamente delle sue mani, ma di quelle della plebe, la quale tre anni, per la arroganza sua, l’aveva soggiogata. Di che dette ancora il Capitano grande occasione: il quale, cessato il tumulto, se ne andò a’ Signori, e disse come era venuto volentieri a quello ufizio al quale loro Signorie lo avevano eletto, perché pensava avere a servire uomini giusti e che pigliassero l’armi per favorire, non per impedire, la giustizia; ma poi che gli aveva veduti e provati i governi della città e il modo del vivere suo, quella dignità che volentieri aveva presa per acquistare utile e onore, volentieri la rendeva loro per fuggire pericolo e danno. Fu il Capitano confortato dai Signori, e messogli animo, promettendogli de’ danni passati ristoro e per lo avvenire sicurtà; e ristrettisi parte di loro con alcuni cittadini, di quelli che giudicavano amatori del bene commune e meno sospetti allo stato, conclusono che fusse venuta grande occasione a trarre la città della potestà di messer Giorgio e della plebe, sendo lo universale per questa ultima insolenzia alienatosi da lui. Per ciò pareva loro da usarla prima che gli animi sdegnati si riconciliassero, perché sapevono che la grazia dello universale per ogni piccolo accidente si guadagna e perde; e giudicorono che, a volere condurre la cosa, fusse necessario tirare alle voglie loro messer Benedetto Alberti, sanza il consenso del quale la impresa pericolosa giudicavono. Era messer Benedetto uomo ricchissimo, umano, severo, amatore della libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i modi tirannici: tale che fu facile il quietarlo e farlo alla rovina di messer Giorgio conscendere. Perché la cagione che a’ popolani nobili e alla setta dei Guelfi lo avevano fatto nimico e amico alla plebe era stata la insolenza di quelli e i modi tirannici loro, donde, veduto poi che i capi della plebe erano diventati simili a quelli, più tempo innanzi s’era discostato da loro, e le ingiurie le quali a molti cittadini erano state fatte al tutto fuora del consenso suo erano seguite: tale che quelle cagioni che gli feciono pigliare le parti della plebe, quelle medesime gliene feciono lasciare. Tirato adunque messer Benedetto e i capi delle Arti alla loro volontà, e provedutosi di armi, fu preso messer Giorgio, e messer Tommaso fuggì. E l’altro giorno poi fu messer Giorgio con tanto terrore della parte sua decapitato, che niuno si mosse, anzi ciascuno a gara alla sua rovina concorse. Onde che, vedendosi quello venire a morte davanti a quel popolo che poco tempo innanzi lo aveva adorato, si dolfe della malvagia sorte sua e della malignità de’ cittadini, i quali, per averlo ingiuriato a torto, lo avessero a favorire e onorare una moltitudine constretto, dove non fusse né fede né gratitudine alcuna. E ricognoscendo intra gli armati messer Benedetto Alberti, gli disse: - E tu, messer Benedetto, consenti che a me sia fatta quella ingiuria che, se io fussi costì non permetterei mai che la fusse fatta a te? Ma io ti annunzio che questo dì è fine del male mio e principio del tuo -. Dolfesi di poi di se stesso, avendo confidato troppo in uno popolo il quale ogni voce, ogni atto, ogni sospizione muove e corrompe. E con queste doglienze morì, in mezzo ai suoi nimici armati e della sua morte allegri. Furono morti, dopo quello, alcuni de’ suoi più stretti amici, e dal popolo strascinati.

Questa morte di questo cittadino commosse tutta la città, perché nella esecuzione di quella molti presono l’arme per fare alla Signoria e al Capitano del popolo favore; molti altri ancora, o per loro ambizione, o per propri sospetti la presono. E perché la città era piena di diversi umori, ciascuno vario fine aveva, e tutti, avanti che l’armi si posassero, di conseguirli desideravano. Gli antichi nobili, chiamati Grandi, di essere privi degli onori publici sopportare non potevono, e per ciò di recuperare quelli con ogni studio s’ingegnavano, e per questo che si rendesse la autorità ai Capitani di parte amavano; ai nobili popolani e alle maggiori Arti lo avere accomunato lo stato con le Arti minori e popolo minuto dispiaceva; da l’altra parte le Arti minori volevono più tosto accrescere che diminuire la loro dignità; e il popolo minuto di non perdere i collegi delle sue Arti temeva. I quali dispareri feciono, per spazio di uno anno, molte volte Firenze tumultuare; e ora pigliavano l’armi i Grandi, ora le maggiori ora le minori Arti e il popolo minuto con quelle; e più volte ad un tratto in diverse parti della terra tutti erano armati. Onde ne seguì, e infra loro e con le genti del Palagio, assai zuffe, perché la Signoria, ora cedendo, ora combattendo a tanti inconvenienti come poteva il meglio rimediava. Tanto che alla fine, dopo duoi parlamenti e più balie che per riformare la città si creorono, dopo molti danni, travagli e pericoli gravissimi, si fermò uno governo, per il quale alla patria tutti quelli che erano stati confinati poi che messer Salvestro de’ Medici era stato gonfaloniere si restituirono; tolsonsi preeminenzie e provisioni a tutti quelli che dalla balia del ’78 ne erano stati proveduti; renderonsi gli onori alla Parte guelfa; privoronsi le due Arti nuove de’ loro corpi e governi, e ciascuno de’ sottoposti a quelle sotto le antiche Arti loro si rimissono; privoronsi l’Arti minori del gonfaloniere di giustizia, e ridussonsi dalla metà alla terza parte degli onori, e di quelli si tolsono loro quelli di maggiore qualità. Sì che la parte de’ popolani nobili e de’ Guelfi riassunse lo stato, e quella della plebe lo perdé; del quale era stata principe dal 1378 allo ’81, che seguirono queste novità.

Né fu questo stato meno ingiurioso verso i suoi cittadini, né meno grave ne’ suoi principii, che si fusse stato quello della plebe; perché molti nobili popolani che erano notati defensori di quella furono confinati insieme con gran numero de’ capi plebei, intra i quali fu Michele di Lando; né lo salvò dalla rabbia delle parti tanti beni de’ quali era stato cagione la sua autorità, quando la sfrenata moltitudine licenziosamente rovinava la città. Fugli per tanto alle sue buone operazioni la sua patria poco grata: nel quale errore perché molte volte i principi e le republiche caggiono, ne nasce che gli uomini, sbigottiti da simili esempli prima che possino sentire la ingratitudine de’ principi loro, gli offendono. Questi esili e queste morti, come sempre mai dispiacquono, a messer Benedetto Alberti dispiacevono, e publicamente e privatamente le biasimava; donde i principi dello stato lo temevano, perché lo stimavano uno de’ primi amici della plebe e credevono che gli avessi consentito alla morte di messer Giorgio Scali, non perché i modi suoi gli dispiacessero, ma per rimanere solo nel governo. Accrescevono di poi le sue parole e suoi modi il sospetto; il che faceva che tutta la parte che era principe teneva gli occhi volti verso di lui, per pigliare occasione di poterlo opprimere. Vivendosi in questi termini, non furono le cose di fuora molto gravi; per ciò che alcuna ne seguì fu più di spavento che di danno. Perché in questo tempo venne Lodovico d’Angiò in Italia, per rendere il regno di Napoli alla reina Giovanna e cacciarne Carlo di Durazzo. La passata sua spaurì assai i Fiorentini; perché Carlo, secondo il costume degli amici vecchi, chiedeva da loro aiuti, e Lodovico domandava, come fa chi cerca le amicizie nuove, si stessero di mezzo. Donde i Fiorentini, per mostrare di sodisfare a Lodovico e aiutare Carlo, rimossono dai loro soldi messer Giovanni Aguto, e a papa Urbano, che era di Carlo amico, lo ferono condurre: il quale inganno fu facilmente da Lodovico cognosciuto, e si tenne assai ingiuriato da i Fiorentini. E mentre che la guerra intra Lodovico e Carlo, in Puglia, si travagliava, venne di Francia nuova gente in favore di Lodovico; la quale, giunta in Toscana, fu dai fuori usciti aretini condotta in Arezzo, e trattane la parte che per Carlo governava. E quando disegnavano mutare lo stato di Firenze come eglino avevono mutato quello di Arezzo, seguì la morte di Lodovico, e le cose, in Puglia e in Toscana, variorono con la fortuna l’ordine, perché Carlo si assicurò di quel regno che gli aveva quasi che perduto, e i Fiorentini, che dubitavano di potere difendere Firenze, acquistorono Arezzo, perché da quelle genti che per Lodovico lo tenevono lo comperorono. Carlo adunque, assicurato di Puglia, ne andò per il regno di Ungheria, il quale per eredità gli perveniva, e lasciò la moglie in Puglia, con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli ancora fanciulli, come nel suo luogo dimostrammo. Acquistò Carlo l’Ungheria; ma poco di poi vi fu morto.

Fecesi di quello acquisto, in Firenze, allegrezza solenne, quanta mai in alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse: dove la publica e la privata magnificenza si cognobbe, per ciò che molte famiglie a gara con il pubblico festeggiorono. Ma quella che di pompa e di magnificenza superò le altre fu la famiglia degli Alberti, perché gli apparati, l’armeggerie che da quella furono fatte furono non d’una gente privata, ma di qualunque principe degni. Le quali cose accrebbono a quella assai invidia, la quale, aggiunta al sospetto che lo stato aveva di messer Benedetto, fu cagione della sua rovina; per ciò che quelli che governavano non potevono di lui contentarsi, parendo loro che ad ogni ora potesse nascere che, con il favore della Parte, egli ripigliasse la reputazione sua e gli cacciasse della città. E stando in questa dubitazione, occorse che, sendo egli gonfalonieri delle Compagnie, fu tratto gonfaloniere di giustizia messer Filippo Magalotti suo genero: la qual cosa raddoppiò il timore a’ principi dello stato, pensando che a messer Benedetto si aggiugnevono troppe forze e allo stato troppo pericolo. E desiderando sanza tumulto rimediarvi, dettono animo a Bese Magalotti, suo consorte e nimico, che significasse a’ Signori che messer Filippo, mancando del tempo che si richiedeva ad esercitare quel grado, non poteva né doveva ottenerlo. Fu la causa intra i Signori esaminata; e parte di loro per odio, parte per levare scandolo, giudicorono messer Filippo a quella degnità inabile. E fu tratto in suo luogo Bardo Mancini, uomo al tutto alla fazione plebea contrario e a messer Benedetto nimicissimo; tanto che, preso il magistrato, creò una balia, la quale, nel ripigliare e riformare lo stato, confinò messer Benedetto Alberti e il restante della famiglia ammunì, eccetto che messer Antonio. Chiamò messer Benedetto, avanti al suo partire, tutti i suoi consorti, e veggendogli mesti e pieni di lacrime, disse loro: - Voi vedete, padri e maggiori miei, come la fortuna ha rovinato me e minacciato voi di che né io mi maraviglio, né voi vi dovete maravigliare, perché sempre così avvenne a coloro i quali intra molti cattivi vogliono essere buoni, e che vogliono sostenere quello che i più cercono di rovinare. Lo amore della mia patria mi fece accostare a messer Salvestro de’ Medici e di poi da messer Giorgio Scali discostare; quello medesimo mi faceva i costumi di questi che ora governono odiare; i quali, come ei non avevono chi gli gastigasse non hanno ancora voluto chi gli riprenda. E io sono contento, con il mio esilio, liberargli da quello timore che loro avevono, non di me solamente, ma di qualunque sanno che conosce i tirannici e scelerati modi loro; e per ciò hanno, con le battiture mie, minacciato gli altri. Di me non mi incresce, perché quelli onori che la patria libera mi ha dati la serva non mi può torre; e sempre mi darà maggiore piacere la memoria della passata vita mia, che non mi darà dispiacere quella infelicità che si tirerà drieto il mio esilio. Duolmi bene che la mia patria rimanga in preda di pochi, e alla loro superbia e avarizia sottoposta; duolmi di voi, perché io dubito che quelli mali che finiscono oggi in me e cominciono in voi, con maggiori danni che non hanno perseguitato me non vi perseguino. Confortovi adunque a fermare l’animo contro ad ogni infortunio, e portarvi in modo che, se cosa alcuna avversa vi avviene, che ve ne avverranno molte, ciascuno cognosca, innocentemente e sanza vostra colpa esservi avvenute -. Di poi, per non dare di sé minore opinione di bontà fuora, che si avesse data in Firenze, se ne andò al Sepulcro di Cristo, dal quale tornando morì a Rodi. Le ossa del quale furono condotte in Firenze, e da coloro con grandissimo onore sepulte, che, vive, con ogni calunnia e ingiuria avevono perseguitate.

Non fu, in questi travagli della città, solamente la famiglia degli Alberti offesa, ma con quella molti cittadini ammuniti e confinati furono, intra i quali fu Piero Benini, Matteo Alderotti, Giovanni e Francesco del Bene, Giovanni Benci, Andrea Adimari, e con questi gran numero di minori artefici: intra gli ammuniti furono i Covoni, i Benini i Rinucci, i Formiconi, i Corbizzi, i Mannelli e gli Alderotti. Era consuetudine creare la balia per un tempo; ma quelli cittadini, fatto ch’eglino avevono quello per che gli erano stati deputati, per onestà, ancora che il tempo non fusse venuto, rinunciavano. Parendo per tanto a quelli uomini avere sodisfatto allo stato, volevono, secondo il costume, rinunziare. Il che intendendo, molti corsono al Palagio armati, chiedendo che avanti alla renunzia, molti altri confinassero e ammunissero. Il che dispiacque assai a’ Signori; e con buone promesse tanto gli intrattennono che si feciono forti, e di poi operorono che la paura facesse loro posare quelle armi che la rabbia aveva fatte pigliare. Non di meno, per sodisfare in parte a sì rabbioso umore, e per torre agli artefici plebei più autorità, providdono che, dove gli avevono la terza parte degli onori, ne avessero la quarta; e acciò che sempre fussero de’ Signori duoi de’ più confidenti allo stato, dierono autorità al gonfaloniere di giustizia e quattro altri cittadini di fare una borsa di scelti de’ quali in ogni Signoria se ne traessi duoi.

Fermato così lo stato, dopo sei anni, che fu nel 1381 ordinato, visse la città dentro insino al ’93 assai quieta. Nel qual tempo Giovan Galeazzo Visconti, chiamato Conte di Virtù, prese messer Bernabò suo zio, e per ciò diventò di tutta Lombardia principe. Costui credette potere divenire re di Italia con la forza, come gli era diventato duca di Milano con lo inganno; e mosse, nel ’90, una guerra grandissima a’ Fiorentini; e in modo variò quella nel maneggiarsi, che molte volte fu il Duca più presso al pericolo di perdere, che i Fiorentini, i quali, se non moriva, avevono perduto. Non di meno le difese furono animose e mirabili ad una republica, e il fine fu assai meno malvagio che non era stata la guerra spaventevole; perché, quando il Duca aveva preso Bologna, Pisa, Perugia e Siena, e che gli aveva preparata la corona per coronarsi in Firenze re di Italia, morì: la qual morte non gli lasciò gustare le sue passate vittorie, e a’ Fiorentini non lasciò sentire le loro presenti perdite. Mentre che questa guerra con il Duca si travagliava, fu fatto gonfalonieri di giustizia messer Maso degli Albizzi, il quale la morte di Piero aveva fatto nimico agli Alberti. E perché tuttavolta vegghiavano gli umori delle parti, pensò messer Maso, ancora che messer Benedetto fusse morto in esilio, avanti che deponesse il magistrato, con il rimanente di quella famiglia vendicarsi. E prese la occasione da uno che sopra certe pratiche tenute con i rebelli fu esaminato, il quale Alberto e Andrea degli Alberti nominò. Furono costoro subito presi, donde tutta la città se ne alterò, tale che i Signori, provedutisi d’arme, il popolo a parlamento chiamorono, e feciono uomini di balia, per virtù della quale assai cittadini confinorono e nuove imborsazioni d’uffizi ferono. Intra i confinati furono quasi che tutti gli Alberti; furono ancora di molti artefici ammuniti e morti, onde che, per le tante ingiurie, le Arti e popolo minuto si levò in arme, parendogli che fusse tolto loro l’onore e la vita. Una parte di costoro vennero in Piazza un’altra corse a casa messer Veri de’ Medici, il quale, dopo la morte di messer Salvestro, era di quella famiglia rimasto capo. A quelli che vennero in Piazza i Signori, per addormentargli, dierono per capi, con le insegne di parte guelfa e del popolo in mano, messer Rinaldo Gianfigliazzi e messer Donato Acciaiuoli, come uomini, de’ popolani, più alla plebe che alcuni altri accetti. Quelli che corsono a casa messer Veri lo pregavano che fusse contento prendere lo stato e liberargli dalla tirannide di quelli cittadini che erano de’ buoni e del bene comune destruttori. Accordansi tutti quelli che di questi tempi hanno lasciata alcuna memoria che, se messer Veri fusse stato più ambizioso che buono, poteva sanza alcuno impedimento farsi principe della città; perché le gravi ingiurie che, a ragione e a torto, erano alle Arti e agli amici di quelle state fatte avevano in maniera accesi gli animi alla vendetta, che non mancava, a sodisfare ai loro appetiti, altro che un capo che gli conducesse. Né mancò chi ricordasse a messer Veri quello che poteva fare, perché Antonio de’ Medici, il quale aveva tenuto seco più tempo particulare inimicizia, lo persuadeva a pigliare il dominio della republica. Al quale messer Veri disse: - Le tue minacce, quando tu mi eri inimico, non mi feciono mai paura, né ora che tu mi sei amico mi faranno male i tuoi consigli; - e rivoltosi alla moltitudine, gli confortò a fare buono animo, per ciò che voleva essere loro defensore, purché si lasciassero da lui consigliare. E andatone in mezzo di loro, in Piazza, e di quivi salito in Palagio, davanti a’ Signori, disse non si poter dolere in alcun modo di essere vivuto in maniera che il popolo di Firenze lo amasse, ma che gli doleva bene che avesse di lui fatto quello giudizio che la sua passata vita non meritava; per ciò che, non avendo mai dati di sé esempli di scandoloso o di ambizioso, non sapeva donde si fusse nato che si credesse che fusse mantenitore degli scandoli come inquieto, o occupatore dello stato come ambizioso. Pregava per tanto loro Signorie che la ignoranzia della moltitudine non fusse a suo peccato imputata, perché, quanto apparteneva a lui, come prima aveva potuto si era rimesso nelle forze loro. Ricordava bene fussero contenti usare la fortuna modestamente, e che bastasse loro più tosto godersi una mezzana vittoria con salute della città, che, per volerla intera, rovinare quella. Fu messer Veri lodato da’ Signori, e confortato a fare posare le armi; e che di poi non mancherebbono di fare quello che fussero da lui e dagli altri cittadini consigliati. Tornossi, dopo queste parole, messer Veri in Piazza, e le sue brigate con quelle che da messer Rinaldo e messer Donato erano guidate congiunse. Di poi disse a tutti avere trovato ne’ Signori una ottima volontà verso di loro, e che molte cose s’erano parlate, ma, per il tempo breve e per la assenzia de’ magistrati, non si erano concluse. Per tanto gli pregava posassero le armi e ubbidissero ai Signori, facendo loro fede che la umanità più che la superbia, i prieghi più che le minacce erano per muovergli, e come e’ non mancherebbe loro grado e securtà, se e’ si lasciavano governare da lui: tanto che, sotto la sua fede, ciascuno alle sue case fece ritornare.

Posate le armi, i Signori prima armorono la Piazza; scrissono di poi dumila cittadini confidenti allo stato, divisi ugualmente per gonfaloni, i quali ordinorono fussero presti al soccorso loro qualunque volta gli chiamassero; e ai non scritti lo armarsi proibirono. Fatte queste preparazioni, confinorono e ammazzorono molti artefici, di quelli che più feroci che gli altri si erano ne’ tumulti dimostri; e perché il gonfaloniere della giustizia avesse più maestà e reputazione, providono che fusse, ad esercitare quella dignità, di avere quarantacinque anni necessario. In fortificazione dello stato ancora molti provedimenti feciono, i quali erano contro a quelli che si facevano insopportabili, e ai buoni cittadini della parte propria odiosi, perché non giudicavano uno stato buono o securo, il quale con tanta violenza bisognasse difendere. E non solamente a quelli degli Alberti che restavano nella città, e ai Medici, ai quali pareva avere ingannato il popolo, ma a molti altri tanta violenza dispiaceva. E il primo che cercò di opporsegli fu messer Donato di Iacopo Acciaiuoli. Costui, ancora che fusse grande nella città, e più tosto superiore che compagno a messer Maso degli Albizzi, il quale per le cose fatte nel suo gonfalonierato era come capo della republica, non poteva intra tanti mali contenti vivere bene contento, né recarsi, come i più fanno, il comune danno a privato commodo; e per ciò fece pensiero di fare esperienza se poteva rendere la patria agli sbanditi, o almeno gli uffici agli ammuniti. E andava negli orecchi di questo e quell’altro cittadino questa sua opinione seminando, mostrando come e’ non si poteva altrimenti quietare il popolo e gli umori delle parti fermare; né aspettava altro che di essere de’ Signori, a mandare ad effetto questo suo desiderio. E perché nelle azioni nostre lo indugio arreca tedio e la fretta pericolo, si volse, per fuggire il tedio, a tentare il pericolo. Erano de’ Signori Michele Acciaiuoli suo consorte e Niccolò Ricoveri suo amico, donde parve a messer Donato che gli fusse data occasione da non la perdere, e gli richiese che dovessero preporre una legge a’ Consigli, nella quale si contenesse la restituzione de’ cittadini. Costoro, persuasi da lui, ne parlorono con i compagni, i quali risposono che non erano per tentare cose nuove, dove lo acquisto è dubio e il pericolo certo. Onde che messer Donato, avendo prima invano tutte le vie tentate, mosso da ira fece intendere loro come, poi che non volevono che la città con i partiti in mano si ordinasse la si ordinerebbe con le armi. Le quali parole tanto dispiacquero che, comunicata la cosa con i principi del governo, fu messer Donato citato; e comparso, fu da quello a chi egli aveva commessa la imbasciata convinto, tale che fu a Barletta confinato. Furono ancora confinati Alamanno e Antonio de’ Medici, con tutti quelli che di quella famiglia da messer Alamanno discesi erano, insieme con molti artefici ignobili, ma di credito appresso alla plebe. Le quali cose seguirono duoi anni poi che da messer Maso era stato ripreso lo stato.

Stando così la città, con molti mali contenti dentro e molti sbanditi di fuora, si trovavano intra gli sbanditi, a Bologna Picchio Cavicciuli, Tommaso de’ Ricci, Antonio de’ Medici, Benedetto degli Spini, Antonio Girolami, Cristofano di Carlone, con duoi altri di vile condizione, ma tutti giovani, feroci e disposti, per tornare nella patria, a tentare ogni fortuna. A costoro fu mostro per secrete vie, da Piggiello e Baroccio Cavicciuli, i quali, ammuniti, in Firenze vivevano, che, se venivono nella città secretamente, gli riceverebbono in casa, donde e’ potevono poi, uscendo, ammazzare messer Maso degli Albizzi e chiamare il popolo alle armi; il quale, sendo male contento, facilmente si poteva sollevare massime perché sarebbono da’ Ricci, Adimari, Medici, Mannelli e da molte altre famiglie seguitati. Mossi per tanto costoro da queste speranze, a dì 4 di agosto nel 1397, vennono in Firenze, ed entrati secretamente dove era stato loro ordinato, mandorono ad osservare messer Maso, volendo da la sua morte muovere il tumulto. Uscì messer Maso di casa, e in uno speziale, a San Piero Maggiore propinquo, si fermò. Corse chi era ito ad osservarlo, a significarlo a’ congiurati, i quali, prese le armi e venuti al luogo dimostro, lo trovorono partito; onde, non sbigottiti per non essere loro questo primo disegno riuscito, si volsono verso Mercato vecchio, dove uno della parte avversa ammazzorono; e levato il romore, gridando: - popolo, arme, libertà - e: - muoiano i tiranni, - volti verso Mercato nuovo, alla fine di Calimara ne ammazzorono un altro; e seguitando con le medesime voci il loro cammino, e niuno pigliando le armi, nella loggia della Nighittosa si ridussono. Quivi si missono in luogo alto, avendo grande moltitudine intorno, la quale più per vedergli che per favorirgli era corsa, e con voce alta gli uomini a pigliare le armi e uscire di quella servitù che loro avevano cotanto odiata confortavano, affermando che i rammarichii de’ mali contenti della città, più che le ingiurie proprie, gli avevano a volergli liberare mossi, e come avevano sentito che molti pregavano Iddio che dessi loro occasione di potersi vendicare, il che farebbono qualunque volta avessero capo che gli movesse, e ora che la occasione era venuta, e che gli avevano i capi che gli movevano, sguardavano l’uno l’altro, e come stupidi aspettavano che i motori della liberazione loro fussero morti e loro nella servitù raggravati; e che si maravigliavano che coloro i quali per una minima ingiuria solevono pigliare le armi, per tante non si movessero, e che volessero sopportare che tanti loro cittadini fussero sbanditi, e tanti ammuniti; ma che gli era posto nello arbitrio loro rendere agli sbanditi la patria e agli ammuniti lo stato. Le quali parole, ancora che vere, non mossono in alcuna parte la moltitudine, o per timore, o perché la morte di quelli duoi avesse fatti gli ucciditori odiosi. Tale che, vedendo i motori del tumulto come né le parole né i fatti avevono forza di muovere alcuno, tardi avvedutisi quanto sia pericoloso volere fare libero un popolo che voglia in ogni modo essere servo, disperatisi della impresa, nel tempio di Santa Reparata si ritirorono, dove, non per campare la vita, ma per differire la morte, si rinchiusono. I Signori, al primo romore, turbati, armorono e serrorono il Palagio; ma poi che fu inteso il caso, e saputo quali erano quelli che movevono lo scandolo, e dove si erano rinchiusi, si rassicurorono, e al Capitano con molti altri armati che a prendergli andassero comandarono. Tale che senza molta fatica le porte del tempio sforzate furono, e parte di loro, difendendosi, morti, e parte presi. I quali esaminati, non si trovò altri in colpa fuora di loro, che Baroccio e Piggiello Cavicciuli, i quali insieme con quelli furono morti.

Dopo questo accidente ne nacque un altro di maggiore importanza. Aveva la città, in questi tempi, come di sopra dicemmo, guerra con il Duca di Milano, il quale, vedendo come ad opprimere quella le forze aperte non bastavano, si volse alle occulte, e per mezzo de’ fuori usciti fiorentini, de’ quali la Lombardia era piena, ordinò uno trattato, del quale molti di dentro erano consapevoli, per il quale si era concluso che, ad un certo giorno, dai luoghi più propinqui a Firenze, gran parte de’ fuori usciti atti alle armi si partissero, e per il fiume di Arno nella città entrassero; i quali, insieme con i loro amici di dentro, alle case de’ primi dello stato corressero, e quelli morti, riformassero secondo la volontà loro la republica. Intra i congiurati di dentro era uno de’ Ricci, nominato Saminiato; e come spesso nelle congiure avviene, che i pochi non bastano e gli assai le scuoprono, mentre che Saminiato cercava di guadagnarsi compagni, trovò lo accusatore. Conferì costui la cosa a Salvestro Cavicciuli, il quale le ingiurie de’ suoi parenti e sue dovevono fare fedele; non di meno egli stimò più il propinquo timore che la futura speranza, e subito tutto il trattato aperse ai Signori; i quali, fatto pigliare Saminiato, a manifestare tutto l’ordine della congiura constrinsono. Ma de’ consapevoli non ne fu preso, fuora che Tommaso Davizi alcuno, il quale, venendo da Bologna, non sapendo quello che in Firenze era occorso, fu, prima che gli arrivasse, sostenuto: gli altri tutti, dopo la cattura di Saminiato, spaventati, si fuggirono. Puniti per tanto, secondo i loro falli, Saminiato e Tommaso, si dette balia a più cittadini, i quali con la autorità loro i delinquenti cercassero e lo stato assicurassero. Costoro feciono rubelli sei della famiglia de’ Ricci, sei di quella degli Alberti, duoi de’ Medici, tre degli Scali, duoi degli Strozzi, Bindo Altoviti, Bernardo Adimari, con molti ignobili, ammunirono ancora tutta la famiglia degli Alberti, Ricci e Medici per dieci anni, eccetto pochi di loro. Era intra quegli degli Alberti non ammunito messer Antonio per essere tenuto uomo quieto e pacifico. Occorse che, non essendo ancora spento il sospetto della congiura fu preso uno monaco stato veduto, in ne’ tempi che i congiurati praticavano, andare più volte da Bologna a Firenze: confessò costui avere più volte portate lettere a messer Antonio, donde che subito fu preso, e benché da principio negasse, fu dal monaco convinto, e per ciò in danari condennato, e discosto dalla città trecento miglia confinato. E perché ciascuno giorno gli Alberti a pericolo lo stato non mettessero, tutti quelli che in quella famiglia fussero maggiori di quindici anni confinorono.

Questo accidente seguì nel 1400; e duoi anni appresso morì Giovan Galeazzo duca di Milano; la cui morte, come di sopra dicemmo, a quella guerra che dodici anni era durata pose fine. Nel qual tempo, avendo il governo preso più autorità, sendo rimaso sanza nimici fuora e dentro, si fece la impresa di Pisa, e quella gloriosamente si vinse; e si stette dentro quietamente dal 1400 al 33. Solo nel 1412, per avere gli Alberti rotti i confini, si creò contra di loro nuova balia, la quale con nuovi provedimenti rafforzò lo stato, e gli Alberti con taglie perseguitò. Nel qual tempo feciono ancora i Fiorentini guerra con Ladislao re di Napoli, la quale per la morte del Re, nel 1414, finì. E nel travaglio di essa, trovandosi il Re inferiore, concedé a’ Fiorentini la città di Cortona, della quale era signore; ma poco di poi riprese le forze e rinnovò con loro la guerra, la quale fu molto più che la prima pericolosa, e se la non finiva per la morte sua, come già era finita quella del Duca di Milano, aveva ancora egli, come quel Duca, Firenze in pericolo di non perdere la sua libertà condotto. Né questa guerra finì con minore ventura che quella, perché, quando egli aveva preso Roma, Siena, la Marca tutta e la Romagna, e che non gli mancava altro che Firenze ad ire con la potenza sua in Lombardia, si morì. E così la morte fu sempre più amica a’ Fiorentini che niuno altro amico, e più potente a salvargli che alcuna loro virtù. Dopo la morte di questo Re stette la città quieta, fuori e dentro, otto anni; in capo del qual tempo, insieme con le guerre di Filippo duca di Milano, rinnovorono le parti; le quali non posorono prima che con la rovina di quello stato il quale da il 1381 al 1434 aveva regnato, e fatto con tanta gloria tante guerre, e acquistato allo imperio suo Arezzo, Pisa, Cortona, Livorno e Monte Pulciano. E maggiore cose arebbe fatte, se la città si manteneva unita, e non si fussero riaccesi gli antichi umori in quella; come nel seguente libro particularmente si dimosterrà.