Jolanda, la figlia del Corsaro Nero/CAPITOLO DECIMO

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Il sacco di Gibraltar

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CAPITOLO DECIMO

Il sacco di Gibraltar


La sera stessa, la flotta corsara abbandonava Maracaybo, non lasciando in città che una piccola partita di filibustieri, incaricati di scovare gli abitanti, che dovevano trovarsi ancora in buon numero nascosti nei boschi dei dintorni, e di sorvegliare l’entrata della laguna, onde le navi spagnole già segnalate non chiudessero il passo.

Morgan sperava, come già avevano fatto diciassette anni prima il Corsaro Nero, l’Olonese ed il Basco, di sorprendere Gibraltar e di averla in sua mano senza troppa resistenza.

Sapeva che la città era risorta più bella e più ricca, in quel periodo di calma relativamente lungo e che gli spagnoli l’avevano fortificata. Era quindi quasi certo che il conte di Medina avesse trovato colà un rifugio, non essendovene altri di considerevoli, in quell’epoca, in tutta la vasta laguna di Maracaybo.

A mezzanotte, la flotta, forte di sette navi, avendone lasciata una ai filibustieri rimasti a terra, si trovava già in mezzo al lago, avendo il vento favorevole e muoveva velocemente verso la baia de la Mochila, sulle cui rive sorgeva la città!

Morgan, come al solito, guidava in persona la sua nave, essendo più pratico di quei bassifondi. Era d’altronde un uomo a cui bastava qualche ora di riposo per rimettersi completamente, tanto era gagliarda la sua fibra.

Carmaux e Wan Stiller, che erano, si può dire, i suoi aiutanti di campo e che godevano la sua completa fiducia, gli tenevano compagnia, fumando dei grossi sigari spagnoli e chiacchierando fra di loro.

La notte, abbastanza chiara, quantunque la luna mancasse, permetteva alla flotta di tenersi al largo dalle numerose isole che ingombravano allora, molto più di adesso, la laguna. I piloti d’altronde, seguivano perfettamente la rotta della nave ammiraglia, mantenendosi su una sola linea, non essendo tutti pratici di quelle acque, che nascondevano banchi e bassifondi in gran numero.

Cominciava ad albeggiare, quando la flotta giunse in vista delle coste verdeggianti de la Mochila. Qualche lume si discerneva sull’orizzonte, ancora piuttosto fosco, annunciante l’entrata del piccolo porto di Gibraltar.

"Carmaux" disse Morgan, che non aveva lasciato, durante tutta la notte, la ribolla del timore. "Ti ricordi ancora del porto?"

"Sì, mio capitano, quantunque siano trascorsi ormai tanti anni."

"Dobbiamo governare a levante?"

"Con una quarta a greco."

"Il tuo piantatore ti ha detto di quali mezzi di difesa può disporre la guarnigione?"

"Quel povero diavolo da ieri mi sembra assolutamente imbecillito e non ha saputo dirmi nulla."

"L’hai imbarcato con noi?"

"Si trova nella mia cabina. È stato a pregarmi d’imbarcarlo, mentre io avrei fatto a meno di quel poltrone, che non ha ormai più alcun valore per noi."

"Forse t’inganni, mio bravo Carmaux. Può diventare ancora un uomo prezioso, essendo uno dei notabili di Maracaybo e conoscendo il governatore. Ho più fiducia in lui, che in tutti gli altri prigionieri."

"Colla paura che lo ha preso, mi pare che non valga più d’un negro. Si è fisso in capo che quel capitano Valera si sia accorto che è stato lui a guidare me e Wan Stiller al monastero e trema continuamente per la sua pelle."

"Lo lasceremo andare senza riscatto."

"Se avrà il coraggio di andarsene" disse l’amburghese, ridendo.

"Va a svegliarlo" disse Morgan.

Wan Stiller vuotò la pipa e pochi istanti dopo tornava in coperta, spingendosi innanzi il piantatore.

Il povero uomo pareva che fosse diventato veramente un imbecille. Si vedeva perfino troppo evidentemente che non era mai stato un uomo di guerra.

"Io ho ancora un vecchio conto da saldare con voi" gli disse Morgan, quando se lo vide dinanzi. "Direttamente od indirettamente voi foste la causa dell’impiccagione dei marinai che vi scortavano. Non ve l’ho perdonato, come forse speravate."

"Ah, signore" gemette il povero diavolo. "Voi credete ancora che..."

"Basta: ho bisogno di voi."

"Ancora? Allora uccidetemi."

"Vi farò impiccare, se lo desiderate, ma più tardi. Conoscete Gibraltar?"

"Sì, signore."

"Vi mando colà come mio parlamentario."

"Io sono un povero piantatore, senza influenza alcuna."

"Ve la procureremo noi l’influenza che vi manca" disse Morgan, con accento secco "appoggiata dai novantasei cannoni della nostra squadra."

"E se mi uccidessero invece?"

"Sapremo vendicarvi."

"Magro compenso" brontolò don Raffaele. "Se mi trova non mi risparmierà!"

"Chi?"

"Il capitano Valera."

"Tanta paura avete di quell’uomo?"

"È l’anima dannata del conte di Medina."

"È impossibile che voi lo troviate a Gibraltar" disse Carmaux. "Io sono certo che è rimasto nascosto nei sotterranei del monastero..."

"Uhm!" fece il piantatore, crollando il capo. "Non lo conoscete."

"Orsù, finitela colle vostre paure" disse Morgan. "Voi porterete al governatore di Gibraltar un mio messaggio, che ho già scritto, col quale invito la guarnigione e la popolazione a consegnarmi il conte di Medina, sotto pena, in caso di rifiuto, di distruggere la città da cima a fondo. E voi sapete che Morgan ha sempre mantenute le sue promesse."

"E se non fosse ancora giunto, signore?" chiese don Raffaele.

"M’indicheranno dove si è rifugiato. Io d’altronde sono convinto che egli si trova già in quella città. Carmaux, fa’ armare una scialuppa con dodici filibustieri, onde conducano quest’uomo a terra. Non siamo che a sei miglia dalla costa, e se alle dieci non riceveremo risposta, parola di Morgan, la popolazione si ricorderà per lunghi anni di me e dei filibustieri delle Tortue. A voi la lettera e v’auguro buona fortuna, don Raffaele."

"E se anche il governatore di Gibraltar facesse impiccare i vostri uomini?" chiese il piantatore.

"Ci saremo noi a proteggerli colle nostre artiglierie. D’altronde, sbarcherete solo voi. Andate."

Il filibustiere mise la nave attraverso il vento, onde permettere di calare in mare la scialuppa, poi, quando la vide allontanarsi, segnalò alle navi della squadra di stringere la fila e di entrare in porto.

Cosa appena credibile: gli spagnoli di Gibraltar, pur sapendo che i corsari si erano impadroniti di Maracaybo ed avendo già provati gli orrori del saccheggio commessi dall’Olonese, non aveva presa misura alcuna per opporre una lunga difesa, sicché alle sette del mattino le sette navi di Morgan poterono entrare tranquillamente nella piccola baia e gettare le àncore dinanzi alle mura ed ai fortini che si prolungavano lungo le rive della laguna.

La scialuppa, dopo d’aver sbarcato don Raffaele, era tornata a bordo della Folgore, senza essere stata disturbata, però pareva che gli spagnoli, quantunque molto meno numerosi di quelli di Maracaybo, si preparassero alla difesa, vedendoli piazzare le artiglierie di fronte alla squadra e coronare le cime degli spalti e le merlature dei castelli.

Morgan, dopo aver fatto disporre i suoi corsari ai posti di combattimento e d’aver fatto calare in acqua, bene armate con petrieri, tutte le scialuppe, si era seduto tranquillamente su un mucchio di cordami, sull’alto castello di prora della sua nave, aspettando la risposta del governatore.

Jolanda di Ventimiglia, che aveva lasciata la sua cabina, appena ricevuto l’annuncio che la flotta si preparava ad assalire la città, si teneva presso di lui, appoggiata alla murata di babordo, guardando, senza manifestare alcun timore, le artiglierie nemiche che minacciavano la squadra.

Aveva indossato un elegante vestito di seta nera con ricami e trine, il colore preferito da suo padre, che faceva risaltare doppiamente il pallore alabastrino del suo viso.

Non portava nessun gioiello. Solo una fila di perle azzurre, che dovevano avere un valore immenso per la loro tinta, era annodata intorno alla lunga capigliatura nera che portava sciolta sulle spalle.

Pareva che non facesse attenzione al formidabile corsaro, mentre invece, di quando in quando, di sfuggita, i suoi occhioni neri si fissavano rapidamente su di lui.

Quasi come sentisse la penetrazione di quegli sguardi, anche il filibustiere usciva bruscamente dalla sua apparente tranquillità e alzava il capo, girandolo verso la fanciulla.

Era già una mezz’ora che la flotta aveva gettate le àncore, senza che gli spagnoli nulla avessero tentato, quando un colpo di cannone rimbombò sulla più alta cima dei castelli, seguíto dal ben noto fischio rauco del proiettile.

La palla andò a spaccare la dolfiniera del bompresso e scheggiò la cima della polena, passando poi fra Morgan e la fanciulla.

"Ci salutano, capitano" disse Jolanda, volgendosi verso il filibustiere, che era balzato in piedi, pallidissimo.

"Ho tremato per voi" disse Morgan, gettandosi prontamente dinanzi alla fanciulla, per farle scudo col proprio corpo. "Discendete: gli spagnoli ci mirano."

"Non vi spaventate, capitano" rispose Jolanda. "Mio padre non temeva certo le palle nemiche."

"Qui fra poco cadrà piombo e ferro, signora. Vi prego, ritiratevi."

Un altro colpo di cannone era partito da uno degli spalti e la palla era passata sopra le loro teste, mandando in ischegge l’argano prodiero.

Morgan aveva afferrata la fanciulla per un braccio, traendola sulla tolda.

"Gli spagnoli pagheranno cari questi due colpi di cannone, sparati forse più contro di voi che su di me. Essi sanno di certo, a quest’ora, che voi siete con noi. Nella vostra cabina, signora di Ventimiglia."

"Quando assalirete la città, mi avvertirete?" chiese la fanciulla.

"Ecco il buon sangue del Corsaro Nero" disse Morgan, guardandola con ammirazione. "Voi siete degna d’essere la figlia del più prode campione della filibusteria."

La condusse fino al quadro di poppa, mentre le navi della squadra facevano tuonare i cannoni e le scialuppe s’empivano di combattenti per assalire i castelli.

"A noi, ora" disse Morgan, salendo sul ponte di comando. "Rispondete alla mia intimazione col ferro, e ferro e fuoco avrete, finché vorrete. Artiglieri!... Fuoco di bordata!"

Le sette navi avevano già cominciato a rispondere, con un crescendo spaventevole, tempestando gli spalti e le merlature dei castelli con uragani di bombe, mentre le scialuppe prendevano rapidamente il largo, montate da duecento bucanieri, che erano i bersaglieri della flotta.

La fregata di Morgan specialmente, avvampava come un cratere in piena eruzione, tirando delle tremende fiancate, che aprivano degli squarci considerevoli nelle muraglie non troppo resistenti della città.

La nave, non ostante la sua mole, trabalzava sotto quelle formidabili scariche, come se fosse lì lì per aprirsi, ed il rombo si ripercuoteva con tale intensità nella stiva e nelle corsìe, che gli artiglieri non riuscivano a comprendersi.

Gli spagnoli avevano dapprima risposto con molto vigore, ma dopo alcune scariche, cominciarono a rallentare.

Vedendo avanzarsi le scialuppe, volsero contro quelle le loro artiglierie, sparando a mitraglia, ma i filibustieri avevano dei piloti così destri, che assai di rado gli equipaggi, che le montavano, venivano colpiti. I pezzi avevano appena fatto fuoco, che le imbarcazioni viravano con fulminea velocità, gettandosi fuori dal campo di tiro.

L’abilità di quegli uomini e soprattutto l’esattezza matematica del fuoco dei bucanieri, i quali di rado mancavano ai loro colpi, non tardarono a sconcertare i difensori ed a persuaderli che la resistenza era ormai vana.

Ed infatti le prime baleniere erano appena sotto le muraglie, che si videro gli spagnoli sgombrare rapidamente gli spalti e le merlature e fuggire all’impazzata verso la città, senza nemmeno inchiodare le loro artiglierie.

Anche gli abitanti, erano già scappati, per mettersi in salvo nelle foreste foltissime, che circondavano il lago; troppo tardi però per sfuggire ai filibustieri, una partita dei quali si era gettata verso le savane, per tagliare loro il passo.

In meno di mezz’ora, i terribili scorridori del golfo del Messico si erano resi padroni della città, dei castelli, delle artiglierie e dei magazzini delle armi.

Furibondi per la resistenza trovata e anche per le perdite subìte, che erano state più considerevoli che nell’impresa di Maracaybo, quei predoni si erano abbandonati al saccheggio.

Morgan, come aveva già fatto a Maracaybo, si era subito precipitato del palazzo del governo, colla speranza di sorprendervi il conte di Medina, ma vi era giunto quando ormai tutti erano fuggiti.

"È una vera sfortuna" disse Carmaux a Wan Stiller. "Anche qui giungiamo quando quelli che cerchiamo hanno già sloggiato. Che quel dannato conte sia un diavolo simile a suo padre? Te ne ricordi, amburghese, come il duca di Wan Guld sfuggì al Corsaro Nero, quando cercammo di catturarlo prima a Maracaybo e poi qui?"

"Tuoni d’Amburgo!" esclamò Wan Stiller. "Si direbbe che la medesima istoria si ripete senza nessuna variante. Dove sarà fuggito quel maledetto conte?"

"Non siamo ancora certi che si sia rifugiato qui."

"Se potessimo trovare don Raffaele."

"Ci pensavo in questo istante. Quel sornione, che finge non saper mai nulla, finisce sempre col conoscere mille cose."

"Purché non l’abbiano impiccato! Tu sai che i governatori spagnoli non sono mai stati troppo teneri pei loro amministrati."

"Mi rincrescerebbe" disse Carmaux, "se avesse fatta una tale fine. Non la meritava."

"Orsù, che cosa facciamo? È inutile ostinarsi a rimanere qui, ora che gli uccelli sono scappati. Lasciamo agli altri l’incarico di frugare le cantine ed i solai. Il governatore ed i suoi ufficiali non saranno stati così sciocchi da nascondersi in questo palazzo. Cerchiamo anche noi di saccheggiare qualche casa."

"Preferisco una cantina" disse Carmaux. "Mi ripugna rubare, e poi il Corsaro Nero ci ha compensati a sufficienza, per aver bisogno di qualche mezzo migliaio di piastre."

"Invecchi, compare" disse l’amburghese, ridendo.

"È per questo che preferisco ora la bottiglia."

"Vada per la cantina, dunque. Non ne mancheranno a Gibraltar."

I due filibustieri si presero sotto braccio e s’allontanarono, senza più occuparsi dei loro camerati che si preparavano a far scontare orribilmente, a quei disgraziati abitanti, la breve resistenza opposta.

Avevano già percorse tre o quattro vie, tenendosi lontani dalle case, per non ricevere sul capo i mobili che venivano lanciati dalle finestre, assordati dagli spari che echeggiavano in tutte le direzioni e dalle urla strazianti degli abitanti, che venivano terrorizzati in tutti i modi e anche tormentati, onde confessassero i luoghi ove avevano nascosti i loro tesori, quando su una piazza s’imbatterono in un gruppo di filibustieri che schiamazzavano a piena gola.

"È preso!... È preso!..."

"Getta una corda su quel palmizio!..."

"Non ci scappi più."

"Facciamo dondolare la botte!..."

"E spilliamola per vedere se è piena di vino o di sangue!..."

"Chi hanno preso?" chiese l’amburghese.

"Il governatore di Maracaybo forse!" esclamò Carmaux.

"Accorriamo, compare!..."

I filibustieri, che pareva si divertissero come una banda di collegiali in vacanza, avevano formato circolo intorno ad uno dei palmizi che ombreggiavano la piazza, ed uno di loro erasi arrampicato fino alla cima, gettando ai compagni una fune, che terminava in un nodo scorsoio.

"Ohè!... Issa la botte!..." avevano gridato quelli che stavano abbasso.

Un urlo straziante, che fece balzare innanzi, con maggior velocità, Carmaux e Wan Stiller, si udì, poi un corpaccio grosso veramente come una botte s’alzò fra quel gruppo d’uomini, agitando pazzamente le braccia e le gambe.

Era l’impiccato, che veniva tirato in aria.

"Tuoni d’Amburgo!" urlò Wan Stiller, sguainando la sua draghinassa. "Don Raffaele!".

In pochi slanci furono addosso ai filibustieri che ridevano a crepapelle, vedendo le smorfie che faceva il povero piantatore e sfondarono impetuosamente il circolo, mandandone parecchi a gambe levate.

"Ferma!... Ferma!..." tuonò Carmaux, alzando minacciosamente la sua spada.

L’amburghese, che era molto più alto del compagno, con un colpo di draghinassa aveva tagliata la corda ed aveva ricevuto fra le braccia don Raffaele, che era già diventato paonazzo e che aveva cacciato fuori mezzo palmo di lingua.

L’atto di Wan Stiller e l’aria minacciosa di Carmaux, avevano prodotto un effetto così profondo sui corsari, che nessuno si era mosso per impedire che il povero piantatore venisse salvato. Solo uno di loro, forse più seccato degli altri di essere privato di quel divertimento, s’alzò dinanzi a Carmaux, dicendogli con accento irritato:

"Hai proprio giurato di proteggere sempre quel pappagallo? Per la seconda volta ce lo strappi dalle mani e cominciamo a perdere la pazienza."

"Saresti capace di ripetere queste parole in presenza del capitano Morgan?" gli chiese Carmaux, muovendogli incontro.

Il corsaro fece una smorfia, che fece scoppiare dalle risa i suoi compagni.

"Andatevene dunque" disse Carmaux. "È l’ordine."

Poi i filibustieri, che sapevano che con Morgan non vi era da scherzare, e l’amburghese e Carmaux godevano la piena confidenza del capo, si sbandarono in varie direzioni, lasciandoli soli.

"Come va don Raffaele?" chiese Carmaux al piantatore, a cui l’amburghese faceva inghiottire alcuni sorsi d’aguardiente.

"È meglio che mi uccidiate, signori" rispose il disgraziato. "Ormai sono un uomo finito."

"Con tutta quella polpa che avete indosso! Eh via, don Raffaele! State meglio di noi."

"Se non mi uccidete voi, lo faranno gli altri."

"No, perché noi vi proteggiamo. Avete veduto il conte di Medina?"

"No, e credo che non sia venuto qui, ne sono certo. Perderete inutilmente il vostro tempo, se vorrete cercarlo."

"E il governatore della città?"

"Fuggito anche lui, signore, dopo le prime cannonate e dopo d’avermi fatto anche bastonare."

"Voi? E perché?"

"Perché gli ho portata la lettera del capitano Morgan. Ho le ossa tutte rotte. Maledetti galli!... Senza quella lotta, non mi avreste preso e non avrei dovuto sopportare tante disgrazie."

"Vi abbiamo fatto guadagnare un bel gruzzolo di piastre e vi lagnate ancora" disse Wan Stiller, ridendo. "Ecco la riconoscenza degli uomini!..."

"Venite, don Raffaele" disse Carmaux. "Vi faremo passare lo spavento con un paio di bottiglie d’Alicante, di quello che tanto vi piace. Il mio camerata saprà scovare qualche cantina."